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CINZIA CARNEVALI, SILVIA CICCHETTI Comprendere il trauma e dimensione evolutiva del transfert nel trattamento psicoanalitico individuale e in gruppo: dalla violenza al riconoscimento dell’altro

Senza il femminile all’origine non c’è vita possibile, non c’è luogo per l’uomo
(Tilopa, Maestro Tibetano di Tantra)

Questo lavoro vuole mettere in evidenza la relazione esistente tra trauma individuale e trauma sociale prendendo in considerazione l’enigma della violenza, in particolare sul corpo femminile. Vorremmo analizzare anche le dinamiche individuali e sociali che orientano il modo di relazionarsi con sé stessi e con l’altro diverso da sé nella diversità di genere.

Il corpo femminile è collocato nella nostra mente e nel sociale e detta determinati significati.

Francoise Héritier (1978) prende in considerazione la mascolinità come connotata da una originaria insicurezza e da emozioni specifiche che hanno portato ad una percezione oppositiva e non dialettica del femminile. Assumere una identità dominante, aggressiva e violenta non è stata nella storia operazione semplice né indolore.

Pensiamo da tempo che enfatizzare la differenza come unica categoria interpretativa dell’identità sessuale del soggetto umano finisca col farci restare nella logica del dualismo sessuale. Occorre invece maturare un pensiero complesso che sappia fare i conti con la verità dei soggetti reali, lasciando in tensione continua differenza ed uguaglianza; occorre dare spazio alla massima libertà per entrambi i generi, nella sperimentazione di soggettività libere e sviluppare creativamente alcune forme in divenire i cui elementi sono lo slancio, l’imprevisto, il gioco.

Soprattutto occorre rimuovere le stereotipie mortifere che inibiscono e paralizzano la soggettività di ogni essere umano, in particolare la soggettività femminile, sempre imprigionata e bloccata nel suo manifestarsi libera e vitale. L’identità autonoma della donna è ancora in cerca di affermazione e sviluppo. L’ autonomia è ancora osteggiata sia da rigidità sociali che da fattori interni (intrapsichici).

Riguardo alle ricerche sul trauma individuale e su quello sociale massivo, Kemberg (2008), nella prefazione al libro di Clara Mucci (2014), delinea una innovativa clinica del trauma basata su un concetto di psicoanalisi come pratica sociale di testimonianza e su una nozione etica e relazionale del processo di cura.

Clara Mucci indica strade nuove per la psicoterapia di uno degli eventi disconosciuti della nostra società, a livello familiare, intergenerazionale, politico e sociale. Ipotizza inoltre un “al di là del trauma”, una possibile interruzione nella catena delle identificazioni traumatiche tra una generazione e l’altra, un “andare oltre” la posizione interna di vittima e di persecutore. Processo che si può sviluppare come integrazione intrapsichica delle scissioni interne, senza alcuna accezione religiosa, identificando nella resilienza la capacità del sopravvissuto alla violenza di superare la disumanizzazione e l’esperienza del male. Un “al di là del trauma” che consiste in una profonda riparazione del soggetto come del “tessuto” sociale ferito.

Paura e invidia possono connotare il legame d’amore. Anche nei legami di intimità. È palese l’incapacità di troppi uomini a riconoscere e accettare il libero desiderio della donna, una sorta di insostenibilità che si trasforma in violenza.

 

Nel nostro lavoro con le pazienti traumatizzate sottolineiamo l’importanza di interessarsi sia alla complessità della realtà esterna, il reale, sia alla complessità interna, l’aspetto fantasmatico, e cercare una loro conciliazione ed elaborazione. Cercheremo di mettere in luce i conflitti e le rigidità traumatizzanti e a volte annientanti la sopravvivenza fisica e psichica della donna.

Molte emozioni impensabili e insopportabili vengono negate, scisse e proiettate.

Il trauma ha radici profonde sia nel sociale che nell’individualità. Occorre un lungo periodo di tempo e testimonianza partecipe del terapeuta per rendere raffigurabili le immagini e le sensazioni dolorose di impotenza ad opporsi alla violenza, al subire l’odio e la distruttività che passa anche in modo transgenerazionale (Fainberg, 2002, 2006)

Dopo Freud (1985) alcuni autori hanno approfondito il ruolo di “un’originaria esperienza traumatica” che impedisce l’elaborazione di pensieri che possano raffigurarla e che impedisce l’aspetto strutturante della conflittualità edipica, predisponendo un “precipitato della parola nel corpo” (Racalbuto 2004), cioè un passaggio dal linguaggio verbale a quello somatico.

Ferenczi S. (1932b) in Confusione delle lingue tra gli adulti e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione, situa per primo il trauma all’interno della relazione di fiducia.

Diversi autori, successivamente, concentrandosi su aspetti diversi, hanno ripreso il tema delle “carenze assistenziali” come radici del trauma all’interno della relazione primaria. Una non disponibilità della mente della madre a contattare e “tenere teneramente” (Winnicott, 1971) la mente del bambino, come una modalità traumatica che si instaura e si prolunga nel tempo.

L’assenza di disponibilità della mente della madre come condizione centrale di fronte al vissuto di impotenza/dipendenza del bambino si contrappone per questi autori all’idea di violenza, intrusività, seduttività che fino ad un certo momento aveva caratterizzato la concettualizzazione dello scenario traumatico (Bion, 1959,1961; Aulagnier, 1995).

Ad ogni modo possiamo sostenere che in ambedue le diverse condizioni, si possa osservare l’incapacità di tenere un limite tra l’essere eccessivamente presente oppure totalmente assente. In ambedue i casi, infatti, ciò che si osserva è l’istaurarsi di una relazione disfunzionale, non sintonica ne armonica tra madre e bambino.

Per il bambino decodificare la presenza/assenza e le qualità dell’altro cioè della madre è un compito estremamente complesso perché proprio la sua mente in costruzione rende questa presenza/assenza estremamente enigmatica e difficile da configurare.

Fairbain (1952, 1954) riteneva che la situazione originaria psichica di base è quella che si riscontra negli stati isterici e scrive: «[…] interpreto in questo senso le urla di crisi del lattante». Si potrebbe pensare che questo bisogno corporeo fornisca un luogo corporeo per esprimere il disagio psichico o il conflitto, sia in un certo senso costituzionale e si avvalga dei processi di identificazione primari e delle spinte imitative originarie. In seguito ai nuclei traumatici il bambino si difende proprio per evitare di entrare in contatto con le emozioni legate al trauma, all’angoscia di perdere il contenimento e di morire. Intendiamo come trauma (dal greco, danneggiare, ledere), un vissuto sia fisico che psichico o entrambe le cose, dagli effetti così soverchianti dal punto di vista emotivo e fisico, che il soggetto non può farvi fronte, perché minaccia la coesione della mente e la sopravvivenza.

L’angoscia può allora, difensivamente, essere trasformata in una fantasia onnipotente ed eccitante.

Le prime difese che la nostra mente attiva sono: ritirarsi in un rifugio autistico che cancella l’altro, scindere e proiettare.

In ogni perversione c’è un’esclusione dell’altro dalla relazione ed anche una fantasia che nega l’esistenza e l’autonomia dell’altro come soggetto separato, intrappolandolo nell’impotenza e nell’angoscia di annientamento. Questa è proprio la matrice delle perversioni e della violenza: l’eliminazione del desiderio dell’altro in quanto diverso.

L’alterità viene negata in quanto la persistenza di un modello di identificazione primario in cui l’altro resta confuso, rischia di produrre il rigetto e la cancellazione dell’altro.

Come fa notare Walter Bruno «accanto al desiderio fortissimo di separarsi» esiste «un altrettanto prepotente spinta a ri-unirsi all’oggetto» con il quale si cerca un legame idealizzato e fusionale che al tempo stesso rassicura e rende schiavi e per evitare la colpa della separazione (Bruno W.,1993).

«E proprio dalla fusione narcisistica con l’oggetto significativo nasce la possibilità di separazione e di un reciproco riconoscimento, di costruzione di un’immagine di Sé accettabile». Ma l’assenza, la carenza, del corpo materno, in cui langue la veicolazione degli affetti lascia un vuoto che non si riempie con il cibo o altro.

La mancanza di un dialogo percettivo sensoriale nei primi mesi di vita provoca una non elaborazione psichica della separazione. La messa in scena, nella ripetizione nel transfert, del conflitto d’alterità e del conflitto di potere, sono situazioni che possono mettere in scacco l’analista e farlo sentire impotente. Per questo occorre che l’analista sia in grado di accogliere e far transitare sul suo corpo l’eccitazione o le percezioni sensoriali comunicate dalle pazienti che vi descriveremo, per consentire lo sblocco del “transfert corporeo” (Carnevali, 2017) verso lo sviluppo del transfert evolutivo.

Nel lavoro analitico pensiamo sia importante fare attenzione al transfert e al controtransfert e all’ immedesimazione e comunicazione empatica dell’analista nei diversi contesti descritti oltre al suo lasciarsi coinvolgere in tutta la sua persona.

Tratteremo due casi clinici uno in analisi individuale e uno in gruppo di psicodramma analitico.

 

Nella nostra esperienza clinica i pazienti portano, non a caso, difficoltà nel legame con l’altro. Rimasti ostaggio dell’unità narcisistica, si difendono restando sufficientemente a distanza (le labbra non si aprono più né per una forchettata, né per una parola di spiegazione), preservandosi per quanto possibile, dall’incontro con tutto ciò che è l’altro da sé (Carnevali, Bruno F., Errani 2008).

 

Per Freud la seduzione materna originaria, oltre alle cure materne ha sempre svolto un ruolo importante. Questo perché le cure materne possono rivelare allo stesso tempo l’intrusione inconscia della sessualità della madre nel bambino.

La madre fungerà da prototipo per tutte le successive relazioni amorose di entrambi i sessi. Il neonato, trattato con l’intensità di un amore che ancora non conosce (per l’immaturità del suo psichismo), viene riempito e penetrato (André 1995), in una posizione psichica femminile recettivo-passiva che richiama l’elemento femminile della duplice disposizione originaria propria della bisessualità.

Questo ci riporta a Ferenczi (1932b) quando segnalava che i bambini possono essere intrusi e penetrati nella loro vita in prima istanza per effrazione del sé originario, dall’amore sessuale inconscio (passione) che l’adulto porta in relazione alla confusione delle cure sia materne che paterne.

 

A volte un troppo di madre e un difetto del padre può scatenare dei conflitti edipici precoci inelaborabili per la psiche e produrre conseguenze traumatiche di deficit di triangolazione e di difficoltà di elaborazione del processo separazione-individuazione che non consente la crescita della capacità di una sufficiente tolleranza ai conflitti stessi.

Questo potrebbe essere uno dei motivi dello scatenarsi della violenza contro il corpo femminile. Per entrambi i sessi, fisiologicamente per “essere” (identità) è necessario ricorrere all’identificazione primaria con la madre, all’ «Io sono il seno» di Freud (1938b), e al «bambino che diventa il seno» di Winnicott (1971) e all’ «imitare per essere» di Gaddini (1969).

A volte possono coincidere la madre delle cure e della tenerezza e la madre della seduzione, la madre della sensorialità e la madre del pensiero, e convergere nella costituzione di un unico oggetto confuso di varie funzioni, rappresentazioni e significati. Un oggetto unico, preferito, su cui rappresentare vari personaggi, un oggetto unico di una diade che non tollera, non prevede e non rappresenta a sufficienza il terzo, e perciò un altro oggetto (modalità anti-padre, anti-edipo).

Memoria storica e fantasia sono polarità costantemente in gioco (Green 1994, Bonfiglio 1997, Correale 2010.)

 

Vignette cliniche

Anna

La paziente che descriveremo, seguita con un trattamento analitico individuale, nella insopportabilità dell’impotenza e del terrore, si sentiva confusa e dubitava della verità del suo sentire, nevrotizzandosi ossessivamente nel dubbio se avesse subito la violenza o l’avesse fantasticata. Imprigionata dai dubbi e colpa spesso con disperazione in seduta ripeteva: «Sono stata io dottoressa, io l’ho fatto?».

Parliamo di Anna, una ragazza di 21 anni, mora, piuttosto alta e con un bel viso di bimba.

Al primo colloquio la terapeuta nota subito che il suo corpo è un po’ goffo, gli abiti che indossa ordinati e puliti sembrano più piccoli del necessario, il corpo troppo grande infilato in panni troppo piccoli.

È nata in America Latina e all’età di circa un anno arriva in Italia con i suoi genitori, invitati dalla nonna materna che vive in Italia con un compagno italiano che ha una piccola azienda.

La nonna materna offre una possibilità di lavoro alla figlia, mentre il genero inizia a frequentare corsi di lingua italiana e di formazione, svolge diversi lavoretti sul territorio fino a quando diventa operaio in una piccola azienda.

La mamma di Anna è inquieta, fa fatica ad adattarsi al nuovo paese e alla nuova lingua, è viva in lei la fantasia di tornare nel paese di origine. Nei primi anni successivi al trasferimento in Italia, Anna e la sua mamma faranno diverse volte avanti e indietro tra i due paesi. La mamma per diverse volte prende con sé Anna e la riporta nella loro terra di origine sottoponendo la piccola a separazioni improvvise, viaggi e periodi di soggiorno all’insegna della estrema precarietà. Anna racconta di avere cambiato molte volte abitazione e di non sapere con precisione i motivi di questi continui cambiamenti ma suppone che dipendessero dal fatto che la mamma fuggisse da qualcosa.

Anna e la sua mamma erano completamente abbandonate a se stesse, fuse e confuse e forse vittime entrambe.

Al termine di questo periodo, che coincide con l’ingresso di Anna nella scuola dell’infanzia, la madre smette di viaggiare e si stabilizza in Italia. Da quel momento riprende il lavoro presso l’azienda di famiglia diventando una vera e propria stacanovista. Anna racconta di lunghe ore trascorse da sola in casa in attesa che tornasse qualcuno. In quelle ore spesso Anna dormiva e ricorda come quel sonno fosse l’unico modo (oltre ai cartoni animati) che aveva a disposizione per far passare il tempo e fare fronte alla tristezza e ai sentimenti di abbandono.

Nel frattempo il padre di Anna prende una laurea e assume una buona posizione all’interno dell’azienda presso la quale già lavora.

Anna ricorda anche forti discussioni tra i genitori, spesso per il denaro e soprattutto a causa delle scenate di gelosia della madre.

Quando Anna ha circa 10 anni la mamma resta di nuovo incinta e nasce un fratellino. Dopo la nascita del fratello la situazione in famiglia peggiora, i genitori litigano sempre più spesso. La mamma depressa inizia ad avere strani comportamenti.

Attenta osservatrice della madre, Anna scopre messaggi su facebook con sconosciuti e cerca di coinvolgere il padre nel controllo della madre. La situazione precipita, i due genitori si separano, Anna e il fratello vanno a vivere con il padre.

La mamma subito dopo la separazione (Anna ha circa 14 anni), tenta il suicidio ingerendo dell’antigelo.

Nei lunghi giorni del ricovero Anna, disperata, più volte pensa che forse sarebbe meglio liberarsi della madre, un peso diventato insopportabile, ma lasciata sola scivola insieme a lei nel buio depressivo.

La madre viene dimessa e per un certo periodo assume farmaci, Anna torna a vivere con lei mentre il fratello rimane con il padre.

Quando la madre riprende il lavoro nell’azienda di famiglia cominciano furiose litigate con Anna, la mamma spesso si esprime in maniera molto aggressiva e traumatizzante nei confronto della figlia adolescente. Anna sempre più depressa, fa fatica a comunicare con gli altri, abbandona la musica che le è sempre piaciuta tanto, lascia il coro nel quale ha cantato per anni e anche la scuola che le è sempre piaciuta diventa un luogo ostile, non riesce a studiare e sente un profondo distacco dai suoi compagni.

Nelle sedute Anna finalmente ha uno spazio di ascolto per raccontare la sua storia, lo fa con una certa pacatezza, ma anche con malinconica tristezza.

Il presente appare essere per lei dolorosissimo e il futuro non esiste. Sei mesi prima di arrivare in terapia ha subito un ricovero in psichiatria a causa di una crisi psicotica instauratasi i giorni successivi ad una forte lite che ha avuto con la madre. Anna racconta che in stato di inquietudine non riusciva più a dormire, che si sentiva sempre molto preoccupata del fatto che gli altri potessero preoccuparsi per lei e che le era diventato difficilissimo svolgere il suo lavoro e avere rapporto con i colleghi. In un costante stato di ansia, si sentiva confusa e non sapeva più cosa fare, non riusciva a mangiare e a volte piangeva.

Precisa anche che le pare di non avere un ricordo chiaro di quei giorni che sente avvolti da un velo.

 

Nella terza seduta dopo la prima separazione estiva arriva in orario, ha un’espressione triste, ma accenna un sorriso cercando lo sguardo dell’analista. Dice di ritenere che questa tristezza non sia uno stato transitorio ma che sia proprio lei ad essere fatta così. Muove una mano per indicare qualcosa di piatto e descrive il suo sentirsi sciatta, poco curata. Sente un vuoto, le manca qualcosa.

Ad ogni modo si è iscritta in palestra ma non sa se riuscirà ad andare.

La terapeuta ricorda la sensazione avuta al primo colloquio, le torna l’immagine che l’aveva colpita subito: il sacco vuoto, la goffaggine, la parte di sé abbandonata e senza struttura portante, farebbe pensare a una bambina in un corpo ingombrante e che non percepisce come sessualizzato. Le domande sul futuro al quale non riesce a dare risposta e questo lasciarsi andare alle cose senza sentore di poter imprimere loro una direzione la fanno sentire ancora più inutile

 

L’analista sente un senso di vuoto somatizzato allo stomaco e una vertigine forse un senso di caduta, di crollo, possibile traccia di un’emozione dolorosa di mancanza e pensa di proporre ad Anna una riflessione: «Penso sia doloroso e faticoso contenere l’angoscia di cadere giù nel vuoto sentendo mancare le braccia della mamma che contengono e tengono in braccio, ne senti la mancanza».

 

Anna allora racconta un momento felice nella sua infanzia, si trova nel suo paese in America Latina al chiosco dei gelati dove pagando una quota fissa puoi mangiare tutto il gelato che vuoi. Le pare di avere cinque anni, forse meno.

Terapeuta: «Sì, conosco questa gelateria, deve essere davvero molto divertente, in Italia non c’è nulla di simile».

Anna sorride e chiede come faccia a sapere di quella gelateria e la terapeuta le risponde che un’amica che lavora nel suo paese le ha parlato di questa gelateria nel parco.

Anna sorride, è contenta.

 

Anna: «Sa che per molto tempo quando mi facevano domande sul mio passato io cercavo di sorvolare, semplificare, non era facile per me raccontare la storia perché è una storia complicata. Lei adesso la sa. Avanti e indietro dal Paese all’Italia e tutto il resto … io adesso mi sento italiana, magari del mio paese mi piace la musica, ma la musica mi piace in generale. Tutto questo andare e venire deve avere avuto un peso, mi ha bloccato, rallentato, come se dovessi “o stare qua o stare là».

T.: «I cambiamenti possono essere sentiti come delle vere e proprie rotture e come se ogni volta si spezzasse qualcosa. La separazione dalle proprie origini, la separazione dei genitori … Effettivamente possiamo pensare che tutto questo andare e venire e tutti i cambiamenti possano essere stati molto faticosi per una bambina. Ogni volta bisognava ricominciare da zero».

Sorride e dice che pensa sia stato proprio così. Prima non riusciva a capirlo.

L’analista inizia a sentire che qualcosa si sta sgelando (senza essere costretti ad ingerire l’antigelo). Forse ha l’urgenza di farle una domanda. Ma quale domanda? Guarda l’orologio e vede che mancano ancora 15 minuti, pensa al tempo del trauma, forse sta ripartendo il tempo, la possibilità di sbloccarsi e di pensare.

Anna continua: «È faticoso, ma utile, è come se mettessi ordine. Mi fa bene».

La terapeuta sente che sta affacciandosi qualcosa di nuovo, di non conosciuto.

Anna: «Avevo pensato che forse sono pronta a dirle di quel mio pensiero. È che è molto difficile parlare di questa cosa. Il problema è che non riesco a capire se è vera o no e questa cosa mi fa molto soffrire, mi confonde e mi torna continuamente in mente. Avevo circa 9 anni e ho sentito il mio corpo cambiato. Poi ricordo che ero stesa a terra e c’era mio padre su di me». Poi … abbassa gli occhi, si commuove, trattiene le lacrime e tace.

Anna invasa da vergogna non riesce a dirlo.

Forse vuole aprirsi e comunicare un dolore agghiacciante, compare un’immagine violenta della relazione con il padre, un abuso sessuale, l’analista pensa con terrore alla ragazzina che subisce impotente un rapporto sessuale e sente il terrore di Anna.

Anna: «È tremendo. Dopo il rapporto ho sentito il mio corpo che cambiava. Non so, una sorta di eccitazione, ma non capivo assolutamente cosa stava succedendo. L’ho capito solo dopo, a distanza di tempo, lì per lì non mi era chiaro nulla, se non che io stavo là, sotto di lui, era quasi come se non ci fossi. Poi è come se a un certo punto il mio io andasse in alto e vedessi questa scena dall’alto, la schiena di mio padre e io sotto di lui». Piange sommessamente.

  1. (sentendosi testimone di una ferita mortificante e cercando di far sentire la sua condivisione): «È un grande dolore, le chiedo perdono per quello che ha subito. Non si è potuta difendere … lei ha la sensazione che in quella occasione il rapporto sessuale si sia spinto fino alla penetrazione e, per difendersi da questa ferita profonda al Sé, si è divisa, una parte è andata in alto fuori di sé come non stesse succedendo a lei».

Anna: «Sì, secondo me sì, io non lo capivo, ma per quello che ho capito in seguito penso di sì. Ricordo una specie di eccitazione, ma anche quello l’ho capito dopo. Allora avevo solo 9 anni. Ero piccola». Piange.

«Non avevo ancora il ciclo che ho avuto più avanti. Questa scena mi è tornata in mente quando avevo 16 anni. Non so perché. È emersa questa scena dentro di me e io non riesco a capire, però secondo me è tutto vero«.

T.: «Certo era proprio una bambina, era difficile capire, capiva ma era troppo doloroso e spaventoso, si può comprendere che abbia provato dei dubbi, che abbia medicato l’impotenza con l’identificazione con suo padre che l’aggrediva e che si eccitava, non poteva fare diversamente, cerchi di assolversi».

Non tollerando la separazione dalle sedute, soprattutto nelle pause sia settimanali che estive, riprenderà le sedute nel mutismo. Stesa immobile sul lettino, faceva sentire la terapeuta una nullità alle prese con dolorosa impotenza e rabbia. La paziente cercava di mantenere una sorta di continuità interna evitando la dissoluzione traumatica del sentimento di sé e della sua identità.

Riteniamo che sia in atto in Anna la difesa della dissociazione, già Freud (1892-95) riteneva la dissociazione come una reazione dinamica al conflitto e Ferenczi (1934, p.101) in dialogo di pensiero con l’ultimo Freud scriveva: «Un forte shock, infatti, equivale all’annientamento della coscienza di sé, della capacità di resistere, di agire e di pensare in difesa del proprio Sé».

«La dissociazione può essere compresa come un continuum che va da una sana capacità di stare tra gli spazi di una molteplicità di stati del sé che fluiscono armoniosamente, alla dissociazione come rigida difesa, via di fuga inerente esperienze traumatiche all’interno di relazioni significative. Ciò istituisce uno schema di funzionamento separato nella psiche, non integrato, che si esprime per lo più nell’azione. Nel lavoro con questi pazienti è molto importante l’essere, l’esserci dell’analista e condividere con loro vivide e dolorose oscillazioni di polarità estreme come: “realtà fantasia, verità finzione, impressioni percettive impronte del traumatico in cerca di rappresentazione e trasformazione, in un divenire incessante della vita psichica”»(Bastianini, 2009, 2017).

Trattamento analitico in gruppo

Prenderemo in considerazione ora una seduta di analisi in gruppo alla ripresa dopo la pausa estiva, con lo psicodramma analitico secondo il metodo di G. e P. Lemoine (1972) e della psicoanalisi francese con un contenuto emotivamente traumatico. L’assenza del gruppo durante la pausa viene percepita come un elemento traumatizzante che fa emergere angosce di abbandono: non sentire più la terra sotto i piedi, uno scivolare verso l’impotenza, l’annientamento, la perdita di identità.

Luca prende la parola e con rabbia comunica che ha deciso di lasciare il gruppo, pensa di poter fare da solo e fa presente con senso di trionfo che potrebbe andare all’estero e fare un lungo viaggio. Siamo colpite dal vigore con cui attacca aggressivamente il gruppo terapeutico appena ritrovato. Le emozioni, ancora non pensabili, irrompono e invadono il contenitore. Nel vuoto relazionale e nella mancanza siamo messi alla prova nell’affrontare uno stato di non pensiero e di impotenza. Dal silenzio emerge la voce di Nadia che racconta di aver avuto un incidente con l’auto, proprio mentre stava parlando al cellulare con la madre lontana.

Rita invece associa un sogno, un brutto sogno in cui un professore o un datore di lavoro le mostrava le prove insufficienti per poter continuare il corso di formazione scolastico o lavorativo. Lo collega al senso di impotenza provato dal figlio che non è stato preso dall’allenatore nella squadra di calcio. Era tornato a casa mortificato con lo sguardo basso e dicendo con tono cupo e irremovibile di non voler più andare agli allenamenti, non ne ha più voglia. A Rita vengono gli occhi lucidi, compare il riconoscimento di un dolore di esclusione. Anche Rita vorrebbe inviare il suo curriculum per cercare lavoro, ma non si decide a farlo. Sono giorni che ha un gran mal di testa e per dormire è ricorsa a un farmaco per il dolore, ma che è anche un leggero antidepressivo.

La terapeuta si avvicina a Luca e lo stimola a dire ancora qualcosa sul suo malessere.

Si porta a giocare Luca: ci sono due operai che lo stanno aiutando ad aggiustare il braccio del portone della sua abitazione, ma questa riparazione non lo soddisfa, lui vuole la perfezione e non sopportando la mediazione li manda via a malo modo, dovranno tornare il giorno dopo. Lo stesso atteggiamento aggressivo lo agisce con una giovane ragazza che dovrebbe aiutarlo nei disegni e che deve subire il suo controllo e possesso in una sorta di inversione di ruolo, in quanto lui ha tanta paura che la donna e la mamma lo riducano dipendente e senza una sua volontà

Nicola ricorda quando, adolescente, andò in un paese lontano per riuscire a staccarsi dai genitori. Non aveva il coraggio di rivelare quello che stava agendo e solo ora si chiede che cosa lo avesse spinto a partire ed andare così lontano. Ricorda di aver soggiornato in un ostello dove dopo qualche settimana si era accorto che un compagno aveva un comportamento strano: rigava le porte ed anche i vetri della finestra disegnando con il dito una croce nera, sembrava un atteggiamento folle, satanico, che lo terrorizzava.

L’odio di Luca verso l’oggetto di cura/madre-assente, risuona in Nicola che accetta di incontrare un aspetto distruttivo satanico che lo aveva portato ad allontanarsi da casa dei genitori.

Luca ricorda che da ragazzino cercava un contatto con la madre depressa che non prestava attenzione ai suoi bisogni e le chiedeva di grattargli la schiena. Viene giocata la scena e Luca sceglierà Rita per fare la madre. Nel gioco la madre pur toccandolo sulla schiena non lo guarda e rimane distante. La frustrazione lo fa disperare ed anche dopo l’inversione dei ruoli in cui Luca nel ruolo della madre appare un pochino più tenera, non sente che il dolore e l’angoscia del vuoto siano alleviati.

Dopo il gioco ricorderà che in quel periodo 12-13 anni, aveva cominciato a non tornare più a casa a girovagare con scarpe sempre più rotte, a non mangiare (rigetto del nutrimento materno) e ad odiare le ragazze, tutte le donne traditrici e abbandoniche.

Le scarpe rotte, danneggiate, sono parte della sua identità che viene danneggiata dal trauma cumulativo (Masud Khan, 1963), giorno dopo giorno, dalla trascuratezza e dall’abbandono.

La dolorosissima dipendenza umilia i bambini e gli adolescenti e li condanna alla solitudine rovinosa, alla devianza adolescenziale.

Il cambio di ruolo consente un rispecchiamento, ma Luca non incontrando lo sguardo della madre non vede il Sé, lo percepisce, ne comprende l’estrema vulnerabilità, ma non lo simbolizza, lo specchio è vuoto e non può formare “la funzione dell’Io” (Lacan, 1949).

Kohut (1977,1984) propone una nuova visione integrativa nell’avere accesso al Sé ferito e alle sue cicatrici, nell’individuare il nucleo centrale del sé con la sua vulnerabilità e imperfezione e nel condividere esperienze di fallimento.

Rita ritornerà al suo sogno che verrà giocato, per la parte del professore sceglierà Luca, Nadia e Nicola saranno i compagni di scuola.

Dal gioco emergerà un doloroso sentimento di vergogna per essere mandata via, e per il fallimento della prova. Il professore dice: «Hai sbagliato non puoi restare». A nulla valgono gli esili tentativi di poter fronteggiare il capo (Super-Io sadico) che le ricorderà un altro sogno in cui si trovava in auto e percorreva la strada contromano, ad un certo punto incontrava il padre, che l’abbracciava e la baciava in bocca. Lei provava disgusto, ma si sentiva confusa. Quando riesce a separarsi si tocca per sentire quanto il suo corpo sia stato danneggiato. Per fortuna non lo è in modo irreparabile.

Da bambina era molto esile e magra, non mangiava e si sentiva brutta. La mamma c’era ma era assorbita dai suoi problemi con il marito che la tradiva. Il padre era molto assente e più volte, quando tornava ubriaco, aveva tentato di abusare della bambina. Rita si sentiva indegna colpevole e annientata dalla vergogna.

La speranza e la fiducia in gruppo si sviluppano con la partecipazione e il coinvolgimento nel processo analitico. La condivisione e la co-costruzione in gruppo possono produrre un nuovo campo, una nuova area di esperienza di possibile mentalizzazione per poter abitare il proprio corpo e “gli attacchi al corpo” e al corpo del gruppo, possono essere pensati come un tentativo di creare un qualche senso di esistere (Carnevali, 2017; Carnevali, Masoni, 2017).

Nella seduta successiva, Nadia parlerà del suo timore di non essere in grado di scegliere, ostacolata dalla fretta e dalla pretesa di perfezione. Assumere un ruolo di responsabilità sul lavoro la spaventa ha paura di sbagliare e di deludere le aspettative. Eppure le dicono che è brava, i genitori le hanno spesso ripetuto che era brava, ma questo ha ottenuto l’effetto opposto, cioè il sentirsi sempre insicura e indecisa nelle scelte. Ne parlava al telefono con il padre, poi con la madre e le ripetevano le stesse cose, anche da bambina. Ricorda che aveva tre, quattro anni quando si svegliava da sola al mattino, il babbo al lavoro, la mamma al piano di sotto al lavoro pure lei.

La piccola Nadia si vestiva da sola poi scendeva e cercava la mamma, la quale arrivava e le diceva che era stata brava … e con una certa fretta le diceva di fare colazione e poi di andare all’asilo. Luca con un sorriso amaro aveva aggiunto «… sì, come me, quando ero bambino mi stiravo i pantaloni da solo, com’ero bravo!».

 

Trasformazioni

La psicoanalisi opera perché possano avvenire trasformazioni riguardo le emozioni impensabili conseguenti a traumi terribili. La coppia analitica, e il “campo” (Neri, 2011) che la sua attività genera, non può più non estendersi al campo-gruppale, Istituzionale e di tutta la realtà Sociale. Occorre riconoscere il valore conoscitivo delle scoperte della psicoanalisi in tema di dolore, terrore, di bisogni umani, di dipendenza necessaria dal mondo esterno, senza perdere una visione critica del carattere immaginario dei nostri strumenti psicoanalitici, continuamente influenzati «dalla nostra concezione dello psichico entro i quadri di una società da cui diventa sempre più difficile prendere le indispensabili distanze critiche e conoscitive» (Petrella 2016). Il lavoro psicoanalitico consiste nella creazione delle condizioni adatte affinché le trasformazioni possano avvenire, facendo attenzione alla relazione tra i diversi livelli interpsichici e intrapsichici interpersonali e intrapersonali, tra oggetto e soggetto, in modo che la “brutalità delle cose” (Preta 2015) transiti dalla loro essenzialità dolorosa a consapevolezze trasformative e vitali. L’impotenza, il dolore e la deumanizzazione vissuti nelle relazioni con persone da cui si dipende e che precludono ogni possibilità di attaccamento affettivo e di riconoscimento soggettivo sono impensabili. La “funzione di testimonianza” (Carnevali 2016) tiene viva la speranza di poter cambiare. Riteniamo necessario che nei casi di pazienti traumatizzati si riconosca l’importanza della costruzione di uno spazio abitabile “spazio di testimonianza” (Molinari Negrini 1985). Premessa alla possibilità dell’inizio di una vera relazione analitica, difficilmente percorribile a causa di un vissuto controtransferale che può indurre a essere poco attivi nella situazione di analisi e appannati anche nel pensiero e nella capacità emozionale. Il setting analitico si modifica per diventare un contenitore corrispondente alle necessità della coppia analitica e del gruppo analitico per conoscere l’altro all’interno dell’esperienza analitica, per far avvenire trasformazioni e una sufficiente integrazione grazie alla risposta affettiva dell’analista.

 

Cinzia Carnevali
Psicoanalista, M.O. SPI-IPA e Membro Didatta SIPsA-Coirag

 

Silvia Cicchetti
Psicoterapeuta Membro Associato SIPsA

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