PREPARAZIONE DELLA GIORNATA DI STUDIO
La lettura dell’Osservazione è fatta della stessa sostanza dei sogni
«[…] una lettrice ammirevole per la bellezza e la dolcezza del suono di voce […]. Attenta a bandire dalla sua voce ogni meschineria […] guidava la frase che finiva verso quella che stava per cominciare, ora affrettando, ora rallentando il cammino delle sillabe, per farle entrare, nonostante le loro qualità differenti, in un ritmo uniforme, e insufflava a quella prosa così comune una specie di vita sentimentale e continua».
Siamo nel celeberrimo avvio della Recherche proustiana (I°, p 46). È la mamma, oggetto di amore primario, che legge al bambino per accompagnarlo al sonno della notte, al sognare. È la voce che marchia la relazione originaria, voce che il bambino sperimenta per la prima volta, per imparare a digerire l’assenza della madre. Due fonemi: «fort» – «da», che escono dalla sua bocca. L’oggetto piccolo “a”. È lo stesso piacere che incontriamo nella lettura finale della scrittura dell’osservazione? Anche noi, forse, con la lettura “a voce alta”, accompagniamo i nostri pazienti all’uscita del setting, in un clima onirico. La lettura dell’Osservazione è fatta della stessa sostanza del sogno. Ed è proprio il mistero della Voce che è stato interrogato in tutti gli scritti. Il mito di Eco e Narciso: l’Osservazione come eco delle voci dei partecipanti, di quel corpo vivo e pulsante che è la seduta appena conclusa.
La Voce che, come dice Lacan, non si assimila, ma si incorpora, si veste della parola, oggetto del desiderio, cade dal corpo sotto forma di scarto (Seminario. X, p.302); è la voce, e non solo il linguaggio, ad aprire l’accesso all’inconscio, al piacere: «La grana della gola, la patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta una stereofonia della carne profonda […]» (Barthes, Il piacere del testo, 127). Osservare e leggere significa ridare sonorità ad un affresco appena ultimato; siamo nell’après coup. È una partitura sonora, un’operazione di partizione che tiene viva l’alterità del testo. Qualcosa rimanda a ciò che è avvenuto nella seduta di Psicodramma, ma in modo rovesciato. Decostruzione e costruzione.
Sappiamo tutti quanto, a partire dall’etimo greco, il conoscere e il vedere siano intrecciati. Lo sguardo e il pensiero sono figli della stessa madre? Dobbiamo dire che scrittura e lettura di un testo sono procedure per sottrarre allo sguardo la sua primogenitura? L’Osservatore legge con una sua modalità di lettura il testo redatto, mettendo in luce i punti nodali del discorso di ciascun partecipante e nel contempo dell’intero gruppo. Per taluni aspetti può assumere l’atteggiamento dell’attore che si dispone ad entrare nel cerchio del gruppo? la fascinazione della lettura talvolta prevale e fa sì che l’osservatore scivoli in un’esibizione dai contorni sostanzialmente narcisistici. L’osservatore “recita” la sua osservazione? La sonorità della voce rimanda ad una metafora musicale: è come se ci fosse uno spartito a cui l’Osservatore è chiamato a dare la propria interpretazione come “solista”. Si coniugano in quell’istante i due saperi, quello della propria personale teoria fatta di letture solitarie e il sapere di rendere un’emozione. Il testo, appena creato, a volte si presta a improvvisazioni, ma è quasi impossibile restare nell’indicazione mozartiana, del «solo tutte le note che servono, non una di più né una di meno». Il rischio, nell’andare a braccio, è che l’improvvisazione prevalga sullo spartito.
Talora si dà priorità allo scambio immediato, con una “restituzione a braccio”, che intreccia Kronos, il tempo delle sedute, e Kairos, il tempo della parola dei partecipanti. Questo tipo di restituzione ingrandisce, rende più visibili le dinamiche della “scena” in cui si colloca la lettura, scena per la quale possiamo ricorrere alla riflessione di Bachtin, che parla di eteroglossia, il che sancisce la superiorità del contesto sul testo, la coesistenza di una varietà di voci e forme linguistiche all’interno di uno stesso linguaggio. In questo troviamo un’affinità con l’uso che facciamo dell’Osservazione, che si legge senza mai consegnarne il testo, svincolandola dal diventare traccia e vincolandola piuttosto a quel contesto spazio-temporale specifico e alla voce e impronta dell’osservatore che la legge.
Le parole e i suoni che derivano dalle singole narrazioni, la coralità del gruppo, diventano l’Assolo per l’osservatore. In quel momento è l’unico protagonista della scena, ed è per lui l’attimo di un probabile smarrimento, o forse meglio di profondo godimento
Come nello psicodramma, tutto ciò che emerge è una natura mobile ed evanescente, allusiva e mai assertiva, capace di operare rimandi continui, di cogliere la catena metonimica. La verità della lettura dell’osservazione e dello psicodramma è nell’esplodere (o nell’implodere?) del valore semantico, di designazione pura, della parola. Che diviene suono che attraversa i discorsi, phoné (quella di cui parlava Carmelo Bene), catena significante che non si chiude mai. Per Carmelo Bene, Dario Fo e altri, i suoni erano come clavette per un giocoliere: ruotano con toni a volte alti, bassi, gravi, acuti, lunghi o brevi alla ricerca dell’essere, quell’essere che è la sua voce, non rappresentabile, inconfondibile.
L’osservazione letta al termine, non ha il fine di riconciliare il gruppo che ascolta, ma di ripercorrere la strada dell’Assenza. La Voce infatti, partendo dal grido primigenio, testimonia il “taglio” e rende presente l’Assenza. La Voce, strumento principe che crea il collettivo, è per l’altro e chiama l’altro. Le carte si rimescolano e l’inconscio mostra il rovescio di quello che accaduto fino a quel momento nella seduta. Questo rovescio è la parola viva rivelata per mezzo del nostro respiro, del piacere che la voce mette per esistere come voce.
Abbiamo sempre a che fare con una pagina bianca, come ci dice questo haiku:
Atto unico per voce sola.
La lettura dell’osservazione stacca dal rumore bianco della seduta impercettibile eppure presente.
“La posso riascoltare?”. “No”.