«Il mondo sta precipitando, credo che sia in mano a forze demoniache, denaro, droga, vizi, consumo dell’amore come fosse carta straccia, l’amore vero fa gelare il sangue, e invece oggi viene consumato in fretta senza sentirne il sapore. Per non parlare poi dell’amore verso i figli, il commercio dei bambini, ecc […] ai miei tempi certe cose non accadevano, c’era la guerra la povertà, ma non siamo morti, eravamo in un certo senso, felici, si ubbidiva al padre alla madre c’era la “sudditanza” che oggi non c’è più. Oggi i genitori sembrano assatanati, vogliono i loro figli al potere, alla gloria e alla fine li rovinano».
(Intervista di Filippo Biaglini ad Alda Merini, 27 febbraio 2009)
È ormai consolidata l’idea che la nostra epoca sia dominata dal prevalere degli aspetti immaginari che rendono il nostro vivere quotidiano come governato da “La società dello spettacolo”2 per la quale l’unica garanzia per l’essere è quella di far parte della massa umana che si rispecchia, per ritrovarsi, in uno schermo: conta poco che sia quello di un televisore o di un cellulare, ciò che conta è che l’immagine sostituisca la parola. Gli effetti destrutturanti di ciò li ritroviamo al livello della clinica con il proliferare di sintomi, quelli cosiddetti contemporanei, dove l’eccesso risulta essere senza limite; nei legami sociali dove il virtuale ha la supremazia sulla realtà; nella sessualità, dove ciò che è stato definito “sexting”, lo scoprirsi attraverso lo schermo, diventa uno dei modi più sicuri e provocanti per sedurre ed entrare in rapporto con l’altro, modo alquanto attuale per tentare di rendere vano il «non c’è rapporto sessuale» ed aggirare la castrazione. È il modo con il quale, nella clinica, ritroviamo quell’effetto di fascinazione per tutto ciò a cui il mandato dell’immagine deve assolvere, il coprire il vuoto, fornire e proporre un abbigliamento, un trucco, una messa in piega, una pettinatura: qualunque cosa, purché faccia emergere la pura apparenza a detrimento dell’essere. È un effetto di quell’eccesso cui si diceva prima che è ben rappresentato dal prefisso “iper” che legato alla parola “modernità” rende conto di ciò che già Lacan aveva anticipato nell’introdurre il discorso del capitalista, la salita allo zenit dell’oggetto a2.
L’attuale disorientamento dovuto all’evanescenza del Nome del Padre e alla perdita di consistenza dell’ordine simbolico, ha fatto sì che l’individuo abbia trovato un nuovo ordinatore capace di proporre modelli in grado di indicare come apparire, cosa pensare, come e dove situarsi: l’immagine. Altra conseguenza di tutto ciò è il doversi confrontare, nella clinica così come nell’estetica, con la frammentazione del corpo che trova, nella chirurgia plastica, uno dei modi per rendere attuabile quella sorta di oggettivazione che annulla qualsiasi differenza, rende tutti simili e allineati con quello che è il mandato del potenziamento dell’io ideale a detrimento dell’ideale dell’io, la sua spinta mortifera.
Ma al di là della fascinazione che l’avvento dell’immaginario produce nel soggetto abitato dalla passione dell’ignoranza per il “non volerne sapere”, al di là della devastazione che l’inesistenza dell’Altro produce nel soggetto ipermoderno, la clinica dell’ascolto ci riporta al soggetto ed alla sua struttura colto nell’incapacità di interrogarsi e di cogliersi come soggetto desiderante. Funzione della psicoanalisi è allora quella di localizzare l’oggetto, di renderlo ciò che orienta il soggetto là dove il Nome del Padre ha perso la sua funzione di direzione e guida. È quanto proposto nel caso che presento, che riguarda una giovane donna nata nel 1991 che ho avuto in cura per circa 3 anni a partire dal maggio 2016. Mi è stata inviata da un collega che, dopo averla ricevuta per alcune sedute su richiesta del padre, infermiere in un nosocomio dell’Asp dove lavoro, ha ritenuto che le si doveva dedicare un tempo ed un ascolto che lui non aveva possibilità di offrirle.
Nilde, è così che la chiamerò, quando venne da me, declinò subito le sue insegne: «sono un’artista», mi disse, un’artista che usava il suo corpo come mezzo di espressione. Faceva degli scatti fotografici che pubblicava sui mezzi disponibili sulla rete, in diverse pose, senza mai oltrepassare, questo fu quello che mi disse, il senso del pudore sconfinando nella pornografia. Aveva avuto una relazione con un ragazzo del suo paese durata più di sei anni, che aveva, dopo poco tempo, mostrato tutti i limiti di un legame che non andava. Salvatore era un bravo ragazzo, ben inserito nel contesto culturale – quello del loro luogo di residenza che lei non accettava, ritenendolo grossolano e arretrato. Per questo suo sentirsi a proprio agio in questo ambiente, Salvatore era soggetto ai “maltrattamenti” cui Nilde lo sottoponeva, ritenendo corretto che lui li subisse, se veramente voleva stare al suo fianco. Dopo poco meno di due anni, non avendo una grande attrazione fisica per il ragazzo e non provando tutta questa soddisfazione durante i loro incontri sessuali, Nilde decise che si sarebbe astenuta dal sottoporre il suo corpo al godimento dell’Altro, preferendo godere del suo godimento Altro, ben più soddisfacente, dato che vedeva Salvatore sbavarle dietro: Nilde godeva della sua insoddisfazione e, per di più, lo aveva a tutto servizio. Salvatore era rimasto, comunque, il suo fedele compagno anche se in astinenza forzata per circa sei anni, fino a quando Nilde, trasferitasi a Palermo per incontrare con più assiduità gli artisti cui faceva riferimento e per frequentare l’università, non aveva deciso che di lui poteva anche farne a meno.
Subito dopo aver iniziato le sedute con me, Nilde ha intrapreso una relazione con un altro artista, una relazione che era, per lei, una vera e propria “dipendenza” come la chiamava. Era, questi, un artista che faceva dei suoi sintomi, il suo modo di essere. Con problematiche familiari assai gravi (è possibile che la madre fosse una psicotica, dedita anche alle fughe da casa …) secondo Nilde questo giovane uomo, suo coetaneo e con un cognome prestigioso, essendo un lontano parente di un noto scrittore, faceva dei propri sintomi il suo stile di vita.
L’ambivalenza di Adriano, così lo chiameremo, la lacerava tanto da riproporgli sempre la stessa questione: quanto era importante per lui? Quanto pensava che lei potesse sopportare i suoi allontanamenti ed avvicinamenti, quanto pensava che potesse reggere questo continuo sentirsi “presa” e lasciata andare? Questo modo di fare del suo compagno, disse allora Nilde, le ricordava il modo di rispondere di sua madre, quando lei le rivolgeva qualche domanda: «non ci pensare» la liquidava questa, così come Adriano non faceva che minimizzare le questioni che lei gli poneva. «Ma che vuoi sapere? Goditi questi momenti … poi si vedrà», era solito dirle. Con lui, inoltre, si riproponevano sempre le solite scene: dopo l’intimità, si presentava la sua sparizione. Passavano giorni senza che lei ne avesse notizia alcuna e con grande sofferenza si ritrovava a porsi, nuovamente, per l’ennesima volta, le sue solite questioni. In quanto artista Adriano ha sempre tante donne che gli girano intorno, tutte molto belle e desiderose di averlo anche come partner occasionale, come diceva allora Nilde, ma tutte, “sicuramente” molto più belle di lei, essendo lei molto critica con il suo aspetto fisico. Non si piaceva per nulla, si riteneva anzi decisamente brutta, con un naso che stonava con l’esilità del corpo, i suoi occhi azzurri mal si combinavano con i capelli molto sottili e radi, tanto da far pensare inizialmente ad una alopecia, capelli che lei, di tanto in tanto, strappava a ciocche. E poi, vi era un altro aspetto che la riguardava e che era anche uno dei motivi che la portavano a volere parlare con qualcuno: il suo corpo veniva da lei stesso “martoriato”, bucato con e senza mezzi estranei, a volte con le sole unghie che scarificavano e si introducevano dentro il suo derma.
Cosa veniva a domandare Nilde e qual era il suo modo di fronteggiare ciò che, appena, era trapelato nel corso delle prime sedute? Nilde aveva parlato di sua madre nei termini di colei che, di fronte ad una sua domanda, la sminuiva con un dire che, benché potesse sembrare quasi rassicurante, piuttosto ometteva di prendere posizione, di dire, cioè, quale posto occupava nei confronti della figlia. «Mi desideri o no?»: mi è sembrato di cogliere in questa drammatica domanda rivolta alla madre, la questione che Nilde ha posto fin dal primo incontro.
Nel prosieguo delle sedute, ha raccontato di una nonna materna che in paese era conosciuta come una che aveva i “poteri”, una “maara”, e che in passato, a dire della madre, aveva esercitato anche la “professione”.
Ma anche la madre, per Nilde, aveva le stesse capacità e poteri, ereditati dalla nonna. Nelle battute che si sentiva rivolgere, negli sguardi e nelle proibizioni che riceveva, le sembrava di cogliere quella preoccupazione che i racconti sulla nonna le avevano suscitato: preoccupazione e paura mista ad ammirazione, perché nei racconti della madre riusciva a cogliere anche quell’aspetto legato alla forza ed al potere che la nonna aveva nei confronti degli altri. Questa sorta di ambivalenza, tra la paura ed il compiacimento, Nilde ha avuto modo di sperimentarla in prima persona, quando si è avvicinata ad un gruppo di spiritualisti palermitani che, in nome di Satana, hanno praticato con lei una serie di riti, più o meno di iniziazione, riconoscendole gli stessi poteri della nonna e della madre. Nilde, però, dopo un ennesimo litigio legato alle richieste più o meno assurde provenienti dalla setta, decise, un giorno, di recidere qualsiasi contatto con loro, pur rimanendo sempre convinta che qualcosa di vero nella loro pratica poteva ritrovarcelo e conservando la convinzione che qualcosa, dei poteri propri della linea materna, le erano stati trasmessi.
La madre, nella realtà è stata, fino a quando non si è messa anticipatamente in pensione, una maestra di scuola materna. E Nilde ricordava bene che, benché molto piccola, non riusciva a darsi pace del perché tutti gli altri bambini la chiamavano “mamma” senza che questa dicesse loro nulla, gettandola nello sconforto del non capire perché doveva dividerla con tutti quegli altri che fratelli non erano. Lei già aveva una sorella più grande ed un fratello più piccolo che vivevano in casa con loro … ma perché tutti gli altri potevano chiamarla mamma? Da quando è in pensione, la madre si occupa insieme al padre della gestione di una casa di riposo, la cui conduzione Nilde non ha mai mancato di criticare. Pur essendo sempre in grosse difficoltà economiche, il padre ha sempre prestato ed anticipato denaro a quanti, loro dipendenti ed in special modo donne, gli chiedevano un anticipo o un prestito. Ma il padre per Nilde non è solo alquanto generoso, se non incapace di dire di no a chi gli chiede qualcosa; il padre secondo lei ha avuto parecchie donne e da sempre lei cerca di provocarlo per farsi dire se è vero quello che lei sostiene: che in qualche strada del paese dove è nata deve pur trovarsi un fratello o una sorella, frutto di un amore clandestino del padre.
Con questo contesto familiare, Nilde è venuta a raccontarmi le sue pene d’amore con Adriano, l’unico, a distanza di anni, con cui aveva ripreso a fare l’amore. Anche questo era però passibile di grande problematizzazione e conflittualità: bastava che Adriano non si facesse sentire il giorno dopo, che l’amore fatto in precedenza diventava, nel racconto di Nilde, un vero e proprio stupro. «Mi ha obbligata, mi ha costretto, mi ha bloccata e mi ha violentata» diceva, versione che era disposta a modificare non appena Adriano ritornava alla carica. Un giorno, mentre erano ancora a letto, Adriano le confessò di averla tradita. Fece finta che non le importava granché, mi disse, ma subito dopo le porte dell’inferno le si erano aperte senza che lei se ne accorgesse. Decise, seduta stante, di andare a trovare un ragazzo che l’aveva contattata per via delle sue foto e che da mesi le faceva la corte. Nilde non lo conosceva neanche se non per alcune foto che lui le aveva inviato, ma la rabbia nei confronti di Adriano era così forte, che l’indomani si ritrovò nella cittadina del centro Italia. Con Piero, ovviamente, non andò a letto, «figuriamoci», mi disse, confermando la scelta che aveva fatto senza che lei lo sapesse: se a letto doveva andare, se la sessualità doveva agirla, questo doveva accadere solo con Adriano e pur sempre sotto l’egida dell’insoddisfazione.
Vorrei aggiungere due episodi, che ritengo importanti per questo caso e che ritengo utili a chiarire qual è il rapporto del soggetto preso nell’era ipermoderna e la sofferenza che il godimento senza limiti, che è una delle sue prerogative, comporta per il soggetto preso nella sua ricerca di un oggetto non delocalizzato in virtù del fatto che è, invece, posto allo zenit.
Il primo riguarda una telefonata che ho ricevuto nel febbraio del 2017, dunque circa 10 mesi dopo l’inizio della cura. Nilde mi chiama alle 17.30 piangendo e comunicandomi che si era tagliata le vene. Questo me lo dice velocemente, attribuendone la colpa agli amici della setta che le avevano comunicato che non potevano aiutarla nella sua vicenda con Adriano e, questo, dopo tre mesi di promesse contrarie, rivelatesi, in quell’istante, del tutto vane. Nilde aveva, qualche minuto prima, chiamato Adriano che le aveva detto di trovarsi in una cittadina della Sicilia in compagnia di un’altra ragazza. La pregava, anzi, di non disturbarlo: l’acting out è stato immediato.
Nilde mi chiuse il telefono senza dirmi dove si trovava malgrado le mie insistenze. Cosicché, chiusa la conversazione, ho pensato di chiamare il 113 avvisando la polizia della telefonata ricevuta. Ho subito dopo chiamato il mio collega chiedendogli i numeri telefonici del padre e comunicandoli, non appena avutili, all’operatore del 113, come mi era stato chiesto espressamente di fare.
Dopo alcuni minuti, però, ho ricevuto un’altra telefonata da parte Nilde che, piangendo, mi comunicava che non era stata brava neanche ad uccidersi. In realtà si era solo fatta dei buchi e nemmeno tanto profondi. L’avvisai che avevo allertato la polizia e Nilde mi disse che sarebbe andata lei stessa al Commissariato. Mentre eravamo al telefono, sentii le sirene dei mezzi di soccorso segno che erano riusciti a rintracciarla e la storia si chiuse, pressoché lì, non prima però, di aver dovuto parlare con l’operatore di turno del 118.
L’altro episodio accadde circa cinque mesi dopo. Nel frattempo la storia con Adriano si era chiusa per volontà di questi, non senza pianti e disperazione da parte di Nilde, che aveva anche intrapreso due relazioni rigorosamente telefoniche con due ragazzi di cui sapeva a stento i nomi: l’importante era promettere con il suo corpo esposto senza permettere null’altro se non il suo godimento nel vedersi “s-guardata” dallo sguardo dell’Altro.
Mi chiamò, quella volta, al telefono da un grande magazzino: era stata fermata perché trovata in possesso di un maglietta non pagata. La polizia intervenuta su richiesta della guardia giurata insinuò che lei fosse una tossico dipendente (forse in virtù dei capelli rasati a zero qualche giorno prima). Le chiesero se avesse problemi mentali e quant’altro, fermandosi solo di fronte al suo mutismo ed al pianto dirotto. Quella volta parlai direttamente con un poliziotto, tentando di fargli capire che ciò che era successo poteva anche essere l’effetto della seduta precedente … credo sarebbe stato più facile ottenere una risposta da un sordo muto … comunque … La vicenda si concluse con una denuncia per furto e Nilde credo che ancora oggi debba affrontarne il processo.
Alcuni mesi prima che Nilde decidesse di trasferirsi in un altro Stato europeo, luogo dove già si erano stabiliti sia il fratello che la sorella in cerca, come lei, di lavoro, trasferimento che per Nilde ha comportato l’interruzione della cura, mi parlò della decisione di effettuare un intervento di rinoplastica. Non era il solo intervento che aveva effettuato sul suo corpo perché, l’anno precedente, aveva iniziato un trattamento presso un odontoiatra impiantando una protesi ortodontica invisibile proposta come ciò che permette di “valorizzare l’estetica del sorriso”. Anche se questa modalità correttiva è ormai entrata nell’uso comune, è sull’invisibilità che avevo cercato di far cadere l’attenzione di Nilde, sotteso che, anche dal punto di vista economico, la scelta, non era tra le più ae buon mercato. E poi, vi era stato da parte sua, un deciso rifiuto per qualsiasi “apparecchio” che potesse rendere conto con la sua “visibilità” dell’operazione a cui si sottoponeva per un tempo certamente non breve.
Per questo secondo intervento, Nilde prese contatto con una clinica di chirurgia estetica e dopo circa 20 giorni, ritornò in seduta con il volto che aveva assunto sembianze decisamente diverse. Si era privata della gobba che portava sul naso ma … aveva detto, dopo un primo momento di smarrimento, non si trovava così bella come pensava di diventare. L’immagine, anche questa volta la rimandava alla sua dimensione di parlessere, il dovere fare i conti, cioè con l’avere un corpo e non con l’esserlo soltanto. Ciò che era stato pensato come possibile, l’avere un corpo disgiunto dal suo essere soggetto, senza che nulla li annodasse, si era dovuto confrontare, piuttosto, con un godimento staccato dal corpo che rimanendo inaccessibile, non poteva che incontrare quanto di più accessibile Nilde possedeva: la sua immagine. È ciò che Lacan ha mostrato molto bene nel proporre lo schema ottico, quando nel Seminario XI dice che «[…] il rapporto dello sguardo con ciò che si vuole vedere è un rapporto di inganno. Il soggetto si presenta come altro da ciò che è, e quello che gli si dà da vedere non è ciò che vuole vedere»3.
Concludo questa presentazione del caso di Nilde, ponendo anche un’altra questione che ha concorso a spingermi a proporlo: vi è stato qualcosa a livello transferale che ha posto Nilde nella condizione di agire nel tentativo di comunicare ciò che la sordità dell’Altro non è riuscita a cogliere. È il modo con cui leggo gli acting out che, con Lacan, abbiamo avuto modo di sapere essere portatori di un aspetto dimostrativo e di un orientamento verso l’Altro. È proprio questo mostrarsi che si ripete, il suo continuare a farsi s-guardare, che Nilde ha riproposto all’interno della cura, che richiede come ci ha insegnato Lacan, in quanto acting out, l’interpretazione. È la ricerca di un principio ordinatore, di un S1, messo da parte nel discorso del capitalista, che è anche appello per Nilde, alla funzione paterna, funzione delegittimata non certo solo per desiderio della madre, ma per la scelta operata dal padre di essere libero dalle maglie del simbolico.
Inoltre, la clinica psicoanalitica ci insegna che vi è un resto, ben più importante dell’interpretazione e del suo senso, che è ciò a cui mira il soggetto ed a cui è interessato. Questo resto è dell’ordine della causa, ed è ciò che Nilde ha mostrato, in quanto oggetto caduto. Il suo farsi s-guardare con il suo corpo imperfetto, malgrado la ricerca di una perfezione impossibile da realizzare, credo abbia avuto la funzione di farle recuperare un godimento là dove, lasciata cadere da una madre a lei non interessata se non per il suo essere scarto, non ha avuto altro modo di trovare il dispiacere del suo godimento, nell’osservare lo sguardo desiderante di chi, il suo corpo imperfetto, rendeva ciechi. Ecco il punto che mi ha interrogato anche in rapporto alla sua uscita dalla cura e che mi ha messo nelle condizioni, oggi, di parlarne.
Sebastiano Vinci
Psicologo – Psicoterapeuta
Psicodrammatista Membro Titolare SIPsA, Psicoanalista membro SLP
NOTE
- Debord G., La società dello spettacolo, Massari Editore, Bolsena (VT), 2002
- Lacan J., Del discorso psicoanalitico, in VV., Lacan in Italia, La Salamandra, Milano, 1978, pp. 32-55
- Lacan J., Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. (1964), Einaudi, Torino, 2003, p. 103
BIBLIOGRAFIA
Bauman Z. (2007), Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Erickson, Gardolo (TV)
Debord G. (2002), La società dello spettacolo, Massari Editore, Bolsena (VT)
Macrì T. (1996), Il corpo postorganico, Costa & Nolan, Genova
Miller J.-A. (2013), Un grande disordine nel reale, nel XXI° secolo, in AMP, L’ordine simbolico nel XXI secolo, Alpes, Roma
Lacan J. (1978), Del discorso psicoanalitico, in AA.VV., Lacan in Italia, La Salamandra, Milano,
– (1964), Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2003