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PIERO NUSSIO La vertigine che visse due volte

Cinema e psicanalisi sono nati contemporaneamente. In senso letterale, perché mentre Sigmund Freud eseguiva la prima interpretazione di un sogno secondo i suoi metodi, i fratelli Lumière proiettavano il primo film in un caffè di Parigi.

Ma soprattutto perché durante tutta la loro vita (che prosegue senza interruzioni, nonostante spesso qualcuno li voglia dare per morti) si sono nutriti l’uno dell’altro senza mai arrivare a confondersi. Lascio ad altri investigare quanto la psicanalisi abbia utilizzato la narrazione e il doppio rappresentato dal cinema, e mi limito a sottolineare quanto il cinema debba alle tecniche e tematiche psicanalitiche.

Luis Buñuel, il grande genio del cinema e del surrealismo, realizzò con il pittore Salvador Dalì una delle prime opere che -oltre alle tematiche del surrealismo- si ispirava direttamente all’opera di Freud sull’interpretazione dei sogni. Nel 1929 il film Un chien andalou esplose, specie per la celeberrima sequenza del taglio dell’occhio, tanto nel mondo dell’arte quanto in quello del nascente cinema e portò alla luce le profondità della mente umana e i nuovi modi della sua investigazione.

Per i successivi 25-30 anni l’umanità, scandalizzata da quel falso taglio dell’occhio, preferì invece scannarsi e gasarsi senza tregua e “scientificamente”. Dedicò poco spazio all’inconscio e molto più alla violenza1, e mise ordinatamente in pratica uno dei maggiori genocidi della storia dell’uomo, portando distruzione e guerra in ogni angolo del pianeta.

Fu solo nel dopoguerra, superate (?) le ideologie delle razze e dei “super-uomini”, che il genere umano tornò ad interessarsi di tutti noi, del nostro cervello, dei castelli e dei vortici che costruivamo nella nostra mente, in risposta ai problemi che ci capitava di vivere ed ai desideri che covavamo. E dei traumi che avevamo appena vissuto nella tremenda guerra appena trascorsa.

Fu così che, nel dopoguerra, anche per portare un po’ di linimento e di umana comprensione a tutti quei soldati e alle popolazioni che avevano subito i traumi della ferocia, il cinema si appropriò della divulgazione delle tematiche psicanalitiche a livello di massa.

Robert Siodmak è emblematico a questo riguardo: tedesco, nato a Dresda, regista teatrale, dovette fuggire dalla Germania nazista perché di famiglia ebraica. Fuggì a Parigi e di lì ad Hollywood. Si specializzò nella realizzazione di film “noir”, in cui tutta la disperazione europea si mescolava alla violenza così diffusa nella società statunitense. I suoi B-movies realizzati per la Universal e la RKO gli dettero la fama e il riconoscimento. Seppe mescolare -in film di facile accesso- i temi del “noir”, quelli dell’espressionismo tedesco e -soprattutto- quelli dell’analisi psicologica. La scala a chiocciola e Lo specchio scuro (entrambi del 1946) furono i suoi maggiori successi e godono di fama universale proprio perché si basano -pur nella tematica criminale- sulla divulgazione di specifici psicanalitici e sulle conseguenze di traumi psichici. La protagonista della Scala a chiocciola soffre di un mutismo di origine psichica e il serial killer che deve affrontare compie la sua orrenda missione perché, nella sua mente malata, vuole liberare il mondo dalle donne imperfette. Nello Specchio scuro è Olivia de Havilland ad interpretare la doppia parte di due gemelle in cui alla innocenza dell’una si contrappone lo “specchio scuro” dell’altra che ha oscuri e lontani rancori nei confronti della gemella. Ed anche lei è un killer seriale con motivazione psichiche e traumatiche, che mette in atto un piano diabolico e freddamente razionale per vendicarsi della mite sorella.

Olivia de Havilland, resa famosa dal ruolo della mite Melania che in Via col vento era traumatizzata da Rossella O’Hara, si era ormai specializzata nei ruoli della malata psichica. Interpreta nel 1948 il suo ruolo abituale in una storia di malattia mentale e di relativa cura psicologica. Il film è La fossa dei serpenti, diretto da Anatole Litvak e ispirato all’opera di uno psichiatra che applicava il metodo psicanalitico ai suoi pazienti invece dei rudi metodi psichiatrici. Il successo dell’opera ha causato sostanziali cambiamenti nelle istituzioni di cura dei disturbi mentali degli Stati Uniti. Così come, in anni molto più recenti, hanno fatto altri film fondamentali sulle modalità di cura dei malati psichici (tra i maggiori: Qualcuno vollò sul nido del cuculo – Milos Forman 1975-, Family life – Ken Loach 1971-, Diario di una schizofrenica – Nelo Risi 1970-, Matti da slegare – Marco Bellocchio et al. 1975).

Un’altra pietra miliare nel rapporto fra in cinema e la psicanalisi nella prima metà del secolo è l’opera di Fritz Lang, regista espressionista tedesco, che il nazismo regalò poi ad Hollywood ed ai film “noir” psicologici del dopoguerra. Già le opere girate in Germania avevano colto il versante psicotico dell’agire umano (M – Il mostro di Düsseldorf – 1931-, Il dottor Mabuse – 1922- e Il testamento del dottor Mabuse – 1933), ma è nei film noir girati negli Stati Uniti che l’ambientazione psicotica e i temi psicologici raggiungono il loro culmine. Il film più ricordato del periodo (nonostante il parziale insuccesso) è Dietro la porta chiusa del 1947. Di nuovo il tema è quello del trauma infantile: il bambino chiuso in una stanza buia, che sviluppa uno forte shock psicologico ed un comportamento deviante. Ma, come è abituale nei noir di quegli anni, sulla tematica psicologica si innesta un comportamento criminale. Così, anche in questo film agisce un serial killer e anche in questo caso le motivazioni profonde sono di origine psicologica.

Nei riguardi degli sviluppi narrativi si andava così delineando un nuovo genere cinematografico, che aveva le sue radici nell’azione violenta (di origine USA), nel noir francese, nell’espressionismo tedesco e nella forza esplicativa e drammatica della psicanalisi viennese. Il nuovo genere è il “thriller” ed il suo profeta è Alfred Hitchcock.

Anche lui è un regista europeo sbarcato ad Hollywood, ma nel suo caso non fu il nazismo a portarlo in America, giacché era inglese. Di sicuro le seconda guerra mondiale ha un ruolo anche nella sua vita che, dopo 23 film inglesi, si trasferì nel 1940 a Los Angeles attirato da Hollywood, ma anche in fuga dal mondo europeo in fiamme.

Alfred Hitchcock viene dal teatro inglese e poi del nascente cinema muto. La sua famiglia gli dà un’educazione cattolica, aiutata dal collegio dei gesuiti, e non gli fa vivere traumi particolari, Ciò non toglie che il giovane Alfred avesse più complessi e problemi in testa di qualunque altro ragazzo di quel tempo. Solo che lui li sublimò nel cinema e se ne salvò dalle conseguenze, aiutando così ad affrontare la complessità della psiche anche i milioni di fans che hanno seguito il suo cinema in tutto il mondo.

Merito suo, e merito di Hollywood, che vissero insieme per tutti gli anni ‘50 e ‘60 il loro periodo d’oro. I suoi film di quel periodo hanno avuto grande successo e hanno divulgato in maniera massiccia i temi principali della psicanalisi. Film come Rebecca la prima moglie (1940), Io ti salverò (1945), Nodo alla gola (1948), La finestra sul cortile (1954), Marnie (1964) sono considerati fondamentali nel rapporto fra il cinema e i temi psicanalitici. Fino a giungere a Psyco (1960) che denuncia fin dal titolo emblematico la centralità dei temi psicologici e psicotici.

Ma il film su cui meglio vale centrare la nostra attenzione è Vertigo (La donna che visse due volte) del 1958. Perché, a differenza degli altri citati, non è un film dedito alla sola divulgazione delle tematiche psicologiche, ma possiede quel mix di componenti da cui si origina il “thriller” e che meglio sa esprimere le capacità geniali di Hitchcock.

Non a caso, perché Vertigo è stato un successo fin dal suo apparire, e poi lo è stato nel 1996 quando tornò in prima visione (dopo quasi quarant’anni di problemi legati all’eredità del regista) ed incassò nel primo weekend in USA una cifra pari al costo di realizzazione. Soprattutto, ha condiviso con Hitchcock il giudizio della critica mondiale: considerato all’inizio poco più che un B-movie di successo popolare, il film e il regista sono stati sempre più rivalutati dai critici. Merito della famosa intervista di Truffaut nel caso del regista, merito di tutti gli spettatori nel caso del film. È nella lista dei cento migliori film dell’American Film Institute, il film è preservato per il suo valore dalla Biblioteca del Congresso, ha scalato la classifica delle opere migliori dal 61° al 9° posto e, secondo la rilevazione 2012 di Sight & Sound, sarebbe il miglior film assoluto, scalzando Quarto potere di Orson Welles.

Personalmente non condivido quest’ultimo balzo, ma di sicuro Vertigo è uno dei più grandi film americani ed il capolavoro di Hitchcock. E lo è per una serie di motivi, che analizzeremo, nonostante una trama inutilmente complicata e barocca.

Pierre Louis Boileau e Thomas Narcejac (pseudonimo di Pierre Ayraud) erano una “premiata ditta” francese, autori di moltissimi romanzi polizieschi di vario tipo che monopolizzarono quasi le letture popolari francesi della prima metà del novecento. Scrissero anche alcuni episodi della fortunata serie di Arsenio Lupin, ma soprattutto i loro complicati romanzi d’appendice ispirarono molti film thriller. Il maggior successo fu I diabolici del 1955 (Les diaboliques) di Henri-Georges Clouzot (più volte rifatto in epoche successive, l’ultimo è stato Diabolique del 1996 con Sharon Stone e Isabelle Adjani). Forse fu la trama “perversa e diabolica” di questo successo mondiale che spinse Hitchcock ad adattare per lo schermo un altro romanzo della “premiata ditta” dalla trama decisamente complicata.

Senza timore di svelare2 un segreto al lettore, scioglierò i grovigli di cui si nutre la storia e la racconterò in forma piana e diretta: un uomo d’affari uccide la moglie malata gettandola da un campanile, per diventare unico proprietario dei suoi cantieri navali. Per sviare le successive indagini assolda un’altra donna, perché ne impersoni il ruolo, ed un vecchio amico detective perché sia testimone parziale della recita, approfittando del fatto che soffre di vertigini. Il poliziotto s’innamora dell’attrice, sia quando recita la parte della moglie sia quando, smessi i panni e morto l’impresario, è tornata alla vita “civile”. Quando però scopre gli oscuri precedenti e l’inganno perpetrato ai suoi danni, non potendo strangolare l’ex amico, si vendica sulla donna, amata due volte.

Coi termini di oggi, potremmo dire che si tratta di un “doppio femminicidio”. Il primo per ragioni di interesse, il secondo da parte di uno psicopatico per motivi pseudo-sentimentali.

Boileau e Narcejac avevano invece occultato nella trama “popolare” lo psicodramma dei francesi collaborazionisti durante la seconda guerra mondiale (l’ex amico uxoricida è un industriale che produce armi per i tedeschi occupanti) e la riscossa della “Francia libera” del generale De Gaulle (è proprio durante lo sbarco di De Gaulle a Marsiglia che il protagonista scopre la “seconda vita” della sua donna amata).

Alfred Hitchcock depura la storia da qualunque riferimento alla politica francese, e ne esalta le trame ingannatrici (perfette per creare un clima di suspence utile ai suoi fini registici). Soprattutto rinforza gli spunti psicologici -presenti ma secondari nell’originale- per mettere tutti gli avvenimenti in una chiave di risposta folle ad un trauma.

Il suo film poteva avere molti titoli: Questioni fra morti (come recita il titolo del romanzo), La donna che visse due volte come recita il titolo che l’ha reso famoso in Italia. Hitchcock sceglie invece Vertigo (vertigine) perché vuole dar risalto alla motivazione psichica di tutta l’improbabile trama. Scottie Ferguson (interpretato da James Stewart) è un importante poliziotto americano che insegue acrobatici banditi in cima ai palazzi di San Francisco. Scivolato da un tetto, si aggrappa nel vuoto ad una grondaia e vede cadere un agente che si sfracella al suolo per tentare di salvarlo. Questo avvenimento traumatico lo segna per sempre e lo condanna a soffrire di una forma acuta di acrofobia (paura delle altezze e dei luoghi elevati).

Nel linguaggio quotidiano (ed in quello che capiva Hitchcock e il suo pubblico) si confonde l’acrofobia con le vertigini, che sono invece un disturbo dell’equilibrio del soggetto (e che si può dover provare anche con i piedi saldamente piantati per terra). Comunque, l’incidente al suo collega poliziotto, morto per una caduta da grandi altezze, e la situazione di estremo pericolo in cui si era venuto a trovare (appeso nel vuoto ad un’instabile grondaia) segnano per sempre la vita di Scottie Ferguson. Invece di invocare, come sarebbe stato giusto, le “cause di servizio” per un’inabilità temporanea o permanente al lavoro, il detective Ferguson si dimette quasi con disonore dalla polizia, e si sente un fallito nel resto della vita.

Accetta così come una possibilità di riscatto l’offerta del suo potente amico dei tempi del college, e non indaga più di tanto sul perché lo assoldi per gestire una situazione molto peculiare. La bellissima moglie del suo amico è la bionda Madaleine (Kim Novak), e sembra così colpita dal fascino della nonna materna, che si suicidò alla stessa sua età per una delusione amorosa, da dover essere difesa dal detective per non fare la stessa fine. Entra così, come si direbbe in musica, un secondo tema di natura psicologica: il trauma subito un secolo prima dalla bellissima antenata, abbandonata e suicida. Il secondo tema psicotico si mischia con un terzo, l’incarico al detective “dell’anima” Scottie di proteggere Madaleine da se stessa e dalla sua “dissociazione psichica”. Forse per la somiglianza ad un ritratto della nonna suicida, lei se ne sente la reincarnazione, sembra voler ripercorrere le orme dell’antenata e suicidarsi a sua volta.

In realtà non c’è motivo alcuno perché la bella Madaleine debba avere lo stesso destino della suicida señora Carlotta Valdés, ma Scottie si sente perdente e precario per i suoi trascorsi, e si beve (insieme allo spettatore) tutto il clima di deja-vu che il regista sa sapientemente tessere. I fili dell’antica tragedia si mescolano sapientemente nel racconto con sintomi, presagi, incubi, sogni e innamoramenti.

Si, perché mentre la bellissima Madaleine insegue i ritratti dell’antenata e medita forse il suicidio, ma ha comunque tempo di far innamorare di sé il bel detective e di intrecciare con lui una peccaminosa storia d’amore. È un po’ il medico (dal punto di vista poliziesco) che s’innamora della paziente. E la paziente ha il doppio volto di Madaleine (nome non scelto a caso) e dell’antica Carlotta Valdés.

Kim Novak, che per Hitchcock rappresentava una seconda scelta, rispetto alle sue “algide” bellezze asessuate, era invece molto adatta alla parte perversa che le veniva disegnata addosso: nella realtà era, oltre che una brava attrice ed una donna bellissima, anche l’amante più o meno segreta di Ramfis Trujillo, figlio del sanguinario dittatore della Repubblica Domenicana, e frequentava Sinatra ed altri soggetti vicini alle mafie americane.

Hitchcock non ha mai ammesso di averlo fatto volontariamente, ma l’aria perversa che talvolta esprime Kim Novak, specie in rapporto all’antica señora Carlotta Valdés, è uno dei capolavori del film, a maggior ragione quando si paragona con quell’aria da coniglio3 indifeso che rappresentava James Stewart per tutto il pubblico cinematografico.

Ma un capolavoro psicologico è capace di ruotare su se stesso, come i temi di una sinfonia classica: nella seconda parte del film (visse due volte…) l’indifeso Scottie sembra diventare il carnefice della dimessa Judy Barton, commessa in un negozio, ed incontrata per caso.

Dopo il “suicidio” della fascinosa Madaleine, Scottie ha visto aggravarsi le conseguenze del trauma che ha segnato la sua vita: la bionda si è gettata dal campanile di una antica missione spagnola e lui ha avuto un attacco della sua acrofobia seguito da forti vertigini, che non gli hanno permesso di svolgere il suo compito e di impedirne il suicidio. Stavolta è un giudice a spargere sale sulle sue ferite: il suo atto di codardia non è omicidio, ma gli si avvicina molto, dato il compito che avrebbe dovuto svolgere.

Il suo trauma psichico peggiora e si tramuta in depressione, che lo porta in clinica un anno per una cura psichiatrica del suo stato. Appena dimesso e ancora convalescente, individua nella rossa commessa di un negozio la terza reincarnazione della sua amata dark-lady. È il regista Hitchcock ad architettare la trama, fra sogni premonitori ed incubi ammonitori, e assegna sempre a Kim Novak il ruolo, stavolta, di vittima. Se preferite, è la stessa donna, che prima recitava una parte da gran dama, e adesso vive una vita reale piena di compromessi. L’affarista dei cantieri navali si è tolto di mezzo nel frattempo, e dunque lo psicotico Scottie può pensare di “coronare il suo sogno d’amore” con l’antica Madaleine.

Per ottenere il suo scopo deve convincere Judy Barton a ritornare ad essere bionda e perversa come era Madaleine e deve sottometterla psicologicamente alla doppiezza delle sue interpretazioni. Bravura di Kim Novak e di Alfred Hitchcock che segnano un percorso a ritroso della trama e fanno ri-diventare la dimessa e innamorata (?) Judy di nuovo il fantasma della fascinosa Madaleine. Bravura di James Stewart e di Alfred Hitchcock che trasformano il tenero perdente Scottie in un “coniglio mannaro” che guida implacabilmente Judy alla ricostruzione delle caratteristiche fisiche di Madaleine.

Il folle Scottie, per completare il suo percorso, deve tornare al campanile della missione spagnola, dove il secondo e più grave trauma della sua vita aveva avuto luogo. Supera i disturbi fisici, la vertigine (non l’acrofobia), ma qui ha il terzo e definitivo trauma: l’agnizione di tutto l’inganno perpetrato ai suoi danni dall’amico e dalla donna. Nessuna reincarnazione o tendenza suicida, ma solo un’abile sfruttamento delle sue manchevolezze fisiche ai fini di coprire un uxoricidio.

Il romanzo originario finiva con la “Francia libera” del detective che strozzava la “collaborazionista” ingannatrice, ma Hitchcock ha dovuto cambiare il finale in modo significativo. Abbiamo parteggiato, per tutto lo svolgersi della storia, per le nobili qualità del detective Scottie e, seppure appannato dal suo trauma psichico, non possiamo vederlo tramutato in un assassino. Hitchcock ci ha già svelato che Judy e Madaleine sono la stessa persona e l’agnizione finale svela l’inganno che serviva da alibi al suo ex amico. Molto meglio che la donna perversa e simulatrice, ormai quasi redenta dall’amore di Scottie, termini la sua redenzione con un vero suicidio e, approfittando delle provvidenziali vertigini del protagonista, compia davvero quel suicidio dalla torre che in precedenza aveva solo simulato.

Per svolgere in maniera così appassionante il dipanarsi della sua trama, ad Hitchcock non serviva una storia coerente e plausibile. Bastava si prestasse a tutte le necessarie riscritture, che fornisse temi e suggestioni utili, che facesse mutare il clima della storia ogni volta che si rendesse necessario, che giustificasse tutti quei “colpi di scena” che sono la materia prima di un thriller.

E serviva che il “clima psicologico” di tutta la storia rendesse sensati tutti i marchingegni che il regista si preparava ad inserire.

La spirale, per iniziare. Il simbolo grafico del vortice, e della vertigine, realizzato dal designer Saul Bass, che caratterizzava tanto il famoso poster del film quanto i titoli di testa e di coda. È il marchio4 del film ed il segnale dell’interesse principale: le vertigini del titolo e la spirale del destino che si va a compiere. Si ritrova nell’acconciatura di Madeleine, nel tronco della sequoia, nella scala a chiocciola del campanile spagnolo.

Il contro-zoom (zoom in avanti e carrellata all’indietro) è la modalità tecnica inventata per l’occasione per rendere al pubblico il senso di vertigine provato da Scottie sul campanile. L’effetto ottenuto fu quello di un’altezza “vertiginosa” per le scale a chiocciola (spiral staircase, in inglese), con riprese che rendevano alla perfezione lo stile dell’espressionismo tedesco. John Fulton realizzò l’effetto speciale usando un modellino molto costoso e dettagliato del campanile della missione spagnola5 e riuscì a dare l’effetto del grave capogiro del protagonista.

Gli incubi di Scottie dopo il finto suicidio di Madeleine ed il suo crollo psichico. Le immagini del vissuto ritornano deformate ai suoi occhi spalancati: la camera buia, il fiore che esplode, la collana, la tomba vuota. La testa di Scottie è in primo piano, in mezzo a una tela di ragno, poi il gorgo della spirale, l’inesorabile caduta, il labirinto delle strade di San Francisco.

La vertigine del titolo, che non è solo il sintomo del male che colpisce Scottie, ma anche il vortice a spirale, la circolarità della vicenda narrata, la vertigine amorosa di chi si innamora di tre donne con lo stesso volto, il deja-vu delle situazioni e dei personaggi, i misteri dell’inconscio e della psiche, la volubilità femminile, la testardaggine maschile.

I colori ed il loro uso simbolico. Il verde è molto usato per gli incubi e la doppiezza, ma anche per l’eleganza dei suoi toni profondi (l’abito di Madaleine e la sua automobile Bentley, il maglione di Scottie, lo sfondo al neon di Judy). I capelli di Madaleine sono biondi, castani nella señora Carlotta, rossastri nella dimessa Judy. Poi la dominante blu nelle scene di tenerezza, ed il nero della dark lady, il bianco ingannatore del suo avvolgente soprabito. Lo sfondo cremisi del locale in cui il primo piano di Madaleine si staglia la prima volta. Le tecniche di ripresa, la bravura del fotografo Robert Burks e il formato doppio ne consentirono una qualità abbagliante.

«Alfred Hitchcock è uno dei più grandi inventori di forme di tutta la storia del cinema. Solo, forse, Murnau ed Ejzenstejn possono, su questo argomento, sostenere il paragone con lui. La forma qui non abbellisce il contenuto, lo crea.» (François Truffaut)

Le riprese di Vertigo durarono 16 giorni in esterno (Il Golden Gate di San Francisco e la Missione di San Juan Bautista), e due mesi negli studios Paramount. Hitchcock aveva una squadra di collaboratori inglesi di cui si fidava e non improvvisava mai, rispettando lo storyboard ed i tempi al millesimo. Dirigeva gli attori con pochi secchi comandi, come il capitano di una nave.

Il restauro della pellicola realizzato dalla Universal nel 1997 è durato invece due anni, ma ne ha ripristinato la perfezione tecnica originale con una versione in 70 mm ed il sonoro digitale DTS stereo a 6 canali. La versione italiana è ferma nel doppiaggio alla riedizione del 1984.

Il film di Alfred Hitchcock non a caso è stato giudicato un capolavoro da un pubblico di cinefili che lo esalta da allora: tutta la tecnica cinematografica è a sostegno di un racconto che -come nei sogni e negli incubi interpretati dalla psicanalisi- trova le sue basi nei desideri e nelle pulsioni della psiche umana, non nella verosimiglianza o nella apparente realtà degli eventi.

Millenni di pensiero umano hanno tenuto conto dei sogni, per giudicarli anticipazioni fornite da divinità benevole o dannazioni imposte dagli dei irati. Solo la psicanalisi ha capito che si trattava di rielaborazioni del reale effettuate dalla psiche umana per esprimere le proprie angosce. Le esperienze psichiche, traumatiche o meno, sono alla base di tutta l’emozionalità inconscia del soggetto.

Il cinema, specie negli anni successivi al secondo dopoguerra, ha trovato in tutto questo materiale il pane per alimentare la necessità di raccontare storie sempre più vere e profonde, e non più solo verosimili. Alcuni grandi maestri sono riusciti a trovare le perfette modalità per farlo.

François Truffaut ha scritto «Alfred Hitchcock si trova ad essere praticamente l’unico a filmare direttamente, cioè senza ricorrere al dialogo esplicativo dei sentimenti come il sospetto, la gelosia, il desiderio, l’invidia e questi ci porta al paradosso: Alfred Hitchcock, il cineasta più accessibile ad ogni pubblico per la semplicità e la chiarezza del suo lavoro, è nello stesso tempo quello che eccelle nel filmare i rapporti più sottili tra gli individui.»

Martin Scorsese ha dichiarato «Vertigo si distingue dagli altri film perché è estremamente personale: è questa la verità del film, ed è per questo che non teme la sfida del tempo. C’è una genuinità in questo film che va al di là della trama, e dietro la quale si cela un cuore pulsante. Offre un ritratto molto turbato dell’umanità, ma è un ritratto onesto e sincero, ricco di complessità psicologiche, che ha resistito al trascorrere del tempo».

 

Piero Nussio

Fisico, esperto di cinema

 

Note

  1. La psicanalisi fu bollata come “macchinazione ebrea”.
  2. Vertigo ha compiuto sessant’anni. Non è di certo uno spoiler svelarne per grandi linee la trama… Per di più, film e romanzo differiscono in parte nello svolgimento dei fatti.
  3. Harvey è un coniglio gigante invisibile di cui il mite personaggio che interpretava James Stewart era amico e confidente. L’attore lo interpretò a teatro (dal 1944) ed al cinema (nel 1950) e per tutti divenne l’alter-ego dei suoi personaggi.
  4. È il primo film che usa grafica ottenuta dal computer.
  5. D’altronde, anche il campanile “vero” era stato ricostruito dagli scenografi di Hitchcock…