di ILENIA LINCIANO. Antonia Guarini. Riprendendo il filo del rocchetto. Lo Psicodramma Analitico nella teoria e nella clinica contemporanea

Poiesis Editrice, Alberobello, 2022

È sempre complesso, per lo meno per me, accingermi a scrivere una recensione. Il desiderio è di riuscire a scrivere “tutto” ciò che di significativo attraversa un testo, a renderlo visibile, cercando di coglierne la trama intorno alla quale si annoda e si struttura il discorso.

Quando mi sono imbattuta nella lettura di questo prezioso lavoro ho ritrovato pezzi e fili di una storia a tratti narrata e a tratti mancante, ascoltata durante i miei anni di formazione presso la sede della scuola Coirag di Bari. Una storia, tuttavia, non del tutto conosciuta. Una storia che mi sembrava all’epoca della mia formazione “pas toute-non tutta”.

Il testo di Antonia Guarini ci immerge nella clinica, nella teoria e nella pratica dello psicodramma analitico, aprendo altresì il lettore a scenari ancora da scrivere, invitando a riflessioni che interrogano l’aprés coup, rilanciando, attraverso il filo della ricostruzione storica e della propria esperienza, la sua ricerca intorno al sapere e al saperci fare con lo psicodramma analitico, in un gioco di passaggi e testimonianze che fanno trapelare un desiderio vivo e fecondo intorno all’oggetto in questione.

Riprendendo il filo del rocchetto è un testo che restituisce lo psicodramma alla propria storia, al cui interno si realizza un singolare movimento di andirivieni fra passato e presente, fra origine e contemporaneità, intorno alla teoria e alla pratica dello psicodramma analitico.

La cura, l’attenzione, l’amore per lo psicodramma traspaiono chiaramente tra le righe appassionate dell’autrice, che compie un atto di testimonianza, ove il filo del discorso da lei articolato ci consente di guardare in retrospettiva e in prospettiva la pratica dello psicodramma analitico, interrogando la declinazione dello stesso nell’epoca attuale.

È un pregiato lavoro di cucitura quello che realizza Antonia Guarini che, come una abile sarta, imbastisce, recupera (attraverso il suo meticoloso lavoro di ricerca), rammenda e cuce la trama della storia dello psicodramma analitico declinandola con la propria esperienza di analizzante prima e di Psicodrammatista e didatta poi. È un lavoro di testimonianza e altresì di gratitudine verso coloro che l’hanno preceduta: quei Maestri che hanno introdotto lo psicodramma in Italia diffondendolo fra le nuove generazioni di psicoanalisti agli inizi degli anni ‘70 dello scorso secolo.

Nel percorso, dunque, si intrecciano filogenesi ed ontogenesi annodandosi in una trama dove il Soggetto e il gruppo sono i protagonisti fondamentali e fondanti di questa esperienza.

La storia dello psicodramma ha inizio e prende forma nella Parigi degli anni ‘60, provata dai moti di contestazione studentesca contro l’autoritarismo patriarcale universitario. È SEPT (Società di studi dello psicodramma pratico e teorico) l’acronimo che sceglieranno gli psicoanalisti che fonderanno lo psicodramma, il cui anagramma rinvia in francese alla “pest”, la peste a cui si riferiva Freud parlando dell’avvento della psicoanalisi in Europa. In un periodo storico di forte destrutturazione e messa in discussione delle coordinate sociali, lo psicodramma entra in scena come terapia del soggetto in gruppo. Questa è la scommessa pionieristica: ri-portare il Soggetto ad interrogarsi attraverso il legame sociale con l’Altro e con gli altri. In questo viaggio tratteggiato da transfert orizzontali e verticali lo psicodramma diviene dispositivo clinico trasversale nelle varie epoche, mostrando la sua plasticità e capacità di adattarsi ai diversi mutamenti sociali.

L’autrice si sofferma in particolare ad interrogare la pratica dello psicodramma nell’epoca attuale, segnata dalla presenza di soggetti smarriti e sopraffatti, dall’avanzare della tecnologia che filtra in maniera virtuale il rapporto con l’altro. Nella clinica contemporanea i nuovi domandanti appaiono sempre più come soggetti senza una domanda precisa, in cui il sintomo fatica ad assumere una valenza soggettiva e a prendere le insegne particolari della storia di ciascuno. Qual è la posizione dello psicodramma analitico di fronte a queste nuove declinazioni della clinica? Può lo psicodramma analitico, attraverso i suoi principi di riferimento, costituire un tentativo di risposta possibile nella clinica contemporanea?

La sfida è tentare di abilitare e riconoscere la valenza dello psicodramma quale dispositivo clinico capace di agganciare il soggetto s-perduto dell’epoca attuale.

Partecipare ad un gruppo sostanzialmente vuol dire mettersi in gioco, per tentare, afferma l’autrice di «defibrillare la posizione mortifera ed implosiva che spesso caratterizza i nuovi pazienti». In un ‘epoca in cui l’Altro culturale è in crisi e l’altro dello specchio non rassicura più nella funzione di rispecchiamento, in cui si predilige l’iper-connessione virtuale, il gruppo appare come un possibile spazio di parola e di ascolto, un luogo mentale e reale che può rappresentare un ancoraggio alla relazione e alla vita!

Ed è proprio questo presupposto, “mettere in relazione”, ad animare prodromicamente i primi psicoanalisti in Francia. Nel 1964 i coniugi Lemoine insieme ad altri psicoanalisti si riunirono nel club Psichodramatique, sotto l’insegna di una associazione culturale, all’interno della quale l’intento era di articolare il discorso sociale con la clinica. Un film, un pre-testo, un significante diventavano occasione per avviare il discorso del gruppo e per aprire il soggetto al discorso, per coniugare il soggetto all’Altro, il soggetto agli altri, nel gruppo e fuori del gruppo. Era un tentativo di stare al passo con i significanti del proprio tempo storico, di interrogarli. Nei primi gruppi parigini, difatti, riecheggiavano i significanti che attraversano la storia di ciascuno e altresì i cambiamenti sociali del tempo. Destituzione, cambiamento, vita e morte si avvicendavano in un gioco di vicinanza e lontananza.

È questo il mito fondativo che contrassegna la nascita dello psicodramma analitico: uno sguardo particolare alle questioni sociali interrogate attraverso il dispositivo gruppale; riportare il sociale al soggetto.

L’oggetto sguardo insieme al gruppo e al gioco sono i capisaldi su cui si predispone la pratica dello psicodramma.

E nell’epoca contemporanea ove tutto si cristallizza su una dialettica virtuale e meccanica, il gruppo può divenire, e ce ne dà testimonianza l’autrice attraverso la sua pratica clinica, un mezzo significativo per catalizzare una esperienza in cui riagganciare il soggetto. Uno spazio in cui l’Altro e gli altri fanno da specchio per favorire l’emergere del soggetto, ma non tanto attraverso l’identificazione al sintomo “ce l’ho anche io”, quanto piuttosto attraverso l’identificazione nella relazione con l’altro “anche io mi sono sentito come te”. Questa sottile e pertinente precisazione, che l’autrice sottolinea, pone in rilievo l’importanza della relazione con l’altro come mezzo per interrogare la relazione con l’Altro e per riprendere in mano la propria storia. Nella seduta di psicodramma analitico il lavoro continuo che si svolge è, di fatti, passare dall’immaginario al simbolico, tornando al reale.

L’altro è dunque uno specchio in cui potersi ri-trovare, ma è altresì altro da sé, fattore attraverso cui distinguersi. Pertanto, se il gruppo per un verso favorisce l’identificazione orizzontale fra i membri, creando i presupposti per un processo di rispecchiamento, talvolta risultato mancante e/o deficitario, per un altro verso, considerata la tendenza attuale sempre più esasperata all’ omologazione e all’incollamento immaginario all’altro, ha l’obiettivo di “sgruppare”, cioè di fare taglio sulle identificazioni immaginarie, affinché ciascuno possa implicarsi soggettivamente e responsabilmente rispetto alla propria storia, singolarizzando la propria esperienza. Stare in gruppo e in relazione con l’altro, dunque, mantenendo, come ci insegna la psicoanalisi, la propria particolarità e singolarità. Il gruppo allora è nodo (nel suo significato etimologico) e fa nodo, poiché sostiene il soggetto nel processo di riannodamento e risignificazione dei significanti della propria storia soggettiva, calata nella storia sociale del tempo. Il gruppo consente a ciascuno soggetto di immettersi nel discorso dell’altro e dell’Altro della propria storia, giocando la propria parte.

Il gioco, appare al centro della scena come atto di una ripetizione che si suppone divenga non ripetuta; attorno ad esso si attiva una catena associativa che restituisce a ciascuno partecipante qualcosa della propria storia e che lascia pur sempre un resto inafferrabile, su cui continuare a ricercare, a desiderare e ad interrogarsi. Entrando in un gruppo ciascuno lancia il proprio filo verso gli altri, accettando inoltre di entrare nel campo dell’Altro. Ed è proprio giocandosi nel posto dell’altro, afferma Guarini, che il soggetto può cominciare a vedersi là, dove apparentemente non si sente chiamato ad assumere responsabilità del suo dire, che può cominciare a dire qualcosa che riveli la sua divisione.

È un lavoro a doppia maglia quello che accade nel gruppo di psicodramma, poiché tesse il legame e ad un tempo conduce verso il proprio discorso inconscio soggettivo. Un andirivieni dall’altro all’Altro, dove il soggetto fa capolino e può esistere proprio là dove (si) incontra la dimensione di finitezza dell’Altro.

Ma cosa rende vivo e terapeutico il dispositivo gruppale?

Il motore è il desiderio dell’analista che in un gruppo di psicodramma è particolarmente esposto alla propria mancanza-a essere. Lo psicodrammatista non può giocare a “fare lo psicodrammatista” ma è chiamato ad esserci, a mettersi in gioco, sperimentando e accettando l’impasse e la perdita. È chiamato ad occupare e ad incarnare la posizione di oggetto piccolo (a), rinunciando così alla posizione immaginaria elettiva di “padrone” di un sapere.

E questa presunta padronanza di sapere appare ancor più vacillare con l’avvento della pandemia, che come una sorta di tychè mette in questione i setting tradizionali. Che ne è dei gruppi di psicodramma in una fase in cui è interdetto l’incontro con l’altro? Che ne è della psicoanalisi?

Può uno spazio online assurgere alla funzione di spazio transizionale fra realtà esterna e realtà interna? Come riuscire a fare un lavoro analitico laddove si è immersi nella concretezza dell’online e dove il soggetto appare svanire nell’immagine restituita da uno schermo?

L’autrice entra nel vivo di questi interrogativi riflettendo sulla complessità e sulle difficoltà della posizione dello psicoanalista e dello psicodrammatista. Restano domande aperte a cui si tenta di rispondere affidandosi al proprio saperci fare, accettando ancora una volta le impasse e gli imprevisti di un setting inedito. Tuttavia, anche questa esperienza si declina come una messa in gioco dell’analista, come un ulteriore contributo alla formazione e alla de-formazione dell’analista rispetto ad un sapere precostituito. Di fatti questa esperienza testimonia che la clinica non ha il mero compito di convalidare la teoria, ma ha più che altro l’arduo compito di interrogare la teoria al fine di produrre degli avanzamenti nella stessa, di introdurre delle ulteriori riflessioni. E ciò può accadere se un analista è disposto a testimoniare del proprio saperci fare con il sapere e anche del proprio non àncora saperci fare con il non sapere.

Agli Psicodrammatisti di ultima generazione il compito di r-accogliere il testimone, di riprendere, e annodare il filo del rocchetto che ha accuratamente rilanciato Antonia Guarini, istituendo, attraverso questa scrittura un’eredità. Un’ eredità strutturatasi intorno ad un atto di gratitudine e di riconoscimento, che non si vuole del tutto perduta. Ma è anche una eredità caratterizzata da un movimento di erranza, da un tentativo di separazione dai porti sicuri delle teorie già solcate ed esplorate. È una messa in tensione fra conosciuto e sconosciuto, un’apertura a quella dimensione perturbante che spalanca scenari inediti di sapere. Questo lavoro, dunque, restituisce qualcosa della storia e della esperienza con lo psicodramma analitico, ma lascia anche un resto sconosciuto. Un resto che appartiene all’ordine della mancanza, ma che ha anche a che fare con quel movimento di vicinanza e lontananza, con quella alternanza di ritmo, attraverso cui ogni soggetto si coordina col mondo e si apre alla propria vita: fort-da.

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