Delle dodici categorie con cui Immanuel Kant sistematizzò il mondo idealistico alla fine del ‘700, tempo e spazio erano le due fondamentali.
Per quanto riguarda lo spazio, di certo lui e anche Isaac Newton, che con lui condivideva l’idea e la teoria, lo consideravano solo un “contenitore vuoto” in cui accadevano le cose del mondo. Si sarebbero molto stupiti se avessero saputo che, secondo la fisica contemporanea, questo “contenitore vuoto” e inerte si può in realtà piegare e modificare in presenza di grandi masse e, nel caso dei “buchi neri”, addirittura lo spazio si accartoccia.
Ma se Kant e Newton, seppure a fatica, sarebbero riusciti ad accettare uno spazio dotato di vita propria, non avrebbero nemmeno lontanamente potuto prendere in considerazione la possibilità che anche il tempo potesse essere qualcosa di diverso dalla rigorosa banalità di un ticchettio svizzero e perenne.
E Immanuel Kant meno che meno, visto che era famoso per la regolarità con cui ogni giorno, alla medesima ora, eseguiva le ricorrenti incombenze della vita1. E, soprattutto la sua passeggiata pomeridiana per Königsberg.
Eppure anche la scorza adamantina del filosofo idealista tedesco si deve piegare alle riflessioni novecentesche di altri illustri tedeschi: Albert Einstein e la sua “relatività”, Werner Heisemberg, Max Planck e Niels Bohr (danese) ed i loro “quanti”.
Combinando i loro studi (ed i risultati sperimentali) ne risulta un mondo in cui il tempo fondamentalmente non esiste, ed è solo la schiuma di fenomeni molto più complessi e caotici, che si svolgono lì dove massa, energia e materia tendono a confondersi l’una con l’altra.
Il mondo non è come lo percepiamo.
Il più duro cemento armato, contro cui ci potremmo tragicamente scontrare, è più vuoto e sparso di un cielo notturno, in una notte neanche troppo stellata.
La luce non è così netta e luminosa come ci appare in una coppia di fari che ci abbaglia nella notte: prima dell’infrarosso c’è tanta luce che non vediamo, e dopo l’ultravioletto ce ne è ancora di più. Ma due potenti fari a Raggi X nella notte non li vedremo mai illuminarci.
Il calore di un fuoco, o quello di un incendio, il caldo di una giornata torrida, non sono contenitori pieni di “calorico”. Il vento gelido della Siberia, il tremendo Burian, non è un composto di aghi di ghiaccio che si conficcano nelle carni, anche se la sensazione è proprio quella. Andandone a vedere meglio la realtà, il modello più simile è un tranquillo biliardo in cui le palle del gioco del 125 si agitano come appena sparigliate (ed è caldo) o come dopo parecchie mani, quando sono quasi ferme (ed allora percepiamo il freddo). Il caldo e il freddo sono allora la schiuma di queste palle da biliardo che si agitano o meno. Sono l’agitarsi delle molecole e degli atomi, le particelle microscopiche che costituiscono tutta la materia.
Il tempo, a quanto pare, appartiene alla stessa famiglia. È la “schiuma” delle cose che avvengono: alcune cose avvengono senza posa, altre possono avvenire, ma sono improbabili…
Non chiedete mai ad un fisico di parlarvi del tempo! Si innervosirà, e per mascherare la sua ignoranza vi annoierà con grafici e concetti astrusi. In realtà, al momento, sa poche cose. Sa che il tempo è una dimensione dello spazio: lunghezza, larghezza, altezza e tempo. E che le quattro si possono girare e scambiare come un “cubo di Rubik”.
E sa che lo spazio vuoto non esiste: non c’è un equivalente in natura del Catasto, non c’è nessuna “particella edificabile”. Solo quando c’è una particella di materia o di energia (una casa o un camper, al Catasto) si crea una spazio intorno a lei. Ed insieme a lunghezza, larghezza e profondità si crea anche un relativo tempo.
E prima? “Prima” è un avverbio di tempo, e il tempo non c’era.
Per di più ci sono le rotazioni del “cubo di Rubik”, per cui il tempo diventa lunghezza. E viceversa.
Insomma, o aspettate un centinaio di anni almeno, perché la questione si chiarisca, o è meglio che il tempo non ve lo facciate spiegare da un fisico.
Da chi, allora?
Da un mistico? «Se non mi chiedi cosa sia il tempo, lo so. Se me lo chiedi, allora non lo so più»2. Agostino da Ippona ha lasciato una bella frase, ma la sostanza è sempre carente.
Allora? Meglio farselo dire da qualcuno che, per scelta, racconta storie.
Da un romanziere e/o da un regista.
Si può partire dalla “invenzione letteraria” de La macchina del tempo (1895) da parte dello scrittore inglese Herbert George Wells, da cui è nato un profluvio di avventure fantascientifiche d’ogni tipo.
Wells, che era un romanziere ma anche un divulgatore scientifico, si trovò inconsapevolmente ad anticipare le teorie di Einstein di almeno un ventennio con un saggio sulla quarta dimensione (The Universe Rigid, 1885) in cui si cominciava ad ammettere una quarta dimensione temporale: «Se consideri che il tempo sia lo spazio, allora– Voglio dire se lo tratti come una quarta dimensione come, beh allora vedi …».
Evidentemente, sul finire dell’800, c’era “nell’aria” un desiderio di investigare le “dimensioni” dell’uomo e dell’universo che, da un lato, ha portato alla Relatività di Einstein (1905, poi 1925) e dall’altro a tutti i racconti e i film che utilizzavano per la loro trama i “paradossi temporali”.
Un esempio di paradosso temporale può essere trovato nel film Ritorno al futuro di Robert Zemeckis e nel suo sequel in cui, secondo il dottor Emmett Brown, il paradosso temporale prende forma, con tutte le sue incoerenze e assurdità, quando qualcuno incontra se stesso nel futuro o nel passato.
In The Time Machine (2002, di Simon Wells -pronipote dello scrittore-), uno dei tanti film “liberamente” tratti dal romanzo La macchina del tempo. Il protagonista del film, tramite una macchina del tempo costruita apposta per salvare sua moglie dalla morte, scopre che paradossalmente non potrà mai salvarla perché, se lei non fosse morta, lui non avrebbe mai avuto la volontà di creare la macchina del tempo. Un paradosso temporale è presente anche nella trama di Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (2004, di Alfonso Cuarón), in cui Harry Potter e Hermione Granger salvano prima Sirius Black e l’ippogrifo e poi Potter salva se stesso tornando indietro nel tempo. Su un paradosso temporale è basato anche il film Interstellar (id., 2014 di Christopher Nolan), in cui il protagonista, entrando in un buco nero, riesce a viaggiare in un vero e proprio multiverso, cercando di cambiare alcuni eventi del passato, per il bene dell’umanità. Un esempio ancora più complesso di paradosso temporale è nel film Terminator (1984, di James Cameron). Le macchine, che nel film sono protagoniste attive, progettano di mandare un Terminator indietro nel tempo per uccidere colei che diventerà la madre del leader della resistenza umana nella guerra contro le macchine, John Connor. Connor, intuito il piano, si difende inviando il suo miglior amico a proteggere la sua giovane madre: il suo amico finisce per innamorarsi della donna, diventando così il padre di John Connor. Il paradosso sta nel fatto che se le macchine non avessero tentato di uccidere John, egli non sarebbe mai nato.
Tutte queste opere, con i loro complessi (e spesso divertenti) paradossi temporali, non si allontanano però da una visione “ingenua” del tempo e dello spazio, in cui è comunque sottinteso che sia l’uno che l’altro esistono già come “contenitori vuoti” da riempire di oggetti e avvenimenti.
Il tempo, diceva Jorge Luis Borges, «È la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è il fiume che mi trasporta, ma io stesso sono fiume». I nostri movimenti, le nostre azioni, sono differiti e diluiti nel tempo, come lo sono anche le nostre percezioni, i nostri pensieri, il contenuto della nostra coscienza. Ma il tempo nel quale viviamo, o al quale viviamo accanto, è continuo al pari del fiume di Borges? O non è forse esso più simile a una catena o a un convoglio, a una successione di momenti distinti, quasi fossero perline su uno stesso filo?
La capacità di esprimere la temporalità costituisce uno dei tratti principali della comunicazione umana. Tutte le lingue possiedono mezzi lessicali o grammaticali per collocare un evento nel tempo, indicarne la durata e metterlo in relazione con altri eventi.
Nella codifica della temporalità è fondamentale, più che la situazione reale, la rappresentazione che il parlante ne elabora, il cosiddetto “tempo narrativo”. Ogni narrazione si svolge in un determinato tempo e spazio. Il tempo della storia corrisponde all’epoca in cui si sono svolti i fatti narrati, la durata della storia indica il tempo che i fatti hanno impiegato per svolgersi, il tempo della narrazione indica il momento in cui i fatti vengono narrati.
In un romanzo (e in un film) vi è un gioco molto complesso tra tempo della storia raccontata e tempo del discorso che narra: il romanzo novecentesco ha sperimentato forme diverse di interazione tra questi due piani, e lo stesso hanno fatto molti film, specie negli anni ‘60.
Tanti ricordano (con interesse, ma anche con fastidio) il film L’anno scorso a Marienbad (1961 di Alain Resnais). La sceneggiatura è opera dello scrittore di avanguardia Alain Robbe-Grillet, teorico del “Nouveau roman”: in un sontuoso albergo di lusso la serata teatrale si trasforma in un complicato viaggio nella memoria per una giovane spettatrice. Uno sconosciuto (Giorgio Albertazzi) insiste a dire di averla conosciuta l’anno precedente a Marienbad e di essere stato il suo amante, ma la donna non ne è affatto sicura. Il film non rivela chi dei due abbia ragione e si perde nei numerosi flashback dei protagonisti che intrecciano passato e presente, che pronunciano pochissime battute, mantenendosi quasi sempre statici sulla scena. «Corridoi senza fine che succedono ad altri corridoi, lugubri, deserti. Sale silenziose in cui i passi di colui che le attraversa sono assorbiti da tappeti così pesanti, così spessi» è il leit-motiv del racconto fuori campo del protagonista, e che ne caratterizza tutto il clima onirico.
L’ispirazione, per Robbe-Grillet, derivava da un romanzo argentino, L’invenzione di Morel dello scrittore Adolfo Bioy Casares, in cui il tema fantascientifico era dato dall’invenzione di una specie di “videoregistratore assoluto” che riprendeva un evento e lo riproponeva in continuo nel mondo reale. Il romanzo, di grande successo è del 1940, e nel 1974 il regista Emidio Greco lo ha ridotto per il cinema.
Sempre in quegli anni, molti film e molti romanzi hanno giocato con il “tempo perduto” e quello “ritrovato”, e con le amnesie e le incomunicabilità fra i personaggi. Tipica la tematica del regista Michelangelo Antonioni (L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso, Blow-Up; 1960-66), ma la sensazione del legame fra il tempo e gli avvenimenti umani è primaria anche nei film di Ingmar Bergman, in cui la morte gioca a scacchi il tempo rimasto da vivere al Cavaliere (Il settimo sigillo, Det sjunde inseglet, 1956).
Tutti questi temi sono interessanti (e forse anche un po’ datati, per il nostro modo odierno di concepire -e usare- il tempo in sciocchezze social), ma non hanno niente a che vedere con la questione di cosa sia il tempo, e di come vada percepito.
Il più cupo e onirico Marienbad non si salva dal concetto narrativo de “l’anno scorso”, la Morte vince o perde con il Cavaliere ma quello che si giocano è un “intervallo di tempo”, in tutti i paradossi e le varie “macchine del tempo” un quadrante mostra lo scorrere di “anno dopo anno”: è quella che definisco «visione catastale», in cui il tempo è dato, c’è un prima e un dopo comunque.
«La cosa più importante che ho imparato a Tralfamadore è che quando una persona muore, muore solo in apparenza. Nel passato essa è ancora viva, per cui è molto sciocco che la gente pianga ai suoi funerali. Passato, presente e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno».
Solo lo scrittore Kurt Vonnegut (USA, 1922-2007) è riuscito a raccontare il tempo in questo modo, ed il regista George Roy Hill (USA, 1921-2002) a darcene la versione cinematografica:
«I tralfamadoriani possono guardare ai diversi momenti come noi guardiamo un tratto delle Montagne Rocciose. Possono vedere come siano permanenti i vari momenti, e guardare ogni momento che loro interessi. È solo una nostra illusione di terrestri quella di credere che a un momento ne segue un altro, come nodi su una corda, e che una volta che un istante è trascorso è trascorso per sempre».
Così, nel romanzo Mattatoio 5, Vonnegut descrive il suo protagonista:
«Billy Pilgrim ha viaggiato nel tempo. Billy è andato a dormire che era un anziano vedovo e si è svegliato il giorno delle sue nozze. È passato per una porta nel 1955 ed è uscito da un’altra nel 1941. È tornato indietro per quella porta per trovarsi nel 1963. Ha visto la propria nascita e la propria morte molte volte, dice, e rivive di tanto in tanto tutti i fatti accaduti nel frattempo.»
Invece della “visione catastale”, in cui il tempo esiste comunque (come una “particella” in una mappa catastale, che una volta costruita non è più disponibile) e si tratta solo di riempirlo di avvenimenti, Vonnegut nel suo narrare tratta il tempo come un luogo, un paesaggio che può essere visitato e rivisto più volte ed in cui nulla è definitivo.
La fisica è una scienza, ma il suo fine è quello di descrivere spiegare il mondo per come è.
Spesso i fisici si perdono in teorie incomprensibili ai più, ma nella loro testa hanno una visione del mondo (spesso strana e assurda) che non vogliono e non possono esprimere compiutamente in forma semplice. Spesso delegano -più o meno inconsapevolmente- questa funzione ai narratori, che hanno più libertà di loro di esprimere idee dirompenti senza alcuna remora.
È il caso della “natura del tempo” e di tutte le sue implicazioni. Non ci si limita più ai paradossi di chi viaggia nel tempo e riesce a diventare il padre di se stesso, ma si adotta una visione molto più semplice e incredibile:
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Passato, presente e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno
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I terrestri hanno una capacità visiva solo tridimensionale, ma il mondo ha quattro dimensioni, e la quarta è il tempo
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Possiamo guardare ai diversi momenti della vita come guardiamo un paesaggio
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Ciascuno potrebbe vedere e rivivere molte volte la propria nascita e la propria morte