5 T. ANTONINI, D. BARBINI, P. CAPELLINI, P. COPPIN, F. GERVASONI, P. ROSSI DAL “TO CURE” AL “TO CARE”: trasformare l’urgenza nel lavoro con gli adolescenti che consumano sostanze”

Il campo istituzionale

L’attività di Diagnosi Precoce (DP) nasce nel 2013 all’interno di una riorganizzazione di ATS (Agenzia della Tutela della Salute Città Metropolitana di Milano, ex ASL). Premettiamo che, a quel tempo, l’erogazione dei servizi sanitari relativi alla diagnosi e al trattamento del disturbo da uso di sostanze e non correlato a sostanze (DGA) era a carico di ATS. Con la L.R. 23/2015 e la costituzione delle ASST (Aziende Socio Sanitarie Territoriali) tali prestazioni socio-sanitarie sono state affidate a queste ultime, in un’ottica di integrazione del sistema ospedaliero e territoriale. Attualmente i Servizi per la diagnosi e la cura delle Dipendenze afferiscono ai Dipartimenti di Salute Mentale e Dipendenze.

Durante la riorganizzazione del 2013 l’allora Dipartimento Dipendenze collaborava con la struttura della Prevenzione Specifica attraverso dei gruppi di miglioramento che avevano il fine di avvicinare i SerD ai primi momenti di consumo di sostanze della popolazione e, quindi, costituire un ponte di osservazione tra Prevenzione Indicata e Trattamento. L’attività di Diagnosi Precoce, trasversale a tutti i Servizi delle dipendenze dell’area territoriale ASST-Santi Paolo e Carlo, nasce con due obiettivi fondamentali. Il primo è quello di abbattere i tempi di latenza, intervenendo il prima possibile con l’osservazione del consumo ricreativo per valutare fattori di protezione e fattori di rischio, cercando di potenziare i primi e di gestire i secondi, per evitare che il consumo possa sfociare in un disturbo maggiormente strutturato. Il secondo obiettivo è quello di lavorare sul pregiudizio di chi lavora nei Servizi per le Dipendenze e sullo stigma verso la patologia, vissuta come una malattia che non lascia speranze e di cui ci si vergogna, per permettere alle persone di arrivare ai Servizi prima della cronicità della stessa con un approccio di fiducia. In questo senso c’è stato un grande lavoro di pubblicizzazione dell’attività, attraverso convegni, interventi con la struttura della Prevenzione Specifica nelle scuole, così come nelle parrocchie e nei Consigli di Zona. L’intento era quello di rendere più facile l’invio ai nostri Servizi anche attraverso la voce degli specialisti e quello di ascoltare le problematiche al fine di fare incontrare domanda e offerta. Normalizzare e semplificare, quindi, l’accesso ai SerD attraverso l’attività clinica e di promozione della salute1.

Inizialmente la proposta dell’attività di Diagnosi Precoce (DP) consisteva prevalentemente nel lavoro di counselling, legata all’esordio del consumo e non all’età del consumatore, per stilare un profilo di rischio rispetto al possibile sviluppo di un Disturbo correlato a sostanze e non correlato a sostanze, cioè un Disturbo da uso di sostanze (DUS nel DSM-5) e Disturbo da Gioco d’Azzardo (DGA nel DSM-5), analizzando nella fase iniziale del consumo/comportamento i fattori di rischio e quelli di protezione ed i significati attribuiti al consumo stesso. La Diagnosi Precoce nell’area delle dipendenze si configura infatti come “attività diagnostica specifica” relativa agli esordi della dipendenza patologica indipendentemente da età e sostanza: si osserva la fase iniziale del consumo.

Il tempo medio stimato di osservazione del comportamento a rischio è nei primi 12 mesi dal primo contatto, così come indicato dal DSM-5 e come parallelo degli esordi in psichiatria. Nel caso in cui si verifichi/si identifichi il rischio reale di sviluppare la dipendenza ci si trova collocati nell’area dell’Intervento Precoce che si inserisce tra prevenzione indicata e trattamento. Questo intervento non si configura «come prematuro o prima del tempo, ma a tempo, prima di quanto sia usuale»2 ovvero prima di incorrere nella cronicità, quando l’abuso si configura come problematico.

L’attività di Diagnosi Precoce, tra il 2013 e il 2014, si è maggiormente orientata verso i giovani e i giovanissimi grazie all’analisi del contesto e delle richieste pervenute: gli adulti si rivolgono ai Servizi con la propria diagnosi nota, riconosciuta, raramente nelle prime fasi del consumo. In seguito le disposizioni regionali hanno confermato le attività specifiche rivolte a soggetti in età tra i 14-24 anni, ci si è trovati di fronte alla necessità di ripensare il tipo di intervento proposto. Tra il 2015 e il 2016 l’attività DP si è andata configurando come Diagnosi e Trattamento Precoce (DTP) in quanto gli accessi ai Servizi hanno mostrato i segni di impegno nel consumo e la gravità della patologia osservata nonostante la giovanissima età dei ragazzi: sviluppandosi la DP proprio all’interno di un SerD è stato possibile intervenire tempestivamente anche con il Trattamento Precoce.

I rischi e le criticità di questa attività sono legati ad un possibile danno iatrogeno, ovvero la stigmatizzazione e la difficoltà a distinguere i sintomi di un malessere da una normale esperienza adolescenziale, pongono i clinici di fronte al rischio di intercettare falsi positivi con l’immissione incongrua dell’adolescente in un servizio di cura3.

DTP e il lavoro con le famiglie

L’Attività di Diagnosi e Trattamento Precoce, fin dal suo avvio, ha dovuto fare i conti con un modello di intervento specifico per adolescenti e giovani, occupandosi di fatto di una fascia di utenza ben distinta da quella generalmente in trattamento presso un SerD. Se di norma i pazienti che accedono al SerD sono adulti che portano la loro domanda di cura rispetto ad una condizione di dipendenza antica e strutturata, con una famiglia spesso vulnerabile e fragile sullo sfondo, chi accede all’Attività di Diagnosi e Trattamento Precoce è molto frequentemente il genitore di un ragazzo che ha tra i 14 e i 24 anni, che racconta di situazioni ancora poco chiare rispetto alle condotte d’abuso e che chiede agli specialisti di aiutarlo a capire meglio. Spesso si tratta di famiglie sufficientemente attrezzate che però faticano a svolgere il ruolo educativo e protettivo sotto i colpi inferti dalle pressioni ambientali. Raramente in questi anni ci siamo imbattuti in richieste portate in prima istanza dai nostri giovani pazienti; quando ciò accade riguarda pazienti nella fascia 20/24 prevalentemente con richiesta di terapia sostitutiva. Negli altri casi è quasi sempre un padre, una madre, una coppia di genitori che si avvicina al Servizio chiedendo aiuto. Nell’attività ordinaria SerD la richiesta è del paziente adulto e la famiglia è sullo sfondo, nell’Attività di Diagnosi e Trattamento Precoce la richiesta è della famiglia e l’eventuale paziente è sullo sfondo. Frequentemente l’aiuto viene richiesto per un figlio o una figlia che in prima battuta non ha nessuna intenzione di accedere al Servizio.

Abbiamo dovuto rivedere il nostro protocollo di accoglienza, molto adeguato per la domanda portata dal singolo adulto strutturato, ma completamente inefficace di fronte a un gruppo (sistema) di persone che arriva con una modalità molto fluida (genitori insieme, solo il padre, solo la madre, solo la nonna…), con una domanda non chiara, con l’angoscia di chi ha appena scoperto che il proprio figlio manifesta un comportamento problematico (gioco d’azzardo o consumo di una o più sostanze) o con la rabbia di chi l’ha scoperto da un po’ e ha provato ad attivare i propri metodi educativi scoprendoli fallimentari.

La domanda che viene rivolta agli specialisti assume frequentemente una modalità urgente, angosciata, delegante, centrata sul sintomo. La famiglia arriva quasi sempre in emergenza: scoprire che il proprio figlio è entrato in contatto con le sostanze può attivare un certo interventismo e la richiesta di una cura intesa come “cure4. Sappiamo che in termini generali l’emergenza è una condizione in cui sussiste un pericolo di vita e l’intervento non può essere differito, mentre l’urgenza è la condizione in cui non c’è pericolo di vita, ma è richiesto comunque un intervento tempestivo affinché l’urgenza non diventi emergenza. Frequentemente le famiglie che accedono all’attività di Diagnosi e Trattamento Precoce portano una situazione di urgenza-quasi-emergenza che rischia di far saltare la possibilità di pensare. L’obiettivo dei terapeuti è di trasformare la qualità della domanda rendendola più ampia, più consapevole, più attenta al “care5. È un obiettivo ambizioso soprattutto quando l’urgenza preme e i tempi sono diversi per ciascuno: i genitori non hanno il tempo di aspettare e il figlio non ha tempo per trattare la questione. I terapeuti inoltre hanno bisogno di tempo per comprendere, perché concedersi un tempo per la comprensione significa uscire da una posizione di onnipotenza trovando nell’equipe la dimensione gruppale che sollecita il terzo del pensiero.

Come specialisti abbiamo dovuto imparare a trattare la persona e il suo contesto perché lavorare con un adolescente, che forse nemmeno arriva o che arriva controvoglia, significa saper lavorare con chi porta la domanda che spesso è parte cruciale del contesto come lo è il genitore. I possibili sviluppi di un comportamento di consumo dipendono da un’interazione tra fattori di rischio e fattori di protezione che pertengono alla dimensione intrapsichica e famigliare, oltre che a quella sociale: nessuna risposta può quindi prescindere dalla conoscenza ampia della condizione famigliare e sociale nella quale si inserisce l’uso di sostanze o i comportamenti problematici6. Il timing diventa una questione centrale. L’intervento tempestivo può avvenire quando si crea un’alleanza e si attiva il care nelle famiglie e nei terapeuti in un tempo che non è “subito”, ma è il momento giusto.

A ciò si aggiunge anche l’impatto del significato che i genitori e il figlio attribuiscono a certi comportamenti.

La reazione genitoriale di fronte al consumo di sostanze del figlio tende a oscillare tra la negazione e la minimizzazione del fatto e, all’ opposto, l’estrema drammatizzazione7. Per la famiglia la condotta di consumo può essere letta come una semplice spinta un po’ trasgressiva alla crescita e nulla più («ma si, ci sta, l’abbiamo fatto tutti, no?»); può essere la nuova acquisizione identitaria del figlio («è diventato un ribelle… è diventato un tossico… non lo riconosco più»); può essere il sintomo di un cattivo funzionamento relazionale con un genitore («magari l’altro genitore» e a che quel punto diventa l’occasione per l’esplicitazione di un conflitto di coppia); può essere il sintomo di un disagio che c’è sempre stato (un figlio carente che non si è mai capito bene cosa avesse e ora si capisce perché agisce e perché è la pecora nera della famiglia). Quando il livello di angoscia è alto la richiesta è pressante e va nella direzione della “ricetta” da avere immediatamente: il primo passo è abbassare allora il livello d’angoscia per potersi dare un tempo e uno spazio dove attribuire senso a eventi complicati.

Il lavoro con la famiglia all’interno dell’Attività di Diagnosi e Trattamento Precoce ha sempre assunto in genere le vesti del counselling. Tale approccio si concentra sulla problematica portata e si pone l’obiettivo di rendere le persone più capaci di affrontare la questione che le assilla; punta a risolvere o a gestire meglio il problema lavorando sull’autoefficacia genitoriale, trattando ciò che genera preoccupazione o sofferenza e facilitando le condizioni per una narrazione completa e meno difesa da parte dei genitori8. Gli obiettivi del counselling, descritti con molta chiarezza da Leopoldo Grosso, sono:

– Normalizzare le reazioni dei genitori rispetto all’avvenimento o agli avvenimenti di cui vengono a conoscenza. Come più sopra evidenziato, facilmente lo specialista si trova di fronte a meccanismi tipici come la negazione e la minimizzazione, ma anche l’enfatizzazione e l’iperdrammatizzazione e su questi interviene.

– Sviluppare una più accurata conoscenza della problematica, che possa portare i genitori ad acquisire una consapevolezza complessiva del rapporto tra adolescenti e sostanze psicoattive. Fornire un’informazione corretta e completa che occorre contestualizzare nelle problematiche adolescenziali, così come si concretizzano nella realtà familiare, consente ai genitori di considerare la questione in una prospettiva più ampia.

– Aumentare la fiducia nel proprio ruolo genitoriale e nelle proprie capacità educative, sapendo di poter svolgere un compito circoscritto e non necessariamente decisivo. Si conferma in genere la positività dell’impegno profuso e del ruolo svolto e si propongono possibili e parziali suggerimenti “aggiuntivi” e “correzioni” di tiro.

Il counselling familiare mira a sostenere il nucleo genitoriale e lo aiuta a percepire le proprie risorse come punti di forza, lo rende più in grado di leggere le situazioni che vive senza irrigidirsi in stereotipi e pregiudizi.

A volte il lavoro con la famiglia viene svolto in rete con altri professionisti che già intervengono sul caso (terapeuti famigliari, terapeuti individuali, educatori, assistenti sociali…), a volte è necessario effettuare degli invii ad altri professionisti, a volte non è opportuno o necessario chiamare in seduta il figlio, a volte è molto importante chiamarlo, a volte arriva già al primo colloquio con i suoi genitori. È comunque sempre importante distinguere tra una situazione di consumo di sostanze/comportamento di gioco d’azzardo problematico e una situazione di sperimentazione, crescita ed evoluzione. Sul campione generale della popolazione noi sappiamo che certe condotte nei giovani sono nella maggior parte dei casi sperimentali e con valenza ludica, mentre solo una minima parte agisce comportamenti problematici. Ma sul campione delle persone che afferiscono ai Servizi le cose cambiano: l’esperienza di questi anni ci dice che frequentemente (non sempre) quando una famiglia chiede aiuto lo fa perché sta attraversando una crisi importante che può o meno avere una connessione con l’uso delle sostanze del figlio o con il gioco d’azzardo. Si procede allora a lavorare sia con i genitori che con il figlio sul significato del “sintomo” (o segno). Tale compito non è semplice, visto che spesso per i giovani che incontriamo l’uso della sostanza o il gioco d’azzardo vengono letti quasi sempre come situazioni che piacciono, che fanno star bene, che fanno tutti. Se approfondendo si scopre che la condotta assolve ad una funzione antipensiero e anestetica che permette di allontanare “i pensieri troppo difficili da pensare”, allora entriamo in un’area che non è ludica ma problematica9. Il problema non è quindi solo quanto e quando si consuma, ma quale funzione sta assumendo quella sostanza o quel comportamento, quanto sta aiutando a produrre illusioni rispetto alla costruzione del sé. J. Fisher nel suo libro Guarire la frammentazione del sé afferma che le sostanze (i comportamenti additivi) potrebbero essere usate come strategia di sopravvivenza per ottenere sollievo e gestire le emozioni pervasive10. Attribuire un senso a certe condotte permette di aprire uno spazio per il pensiero dei genitori e del figlio e consente di arginare i processi di etichettamento economici dal punto di vista delle risorse psicologiche richieste, ma sterili dal punto di vista della mobilitazione affettiva famigliare. Permette una presa in carico ad alta intensità, se necessaria, la prosecuzione del counselling se maggiormente pertinente, la dimissione se indicato.

All’interno dell’equipe di Diagnosi e Trattamento Precoce ci sono professionalità diverse che intervengono a seconda delle richieste e delle necessità rilevate dal caso. Tra queste professionalità gli psicologi psicoterapeuti (con diversi orientamenti teorici quali psicodinamico, sistemico-relazionale e cognitivo-comportamentale) vengono sempre coinvolti quando si attiva un intervento con i genitori: questo viene valorizzato dalle diverse teorie psicologiche che lo definiscono quasi sempre imprescindibile, e che può trovare i seguenti punti in comune nell’intervento.

Anzitutto è possibile evidenziare che per ciascun modello è fondamentale la collaborazione a valenza terapeutica con i genitori per poter intervenire in modo efficace sul disagio sviluppato dal figlio. Ogni approccio inoltre presuppone che i deficit relazionali possono tramandarsi tra generazioni impattando sul benessere psichico dell’individuo e della sua famiglia e che ogni sintomo può avere una sua funzione. Può essere letto come la risposta più efficace in un dato momento per sopperire alla mancanza di alcune funzioni interne o come utile a mantenere un equilibrio all’interno del nucleo famigliare.

Il counselling famigliare sostiene le famiglie a maturare una consapevolezza rispetto ai meccanismi sottostanti il segno/sintomo che si osserva e tende ad assumere una funzione riparativa e trasformativa utilizzando il setting come “banco di prova”, ovvero il qui e ora per sperimentare nuovi assetti e nuovi insight.

Per concludere ogni modello, secondo le proprie teorie di riferimento, agisce per sostenere il nucleo famigliare nel proprio ruolo valorizzandone le risorse, stimolandone la comprensione e agendo per il cambiamento degli aspetti disfunzionali.

DTP e la co-conduzione: la trasformazione del setting

Il modello della DTP ha scelto di utilizzare la co-conduzione come modo di impostare l’intervento terapeutico, in fase di consultazione, con i giovani pazienti e i loro familiari.

Nel modello DTP, l’accoglienza è rivolta a chi del nucleo familiare si presenta al colloquio: il singolo adolescente, la coppia genitoriale o il singolo genitore o l’intera famiglia. Con questa modalità d’intervento i conflitti personali con le figure di riferimento trovano facile espressione all’interno del lavoro terapeutico. Spesso non è semplice coinvolgere nel setting il genitore, soprattutto l’adolescente fatica ad accedere serenamente alla propria risorsa genitoriale. La vergogna nel chiedere aiuto, l’erotismo esasperato al posto di una sana affettività, il giudizio, il senso di inadeguatezza, il blocco del linguaggio emotivo, conseguente ad una eccessiva intellettualizzazione o all’uso di sostanze, spesso inducono i terapeuti ad usare strategie alternative e piuttosto creative11 mantenendo la solidità dei propri setting interni. A questo proposito anche Colette Soler mette in guardia dal rischio di trasformare le regole del setting in standard di riferimento per la cura, costituendo alla fine, nella loro ripetizione standardizzata, solo una funzione rassicurante per lo psicoanalista12, «Il problema non è allora standard o no, ma piuttosto: valido o no?». 13

La consapevolezza di una sperimentazione

L’incontro con i pazienti di età tra i 14 e i 24 anni avviene alla presenza contemporanea di due specialisti con diverse professionalità (medico-educatore, medico-assistente sociale, medico-psicologo, psicologo-educatore) che, nello stesso setting di consultazione, partecipano al primo colloquio così come ai successivi.

Questo modello inizialmente “sperimentale”, ora diventato il modello consueto in DTP, prende spunto dalla teoria degli interventi di psicoterapia psicodinamica della coppia e dagli interventi di psicoterapia analitica di gruppo.

L’esperienza clinica ci ha insegnato che sono primariamente i genitori a rivolgersi al Servizio e che il contenimento delle loro paure e angosce sembra essere meglio gestito e alfabetizzato dalla presenza di due professionisti sanitari di differente competenza, che possono fornire anche informazioni di livelli diversi.

La sperimentazione della co-conduzione prende avvio proprio dall’iniziale lavoro di consultazione, che ha un tempo variabile a seconda della complessità dei casi. Potremmo avere pertanto consultazioni di lunga durata offerte ai genitori e/o alla famiglia, o consultazioni che sfociano in un piano di trattamento strutturato in un setting condotto individualmente, a seconda dei bisogni del paziente: sociale, educativo, psicoterapico o psichiatrico. Proprio perché siamo in un contesto di consultazione, viene così a delinearsi un setting mobile e creativo con sedute a cadenza variabile.

La con-presenza nel setting di un collega si rivela indispensabile per favorire un ampliamento della lettura delle dinamiche emotive e relazionali, presenti all’interno della relazione genitore-figlio, giovane-gruppo, e soprattutto per rielaborare importanti nuclei traumatici ai quali il paziente farebbe fatica ad accedere da solo. I professionisti coinvolti nell’attività sono diversi e di varia formazione, pertanto la presenza di un co-conduttore può aumentare la complessità del sistema e può costituire un fattore di complicazione aggiuntivo14; ma adolescenti e coppie genitoriali hanno spesso bisogno di un modello parentale, pertanto i co-conduttori devono essere in grado di fornire un modello funzionale di comunicazione, collaborazione e interventi complementari a beneficio del nucleo familiare. La coppia di conduttori può fornire un’immagine di autorità parentale, che può evocare efficacemente le immagini della famiglia di origine dei partecipanti, dando molte opportunità per lo sviluppo di modelli di attaccamento transferali.

Si sottolinea l’aspetto della diversa funzione psichica dei professionisti coinvolti nella mente del giovane e della sua famiglia. La coppia di conduttori evoca l’assunto di base di accoppiamento, il conflitto tra cultura della coppia e cultura del gruppo, il transfert materno/paterno a prescindere dal genere15. Nello svolgimento del colloquio si rende necessaria, nella coppia terapeutica, una presenza attiva e decisionale e una maggiormente passiva di ascolto empatico e osservazione delle dinamiche relazionali, definendo parti “maschili e femminili”. Non ci riferiamo a prerogative inerenti il sesso dei conduttori, quanto ad atteggiamenti mentali e comportamentali connotabili con il binomio di parametri “attività-passività”16.

Inoltre la co-conduzione rassicura i professionisti di fronte alla complessità e al carico emotivo portato dalle famiglie, senza diventare però il rimedio per le insicurezze del terapeuta, poiché una co-conduzione richiede maggiori e non minori abilità. Perché i co-conduttori diventino una coppia e la loro relazione si consolidi c’è bisogno di tempo, diventa quindi fondamentale che lavorino con un senso di rispetto e apertura reciproci, anche se provengono da esperienze diverse 17. Una relazione armoniosa e collaborativa tra i conduttori è probabilmente più importante di una dimostrazione delle specifiche tecniche di comunicazione.

Quando la co-conduzione lavora bene, può diventare un’opportunità stimolante per evitare la minaccia del burn-out o della solitudine del lavoro individuale. Bisogna porre sempre molta attenzione alle dinamiche della coppia, per ovviare a possibili squilibri, sotto forma di competitività, di interruzioni o correzioni vicendevoli, posizioni di passività eccessiva o di reciproca codipendenza che ostacolano interventi proattivi efficaci. I conduttori devono costantemente equilibrare i loro livelli di attività, che non vuol dire fare le stesse cose, ma interagire con il nucleo familiare secondo le proprie specifiche competenze. È importante, che prima e dopo le sedute, ci sia la possibilità di riservare degli spazi, seppur ridotti, di riflessioni e di scambio di impressioni. La differenza di formazione, ruolo e competenza, può innescare vissuti di esclusione nei professionisti e i momenti di feedback diventano fondamentali per ridare senso alla funzione di ogni conduttore, e nel contempo, ricevere dai colleghi elementi indispensabili alla comprensione del materiale portato dal paziente (che sia sanitario, psicologico, giuridico, ecc.) È anche importante aprire la discussione del caso clinico alla dimensione dell’équipe allargata, perché a volte, quando ci si confronta su di una situazione clinica, fanno la loro comparsa nel campo insiemi di immagini molto condensate, cariche di drammaticità e con effetti paralizzanti sulle capacità associative; gradualmente, nel lavoro di équipe, con l’esplicitazione delle emozioni sottostanti si consente la comparsa di nuove angolature e il materiale perde il suo carattere di forma immobile, acquisendo quello di uno scenario più praticabile, rispetto al quale i curanti possono assumere una posizione più articolata e libera 18.

Il prerequisito di un buon funzionamento della coppia terapeutica è costituito dalla capacità di assumere ruoli e posizioni complementari, in un clima relazionale sufficientemente libero da atteggiamenti di competizione e sfida. È fondamentale che nel momento in cui uno dei conduttori prenda su di sé la responsabilità di particolari fasi del colloquio, l’altro possa accettare una posizione più dipendente e passiva, per svolgere al meglio la funzione di osservazione empatica19. Durante il colloquio, l’alternarsi della funzione di conduttore o di osservatore impedisce ai ruoli di irrigidirsi e strutturarsi in modo fisso, questo fa sì che le proiezioni del nucleo familiare sui professionisti possano essere condivise dai conduttori e diventare più mobili e maneggevoli, dando la possibilità al transfert di distribuirsi e avere una maggiore consapevolezza del controtransfert20.

Particolare attenzione è rivolta alle istanze evolutive del giovane paziente e all’integrazione di tutti gli aspetti della vita della persona (sanitari, familiari, sociali, scolastici, psicologici, giuridici, ecc.), onde evitare la parcellizzazione del paziente stesso. Considerare prioritario lo sguardo sul sintomo consumo di sostanze/comportamento da gioco d’azzardo, rischia di scotomizzare e/o scindere altri aspetti di carattere evolutivo che appartengono alla quotidianità della vita adolescenziale. Il giovane si relaziona più spesso a più interlocutori (genitori, nonni, insegnanti, gruppo dei pari) piuttosto che a singoli individui: la coralità nello stile relazionale del giovane sembra la regola più che l’eccezione.

Nel corso dell’attività si è osservato che spesso la componente psicopatologica o psicologica presente è preminente rispetto al sintomo: più complesso si è dunque rivelato il lavoro di Diagnosi Precoce e di conseguenza anche l’Intervento Precoce21.

Ma due terapeuti sono meglio di uno?

La risposta non è sempre stata scontata. Per diverso tempo si è ritenuto che, specie per i pazienti borderline ma anche per tutti i pazienti gravi, la molteplicità delle figure professionali potesse essere dannosa.

La psicoanalisi, specialmente quella di ispirazione kleiniana, ha a lungo prescritto che il paziente borderline, dovesse essere seguito da una sola figura terapeutica22. Secondo gli studiosi ispirati alla teoria delle relazioni oggettuali, il paziente borderline tenderebbe a scindere difensivamente rappresentazioni parziali e opposte del Sé o degli oggetti esterni. Ciò provocherebbe intense relazioni transferali negative e la difficoltà a costruire una stabile alleanza terapeutica2324. Per questo motivo l’uso di terapie multiple, ciascuna condotta da un diverso terapeuta, era sconsigliato: avrebbe facilitato la tendenza a scindere e proiettare aspetti parziali e contradditori nei diversi setting25.

Dagli anni ‘80 in poi, questa prescrizione è stata superata, e «malgrado i pericoli di scissione, i piani terapeutici per i pazienti borderline dovrebbero coinvolgere due clinici, due modalità, insomma duplici componenti. Quando coordinate, due componenti in un trattamento possono fornire un contenitore per le scissioni e le proiezioni, che trattengono in cura il paziente»26. Rispetto alla richiesta di emergenza portata dalle famiglie, possiamo dire che la crisi che la connota è di per sé un momento dirompente, che va limitato nel tempo per evitare che i livelli elevatissimi di angoscia abbiano effetti di inibizione e ulteriore frammentazione sull’intero mondo psichico del giovane paziente e del suo nucleo famigliare, che però, per altri versi offre l’opportunità di una riunificazione con aspetti negati e dispersi, oltre a costituire un momento di attivazione, secondo processi che tendono a invertire quelli di cronicizzazione27.

Nel momento dell’emergenza, da quello che abbiamo potuto osservare, non è soprattutto importante offrire una spiegazione adeguata dei motivi che hanno condotto in quella situazione, quanto far capire, ai genitori e al paziente, che si è consapevoli di quello che stanno provando e creare nel gruppo e nel singolo una sorta di cassa di risonanza emotiva, uno spazio di accoglimento delle angosce. È importante che i co-condutori, e l’equipe di cui fanno parte, sappiano creare questo spazio di risonanza in un clima di accettazione. Il compito più complesso è fare oscillare l’intero gruppo (dei curanti e della famiglia) «tra un eccesso di solidità ossessiva, quando prevale il “dover fare”, e una sorta di liquefazione emotiva, quando prevale il “come ci sentiamo”»28. Ciò presuppone l’instaurazione di un clima protetto e non eccessivamente vincolato alla necessità dell’agire; l’esperienza ci insegna che, nonostante il carattere emergenziale delle richieste, questo spazio in realtà è molto richiesto dai curanti e in seguito apprezzato dai pazienti e dalle loro famiglie. Possiamo dire, in effetti, che esiste una impossibilità effettiva di proporre un accoglimento adeguato se l’eccesso quantitativo della domanda satura troppo rapidamente il campo emotivo di colui che accoglie. Come ricorda Bion «occorrono due menti per pensare i pensieri più disturbanti dell’individuo»29, ovvero quando la capacità di pensiero delle parti della personalità in conversazione l’una con l’altra si rivela inadeguata al compito di pensare l’esperienza disturbante dell’individuo, le menti di due persone separate sono necessarie per pensare i precedenti pensieri impensabili dell’individuo30, o delle loro famiglie.

Prima di passare all’esemplificazione del trattamento attraverso l’illustrazione di alcune vignette cliniche che potremmo leggere con uno sguardo psicodrammatico, concludiamo dicendo che l’iniziale sperimentazione di setting mobili e co-condotti è diventata nel tempo per la Diagnosi e Trattamento Precoce una realtà consolidata, condivisa e imprescindibile. Cercheremo di illustrare il lavoro che si è svolto per spingere il gruppo (della famiglia e dei curanti) dalla dimensione dell’emergenza alla dimensione onirica, grazia alla funzione alfa, che ha elaborato i dati grezzi dell’esperienza permettendo il passaggio da un piano di fissità immodificabile, ad un piano più diluito, più trasformabile, più pensabile, che ha aperto, come nel gioco psicodrammatico, alla possibilità di accedere alla regolazione della distanza dall’Altro.

Il tempo di ordinare

«Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore
Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore
Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia…»

(FRANCESCO DE GREGORI – La leva calcistica del ‘68)

La madre di Nino contatta l’equipe di DTP nel mese di settembre in quanto, tra la primavera e l’estate appena trascorse, ci sono stati diversi episodi relativi a Nino e alle sostanze, culminati con il ritrovamento di un cospicuo quantitativo (più di 10 grammi) di THC nella camera di Nino.

Nino è un ragazzo di 17 anni e sta per iniziare l’ultimo anno di un liceo classico perché anticipatario. È un giovane sportivo amante del calcio e ha una fidanzata con cui ha una relazione significativa. Nino è aperto, socievole, simpatico, brillante e non si arrabbia mai.

La mamma ha 49 anni, è laureata e lavora come consulente. È sposata da oltre 15 anni e con il marito ha avuto tre maschi dei quali Nino è il primogenito. La signora è molto disponibile, esuberante, a tratti ironica e si definisce “un vulcano”.

Il papà ha 48 anni, è laureato e anche lui lavora come consulente. Il padre è gentile, disponibile, pacato e sicuro nei modi. Dice che, come Nino, non si arrabbia mai.

Si presentano tutti e tre al primo colloquio. Il clima è vivace, non apertamente conflittuale, molto verboso. Non è in quel momento possibile capire la preoccupazione dei genitori che sovrappongono il timore di condotte antisociali alla preoccupazione di una diagnosi di dipendenza da cannabinoidi. Appaiono molto centrati sulla possibilità di una soluzione immediata, chiedendo unicamente indicazioni comportamentali concrete e apparendo disorientati e confusi rispetto alla possibilità di cercare un significato agli accadimenti. L’urgenza portata dai genitori di Nino viene sentita come un’emergenza nella mente delle terapeute, inizialmente in scacco di fronte a tanta fatica a pensare. Nino si presenta come un ragazzo curioso, particolarmente ragionevole e composto, definisce eccessiva la preoccupazione rispetto alla possibilità di sviluppare una dipendenza, ma comprende lo spavento per il quantitativo di THC trovato. Si propone un percorso di approfondimento che prevede colloqui individuali, con Nino che esprime la sua curiosità per le sostanze, e colloqui con la coppia genitoriale. Si resta quindi in attesa della loro decisione. L’obiettivo, da un lato, è di contenere l’angoscia dei genitori (che si esplica in particolare attraverso eccessi di controllo e sfiducia) e di trasformare la loro domanda da “diteci cosa fare in questo casino” a “che cosa significa questo casino”; dall’altro di rispondere alla curiosità di Nino, il quale desidera comprendere il tipo di rapporto che potrebbe sviluppare con la sostanza e i rischi connessi, provando a creare in questo modo le basi per uno spazio in grado di aprire a una domanda più differenziata rispetto a quella dei genitori. È lo stesso ragazzo, una settimana dopo il primo colloquio, a chiedere espressamente via mail di potersi rincontrare per parlare degli effetti della sostanza. Parallelamente, in uno dei primi colloqui, i genitori informano della loro separazione che si concretizzerà di lì a poche settimane (di fatto avverrà nel mese di novembre). Per le terapeute quest’ultima è una comunicazione inattesa.

Il lavoro con Nino e i suoi genitori si è strutturato su un periodo di circa 8 mesi con sedute sempre co-condotte dal medico-tossicologo-psicoterapeuta e dalla psicologa-psicoterapeuta: sono stati effettuati 3 colloqui con i genitori e Nino assieme, 3 colloqui con la coppia genitoriale, 15 colloqui individuali con Nino, 3 colloqui individuali con la madre, 3 colloqui individuali con il padre. Sono stati usati anche alcuni questionari specifici sia con Nino sia con i suoi genitori. A oggi il lavoro con Nino non si è ancora concluso: alla fine del periodo di consultazione il ragazzo ha chiesto di poter proseguire con colloqui di supporto.

Proveremo a raccontare il caso di Nino attraverso alcune immagini, collocandole nel tempo terapeutico e provando a utilizzarle per descrivere i passaggi avvenuti nei mesi, cercando di “pensar per scene” come avviene nello psicodramma analitico.

Novembre: La ricarica

Nino arriva sorridente e affabile. Nota subito un caricatore per Iphone attaccato alla presa di corrente dietro la scrivania. «Mi puoi ricaricare il telefono per favore? Sono scarico». Il telefono di Nino resterà attaccato al caricatore della terapeuta per tutta la seduta. Questa scena si ripeterà per tutte le sedute successive. Questa scena è evocativa di diverse suggestioni per le terapeute, che avvertono come prima sollecitazione la richiesta diretta di “essere ricaricato” di Nino, come se ci fosse un vuoto di energia e di forza che si sente anche sul corpo: Nino ha subito un infortunio che lo sta tenendo lontano dal suo amato calcio da diversi mesi e fatica a rimettersi in forma perché il dolore lo blocca. Il ragazzo sembra scarico di fronte ai compiti di separazione che lo attendono e che per lui sono doppiamente impegnativi sul piano delle risorse psichiche impegnate dal processo. C’è la sua età, i suoi 17 anni che chiamano lo svincolo dalle figure parentali, ma c’è anche la separazione concreta dei suoi genitori, che è imminente e apre davanti agli occhi di Nino il grave rischio di vedere sfaldata la propria base sicura. Come si fa ad andare tranquilli a esplorare il mondo se si teme che i genitori siano troppo sofferenti? Come si fa a separarsi dall’immagine della figura combinata (i due genitori), approdare a nuove immagini della madre e del padre e separarsi anche da queste in così poco tempo? Pare davvero uno sforzo immane per Nino, che a più riprese viene appellato dai genitori come indolente perché rimanda lo studio, non si applica, progetta poco il suo futuro. Le terapeute rileggono l’indolenza come un vuoto di energia e carica perché, forse, i compiti da affrontare sono eccessivi. Nino è un ragazzo che dice sempre sì, risponde alle attese, fa quello che gli si chiede, non si arrabbia mai, non chiede aiuto: riesce ad accedere ai colloqui con le terapeute perché è curioso di vedere cosa fa uno psicologo («Potrebbe essere interessante per il mio futuro corso di laurea») e perché vuole avere informazioni tecniche sulle sostanze e sui rischi, non perché chiede esplicitamente aiuto. L’indolenza è forse il suo modo per descrivere da un lato la fatica a essere sempre “sul pezzo”, e magari anche, dall’altro, la sua personale opposizione, il suo “no” alle richieste di performance. Anche durante la consultazione dice no a volte attraverso alcuni agiti (salti di seduta, ritardi importanti…).

Un’altra sollecitazione che arriva alle terapeute è l’immagine del gioco del rocchetto. L’elemento essenziale del gioco del rocchetto per Lacan è che l’oggetto tenga, che quel filo che avvolge il rocchetto possa consentire l’allontanamento e l’avvicinamento dell’oggetto. «A patto che tenga e che possa essere gettato e ripreso» 31. Il gioco del rocchetto permette di poter allontanare l’oggetto ma soprattutto di poterlo richiamare a sé: il ripetere l’esercizio di questo andirivieni di presenza-assenza, di questa rappresentazione, è garantito a patto che il filo tenga. Il caricatore richiama proprio il rocchetto e la sua funzione. Il rocchetto è di Nino, il filo che tiene è delle terapeute. Questo “gioco” si ripete ad ogni seduta, è quasi parte del setting: l’oggetto superinvestito (il cellulare di un adolescente) viene lasciato e attaccato al filo delle terapeute e poi viene ripreso carico. Più avanti si descriverà il momento in cui questa scena non si ripete più. È nella ripetizione del gioco, nell’accettare di incontrare il proprio Altro, sullo sfondo dell’assenza, che qualcosa di nuovo potrà accadere che metta in luce il vacillamento radicale del soggetto 32. Come nel gioco psicodrammatico, il “gioco”, nella relazione terapeutica, ha favorito in Nino il passaggio dalla ripetizione alla rappresentazione, configurandosi come possibilità di interrompere la coazione a ripetere.

Gennaio: i soldi per il panino

La mamma di Nino ha appena concluso una delle sedute individuali con le terapeute. Ha parlato a lungo, con intensità ed emozione. È generosa nel colloquio, raramente si sottrae. Il tema è stato soprattutto la separazione. Il colloquio si svolge la mattina. Nel pomeriggio ci sarà il colloquio con Nino. Si alza dalla sedia per salutarci, ma prima mette 2.50 euro sulla scrivania «Dottoresse, potete dare questi soldi a Nino? Arriva dritto dalla scuola, non avrà mangiato, almeno poi si può prendere un panino».

Le terapeute accolgono la richiesta e mettono i soldi nel cassetto: sono molto sollecitate dalla domanda della madre. Temono di dimenticare di dare i soldi, si domandano che panino mangerà Nino, si guardano con sguardo interrogativo perché non è mai capitato che qualcuno affidasse loro dei soldi da dare al figlio per mangiare, si chiedono che significato possa avere tale richiesta. Nino nel pomeriggio prenderà i soldi con un lieve imbarazzo, che sfumerà rapidamente per dare posto alle sue questioni e alle sue curiosità.

Ma le terapeute si sono soffermate a lungo su questo avvenimento perché, se pure razionalmente, è salita subito alla mente di entrambe l’idea della delega e della deresponsabilizzazione; dal punto di vista controtransferale, invece, ciò che è arrivato forte è stato quel sentimento di sentirsi investite del ruolo di custodi dentro un luogo sicuro e di fiducia e di messaggere di un atto materno che dal nutrimento ipercontrollante (la madre inizialmente controllava il telefono, lo zaino, i vestiti del figlio…) fa un passo indietro verso la possibilità di garantire al figlio di nutrirsi, scegliendo però in autonomia, in linea con le richieste di crescita ed emancipazione del ragazzo. Come se l’eccessiva presenza di un materno avesse lasciato spazio a un elemento separatore, od ordinatore, che ha aperto ad un processo di simbolizzazione. È in questa fase che la signora riconosce all’ex coniuge una maggior attenzione ai figli, una maggior presenza nella loro vita, come se la separazione tra i genitori avesse permesso a entrambi di esercitare il loro ruolo genitoriale con maggior competenza: nel momento in cui c’è questo riconoscimento, la signora può indietreggiare e lasciare spazio al padre, legittimando così i ruoli di entrambi.

Quando la madre trova uno spazio per parlare della propria separazione, sembra poter garantire lo spazio mentale alla separazione del figlio. Di fatto nelle prime sedute anche congiunte con madre e padre, questo aspetto è difficile da tematizzare: il clima è sempre estremamente “civile”, non si avvertono aggressività e dolore, nonostante l’atto concreto del separarsi sia proprio lì presente, accade mentre inizia la consultazione, con tutto il suo carico emotivo, carico che però sembra dissociato nelle prime fasi. Anche per questo motivo le terapeute decidono di garantire spazi individuali ai genitori per poi poterli rivedere successivamente assieme.

Parallelamente Nino in questo periodo svolge alcuni questionari specifici. Il MMPI-A permette di considerare assieme alle terapeute con maggior sguardo critico il suo essere condiscendente, disponibile, mai arrabbiato e in accordo con tutti. La stessa grande disponibilità di Nino a fare i questionari viene tematizzata in seduta. Il ragazzo mette a fuoco come questi aspetti possano essere connessi anche con i motivi della consultazione al SerD: fumare le canne mette a tacere le possibili rabbie? Comprare le canne per tutti gli amici è un modo rischioso con cui si esplica la sua condiscendenza? Rischiare l’anno scolastico per la mancanza di studio è un modo per opporsi alle precise direttive genitoriali, da sempre molto orientate su un successo scolastico autorizzato solo al liceo classico? Quest’ultimo aspetto è presente soprattutto nel ramo paterno che va avanti da generazioni con il mito del liceo classico come unica opzione formativa e come riconoscimento del valore personale. Nino è soprattutto uno studente, un anticipatario che a 4 anni e mezzo non andava al parchetto perché doveva prepararsi con la madre per anticipare il suo percorso scolastico.

In questa fase Nino inizia a utilizzare le canne più saltuariamente rispetto all’estate precedente. L’esame tossicologico sulla matrice pilifera per la ricerca dei metaboliti dei cannabinoidi che verrà effettuato a marzo risulterà negativo.

Maggio: un tempo lunghissimo, ma veloce

A maggio le terapeute incontrano tutti e tre per una restituzione congiunta che, in parte, è già avvenuta con i genitori e con Nino separatamente. Appaiono tutti e tre tranquilli e sembrano passare tra loro degli sguardi di intesa. “Siamo più tranquilli… quando siamo arrivati eravamo in urgenza, angosciatissimi. Volevamo risolvere tutto subito. Già quando abbiamo avuto il primo contatto con voi per fissare l’appuntamento ci siamo sentiti più tranquilli… poi c’è stato tutto questo tempo”. Entrambi i genitori definiscono il tempo della consultazione “lunghissimo ma veloce”, mentre Nino lo definisce “costante”.

La percezione di un tempo che scorre veloce è la percezione di un tempo generalmente buono, caratterizzato da esperienze interessanti, piacevoli. Eppure è anche lunghissimo, perché è un tempo che si è sottratto alla logica dell’urgenza-quasi-emergenza. In questo caso è stato possibile accogliere l’urgenza e intervenire con una consultazione intervento che ha permesso di non transitare verso l’emergenza. Nell’esperienza della DTP ciò è possibile solo riconoscendo e legittimando le preoccupazioni, rispondendo al primo contatto velocemente, incontrando le persone il prima possibile, senza mai svilire le loro angosce, ma contenendole fornendo in alcuni casi anche indicazioni (poche ma precise), cercando da subito di garantire uno spazio sicuro. Se i pazienti sentono di vivere in una condizione di emergenza e non li si accoglie presto è altamente probabile che non verranno all’appuntamento fissato fra un mese, ma cercheranno altri luoghi, rischiando di cercare senza fine e cadendo in una situazione di emergenza concreta. È solo successivamente che sarà possibile rallentare, garantendo lo spazio del pensiero in un tempo che può permettersi di essere anche lunghissimo.

Il tempo descritto da Nino come “costante” rimanda all’idea di una relazione terapeutica stabile, non cedevole nonostante gli assalti al setting delle prime fasi. Evoca, con quel termine, il concetto di costanza dell’oggetto e la possibilità quindi di fidarsi. Chiede, di fronte ai suoi genitori e dopo averlo già chiesto alle terapeute in una seduta precedente, di poter proseguire i colloqui: avverte una maggior consapevolezza di sé e desidera maneggiarla meglio nel confronto terapeutico. Nino, quindi, porta la sua domanda. Dopo una consultazione richiesta dai genitori a cui il ragazzo accondiscende, alla fine, Nino può portare una domanda in autonomia Grazie al vuoto che si apre con l’allontanamento del materno si è creata quella mancanza causativa del desiderio. Propone di utilizzare tempi un po’ più dilatati e ciò viene accordato in virtù di un benessere soggettivo attuale e di un futuro che lo vede impegnato all’università. Le terapeute non ritengono di dover spingere su un tempo più stretto: in questo momento Nino si sente bene, è più importante creare le condizioni perché il ragazzo possa sentirsi sicuro di portare altre domande, “se” e “quando” dovessero emergere.

Giugno: sono carico al 77%

La prima seduta su richiesta di Nino si svolge a giugno, il giorno dopo il suo esame orale di maturità. Entra nella stanza sorridente, con i pantaloncini da mare, la maglietta e le pianelle da piscina. «Scusate, arrivo dritto dalla piscina. Sono lì (la piscina è attigua alla sede del SerD n.d.r) con la mia fidanzata. Dopo il colloquio torno lì. Ho pensato che visto che venivo qui potevo approfittare per fare qualche ora in piscina». Poi appoggia il cellulare sul tavolo: «Oggi non serve il caricatore, sono carico al 77%».

In seduta appare rilassato, contento di aver finito gli esami di maturità. Sta valutando la possibilità di iscriversi a scienze motorie a settembre, è un campo che gli interessa molto e poco c’entra con gli studi classici. È il suo desiderio che sembra finalmente farsi strada.

Le terapeute sono quasi divertite dal look con cui si presenta: si intercetta una sensazione di comfort, di agio. Nino sembra fare un po’ come fosse a casa sua. A più riprese successivamente le terapeute si interrogano su un possibile atto di provocazione, di sfida o di svalutazione dello spazio terapeutico, come a volte accade quando i pazienti si presentano un po’ troppo rilassati o in un modo non del tutto congruo con lo svolgersi di un colloquio clinico. Ma il controtransfert non va proprio in quella direzione. Il look con cui Nino si presenta è privo di orpelli e ci parla di fiducia, non di svalutazione: appare sempre rispettoso, meno compiacente e anche più coinvolto del solito nel dialogo terapeutico che verte soprattutto sulla progettualità futura a medio e breve termine. Il Servizio sembra venir usato come base da cui poter fare esperienze piacevoli: si va, si torna, si va di nuovo. E a questo spazio si può avvicinare, senza mai intrudere anche la fidanzata, rappresentazione della sua crescita e del suo avere altri spazi vitali privati e di piacere.

Nino è carico al 77%. Una carica più che sufficiente ad andare in piscina, andare in seduta e tornare in piscina. Non è necessario usare il caricatore della terapeuta, non è così scarico: ha imparato a utilizzare il suo caricatore personale, si è organizzato per sentirsi di nuovo con un buon serbatoio di energia che gli consente un tempo di autonomia sufficiente. Non ha bisogno del gioco del rocchetto in questo momento, anche se il gioco gli ha permesso di effettuare alcuni passaggi. Winnicott (1971) diceva «[…] Ovviamente l’idea dell’uso di un oggetto è imparentata con la capacità di giocare […]»33. Il grande psicoanalista inglese, con il suo scritto L’uso di un oggetto, viene in mente proprio per il passaggio a cui si assiste quando Nino sembra riuscire finalmente a usare le terapeute e lo spazio e il tempo di consultazione portando la sua domanda, e non quella dei genitori, in un luogo (lo spazio terapeutico) che ha retto agli attacchi distruttivi con i ritardi e i salti di seduta. Nello stesso articolo Winnicott descrive con grande semplicità e immediatezza l’importanza del tempo nella cura «[…] Se solo si riesce ad aspettare, il paziente arriva alla comprensione in modo creativo e con immensa gioia […]»34.

Tiziana Antonini

Dirigente Psicologo Psicoterapeuta, SC SerD Territoriale ASST Santi Paolo e Carlo

Daniela Barbini

Psicologa Psicoterapeuta Psicodrammatista S.I.Ps.A, Consulente SC SerD Territoriale ASST Santi Paolo e Carlo, Docente scuola di specializzazione in psicoterapia COIRAG cell. 3381135767, tel. 0281845367, email daniela.barbini1979@libero.it – daniela.barbini@asst-santipaolocarlo.it

Paola Capellini

Dirigente Medico Tossicologo/Psicoterapeuta, SC SerD Territoriale ASST Santi Paolo e Carlo

Paola Coppin Dirigente Medico Psicoterapeuta, Coordinatore Equipe Diagnosi e Trattamento Precoce, SC SerD Territoriale ASST Santi Paolo e Carlo

Francesca Gervasoni

Dirigente Psicologo Psicoterapeuta, SC SerD Territoriale – UOC Psicologia, ASST Santi Paolo e Carlo

Paola Rossi

Dirigente Psicologo Psicoterapeuta, SC SerD Territoriale ASST Santi Paolo e Carlo

Note

  1. BARBINI D., PAPALUCA S., COPPIN P., SCARAMUZZINO M.F., MICHELI D., FERRANDO E., DESIATO R.M.S. (2021), Il sipario dietro l’azzardo di Spirti(i): il familiare divenuto estraneo, in «Quaderni di Psicoanalisi e Psicodramma analitico», N. 1/2 2021, ANNO 13 ISSN 2281-2091.

  2. COCCHI A., MENEGHELLI A. (2004), L’intervento precoce tra pratica e ricerca, Centro Scientifico Editore, Torino, p. 3.

  3. BARBINI D., PAPALUCA S., COPPIN P., SCARAMUZZINO M.F., MICHELI D., FERRANDO E., DESIATO R.M.S. (2021), op. cit.

  4. Dall’inglese: curare, far guarire da una malattia

  5. Dall’inglese: prendersi cura, preoccuparsi, interessarsi

  6. LATTERNINI E., VEDOVELLI I. (2010), La consultazione psicologica breve rivolta a genitori di adolescenti utilizzatori di sostanze stupefacenti, in «Mission», n. 32, anno 2010, ISSN 2037-4798 Federserd.

  7. GROSSO L. (2015), Consumo minorile di sostanze psicoattive e counselling familiare, in (a cura di) V. Olivieri Quello che è opportuno conoscere sulle dipendenze patologiche: Droga, Farmaci, Internet, Verona.

  8. Ibidem.

  9. ROSCI E. (2000), (a cura di), 16 anni più o meno, Franco Angeli, Milano.

  10. FISCHER J. (2017), Guarire la frammentazione del Sé, Raffaello Cortina, Milano.

  11. SCHIUMA V., GRECO C. (2021), L’efficacia della co-conduzione all’interno di un setting congiunto, Alba Lucana-Associazione di promozione sociale, http://www.albalucana.it

  12. GUARINI A. (2021), Riprendendo il filo del rocchetto, Poiesis editrice, Bari

  13. SOLER C. (1986), Standard non standard, in Lacan J. at al., Il mito individuale del nevrotico, a cura di Di Ciaccia A., Astrolabio, Roma, p. 170

  14. MAC KENZIE K. R. (2002), Psicoterapia breve di gruppo, Erikson.

  15. BION W. (1971), Esperienze nei gruppi, Armando Editore, Roma, 1997.

  16. RAZZINI E. (2004), Lo psicodramma psicoanalitico, Raffaello Cortina, Milano.

  17. MAC KENZIE K. R. (2002), Psicoterapia breve di gruppo, Erikson.

  18. CORREALE A. (2007), Il campo istituzionale, Borla, Roma

  19. RAZZINI E. (2004), Lo psicodramma psicoanalitico, Raffaello Cortina, Milano.

  20. MIGLIETTA D. (2006), Dal teatro allo psicodramma analitico, Franco Angeli, Milano

  21. BARBINI D., PAPALUCA S., COPPIN P., SCARAMUZZINO M.F., MICHELI D., FERRANDO E., DESIATO R.M.S. (2021), op. cit.

  22. GUNDERSON J.G. (2001), La personalità borderline: una guida clinica, Raffaello Cortina, Milano 2003

  23. GABBARD G.O. (1990), Psichiatria Psicodinamica, Raffaello Cortina, Milano 1992

  24. KEMBERG O. (1975), Sindromi marginali e narcisismo patologico, Boringhieri, Torino 1984

  25. CLARKIN J.F., YEOMANS F.E. e KEMBERG O.F.(1999), Psicoterapia della personalità borderline, Raffaello Cortina, Milano, 2000

  26. GUNDERSON J.G. (2001), op. cit, pp. 84-85.

  27. CORREALE A. (2007), Il campo istituzionale, Borla, Roma

  28. Ibidem.

  29. OGDEN T.H. (2009), Riscoprire la psicoanalisi, CIS, Milano, 2010, p. 156

  30. Ibidem

  31. J. LACAN, Il seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione, Lezione del 3 giugno 1959, Einaudi, Torino, 2016, ripreso da M. Safouan in L’amore come pulsione di morte, http://website.lacan-con-freud.it/ar/safouan_for_da_sp.pdf).

  32. GUARINI A. (2021), op.cit., Poiesis editrice, Bari

  33. WINNICOTT D.W. (1971), L’uso di un oggetto, tradotto da The use of an object, in «International Journal of Psycho-Analysis» (1969), 50:,711-716, traduzione di A. Novelletto.
    http://www.pshycomedia.it/aep/2001/numero-1/winnicott.htm

  34. Ibidem.

Bibliografia

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http://www.pshycomedia.it/aep/2001/numero-1/winnicott.htm

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