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Delle dodici categorie con cui Immanuel Kant sistematizzò il mondo idealistico alla fine del ‘700, tempo e spazio erano le due fondamentali.
Per quanto riguarda lo spazio, di certo lui e anche Isaac Newton, che con lui condivideva l’idea e la teoria, lo consideravano solo un “contenitore vuoto” in cui accadevano le cose del mondo. Si sarebbero molto stupiti se avessero saputo che, secondo la fisica contemporanea, questo “contenitore vuoto” e inerte si può in realtà piegare e modificare in presenza di grandi masse e, nel caso dei “buchi neri”, addirittura lo spazio si accartoccia.
Ma se Kant e Newton, seppure a fatica, sarebbero riusciti ad accettare uno spazio dotato di vita propria, non avrebbero nemmeno lontanamente potuto prendere in considerazione la possibilità che anche il tempo potesse essere qualcosa di diverso dalla rigorosa banalità di un ticchettio svizzero e perenne.
E Immanuel Kant meno che meno, visto che era famoso per la regolarità con cui ogni giorno, alla medesima ora, eseguiva le ricorrenti incombenze della vita1. E, soprattutto la sua passeggiata pomeridiana per Königsberg.
Eppure anche la scorza adamantina del filosofo idealista tedesco si deve piegare alle riflessioni novecentesche di altri illustri tedeschi: Albert Einstein e la sua “relatività”, Werner Heisemberg, Max Planck e Niels Bohr (danese) ed i loro “quanti”.
Combinando i loro studi (ed i risultati sperimentali) ne risulta un mondo in cui il tempo fondamentalmente non esiste, ed è solo la schiuma di fenomeni molto più complessi e caotici, che si svolgono lì dove massa, energia e materia tendono a confondersi l’una con l’altra.
Il mondo non è come lo percepiamo.
Il più duro cemento armato, contro cui ci potremmo tragicamente scontrare, è più vuoto e sparso di un cielo notturno, in una notte neanche troppo stellata.
La luce non è così netta e luminosa come ci appare in una coppia di fari che ci abbaglia nella notte: prima dell’infrarosso c’è tanta luce che non vediamo, e dopo l’ultravioletto ce ne è ancora di più. Ma due potenti fari a Raggi X nella notte non li vedremo mai illuminarci.
Il calore di un fuoco, o quello di un incendio, il caldo di una giornata torrida, non sono contenitori pieni di “calorico”. Il vento gelido della Siberia, il tremendo Burian, non è un composto di aghi di ghiaccio che si conficcano nelle carni, anche se la sensazione è proprio quella. Andandone a vedere meglio la realtà, il modello più simile è un tranquillo biliardo in cui le palle del gioco del 125 si agitano come appena sparigliate (ed è caldo) o come dopo parecchie mani, quando sono quasi ferme (ed allora percepiamo il freddo). Il caldo e il freddo sono allora la schiuma di queste palle da biliardo che si agitano o meno. Sono l’agitarsi delle molecole e degli atomi, le particelle microscopiche che costituiscono tutta la materia.
Il tempo, a quanto pare, appartiene alla stessa famiglia. È la “schiuma” delle cose che avvengono: alcune cose avvengono senza posa, altre possono avvenire, ma sono improbabili…
Non chiedete mai ad un fisico di parlarvi del tempo! Si innervosirà, e per mascherare la sua ignoranza vi annoierà con grafici e concetti astrusi. In realtà, al momento, sa poche cose. Sa che il tempo è una dimensione dello spazio: lunghezza, larghezza, altezza e tempo. E che le quattro si possono girare e scambiare come un “cubo di Rubik”.
E sa che lo spazio vuoto non esiste: non c’è un equivalente in natura del Catasto, non c’è nessuna “particella edificabile”. Solo quando c’è una particella di materia o di energia (una casa o un camper, al Catasto) si crea una spazio intorno a lei. Ed insieme a lunghezza, larghezza e profondità si crea anche un relativo tempo.
E prima? “Prima” è un avverbio di tempo, e il tempo non c’era.
Per di più ci sono le rotazioni del “cubo di Rubik”, per cui il tempo diventa lunghezza. E viceversa.
Insomma, o aspettate un centinaio di anni almeno, perché la questione si chiarisca, o è meglio che il tempo non ve lo facciate spiegare da un fisico.
Da chi, allora?
Da un mistico? «Se non mi chiedi cosa sia il tempo, lo so. Se me lo chiedi, allora non lo so più»2. Agostino da Ippona ha lasciato una bella frase, ma la sostanza è sempre carente.
Allora? Meglio farselo dire da qualcuno che, per scelta, racconta storie.
Da un romanziere e/o da un regista.
Si può partire dalla “invenzione letteraria” de La macchina del tempo (1895) da parte dello scrittore inglese Herbert George Wells, da cui è nato un profluvio di avventure fantascientifiche d’ogni tipo.
Wells, che era un romanziere ma anche un divulgatore scientifico, si trovò inconsapevolmente ad anticipare le teorie di Einstein di almeno un ventennio con un saggio sulla quarta dimensione (The Universe Rigid, 1885) in cui si cominciava ad ammettere una quarta dimensione temporale: «Se consideri che il tempo sia lo spazio, allora– Voglio dire se lo tratti come una quarta dimensione come, beh allora vedi …».
Evidentemente, sul finire dell’800, c’era “nell’aria” un desiderio di investigare le “dimensioni” dell’uomo e dell’universo che, da un lato, ha portato alla Relatività di Einstein (1905, poi 1925) e dall’altro a tutti i racconti e i film che utilizzavano per la loro trama i “paradossi temporali”.
Un esempio di paradosso temporale può essere trovato nel film Ritorno al futuro di Robert Zemeckis e nel suo sequel in cui, secondo il dottor Emmett Brown, il paradosso temporale prende forma, con tutte le sue incoerenze e assurdità, quando qualcuno incontra se stesso nel futuro o nel passato.
In The Time Machine (2002, di Simon Wells -pronipote dello scrittore-), uno dei tanti film “liberamente” tratti dal romanzo La macchina del tempo. Il protagonista del film, tramite una macchina del tempo costruita apposta per salvare sua moglie dalla morte, scopre che paradossalmente non potrà mai salvarla perché, se lei non fosse morta, lui non avrebbe mai avuto la volontà di creare la macchina del tempo. Un paradosso temporale è presente anche nella trama di Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (2004, di Alfonso Cuarón), in cui Harry Potter e Hermione Granger salvano prima Sirius Black e l’ippogrifo e poi Potter salva se stesso tornando indietro nel tempo. Su un paradosso temporale è basato anche il film Interstellar (id., 2014 di Christopher Nolan), in cui il protagonista, entrando in un buco nero, riesce a viaggiare in un vero e proprio multiverso, cercando di cambiare alcuni eventi del passato, per il bene dell’umanità. Un esempio ancora più complesso di paradosso temporale è nel film Terminator (1984, di James Cameron). Le macchine, che nel film sono protagoniste attive, progettano di mandare un Terminator indietro nel tempo per uccidere colei che diventerà la madre del leader della resistenza umana nella guerra contro le macchine, John Connor. Connor, intuito il piano, si difende inviando il suo miglior amico a proteggere la sua giovane madre: il suo amico finisce per innamorarsi della donna, diventando così il padre di John Connor. Il paradosso sta nel fatto che se le macchine non avessero tentato di uccidere John, egli non sarebbe mai nato.
Tutte queste opere, con i loro complessi (e spesso divertenti) paradossi temporali, non si allontanano però da una visione “ingenua” del tempo e dello spazio, in cui è comunque sottinteso che sia l’uno che l’altro esistono già come “contenitori vuoti” da riempire di oggetti e avvenimenti.
Il tempo, diceva Jorge Luis Borges, «È la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è il fiume che mi trasporta, ma io stesso sono fiume». I nostri movimenti, le nostre azioni, sono differiti e diluiti nel tempo, come lo sono anche le nostre percezioni, i nostri pensieri, il contenuto della nostra coscienza. Ma il tempo nel quale viviamo, o al quale viviamo accanto, è continuo al pari del fiume di Borges? O non è forse esso più simile a una catena o a un convoglio, a una successione di momenti distinti, quasi fossero perline su uno stesso filo?
La capacità di esprimere la temporalità costituisce uno dei tratti principali della comunicazione umana. Tutte le lingue possiedono mezzi lessicali o grammaticali per collocare un evento nel tempo, indicarne la durata e metterlo in relazione con altri eventi.
Nella codifica della temporalità è fondamentale, più che la situazione reale, la rappresentazione che il parlante ne elabora, il cosiddetto “tempo narrativo”. Ogni narrazione si svolge in un determinato tempo e spazio. Il tempo della storia corrisponde all’epoca in cui si sono svolti i fatti narrati, la durata della storia indica il tempo che i fatti hanno impiegato per svolgersi, il tempo della narrazione indica il momento in cui i fatti vengono narrati.
In un romanzo (e in un film) vi è un gioco molto complesso tra tempo della storia raccontata e tempo del discorso che narra: il romanzo novecentesco ha sperimentato forme diverse di interazione tra questi due piani, e lo stesso hanno fatto molti film, specie negli anni ‘60.
Tanti ricordano (con interesse, ma anche con fastidio) il film L’anno scorso a Marienbad (1961 di Alain Resnais). La sceneggiatura è opera dello scrittore di avanguardia Alain Robbe-Grillet, teorico del “Nouveau roman”: in un sontuoso albergo di lusso la serata teatrale si trasforma in un complicato viaggio nella memoria per una giovane spettatrice. Uno sconosciuto (Giorgio Albertazzi) insiste a dire di averla conosciuta l’anno precedente a Marienbad e di essere stato il suo amante, ma la donna non ne è affatto sicura. Il film non rivela chi dei due abbia ragione e si perde nei numerosi flashback dei protagonisti che intrecciano passato e presente, che pronunciano pochissime battute, mantenendosi quasi sempre statici sulla scena. «Corridoi senza fine che succedono ad altri corridoi, lugubri, deserti. Sale silenziose in cui i passi di colui che le attraversa sono assorbiti da tappeti così pesanti, così spessi» è il leit-motiv del racconto fuori campo del protagonista, e che ne caratterizza tutto il clima onirico.
L’ispirazione, per Robbe-Grillet, derivava da un romanzo argentino, L’invenzione di Morel dello scrittore Adolfo Bioy Casares, in cui il tema fantascientifico era dato dall’invenzione di una specie di “videoregistratore assoluto” che riprendeva un evento e lo riproponeva in continuo nel mondo reale. Il romanzo, di grande successo è del 1940, e nel 1974 il regista Emidio Greco lo ha ridotto per il cinema.
Sempre in quegli anni, molti film e molti romanzi hanno giocato con il “tempo perduto” e quello “ritrovato”, e con le amnesie e le incomunicabilità fra i personaggi. Tipica la tematica del regista Michelangelo Antonioni (L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso, Blow-Up; 1960-66), ma la sensazione del legame fra il tempo e gli avvenimenti umani è primaria anche nei film di Ingmar Bergman, in cui la morte gioca a scacchi il tempo rimasto da vivere al Cavaliere (Il settimo sigillo, Det sjunde inseglet, 1956).
Tutti questi temi sono interessanti (e forse anche un po’ datati, per il nostro modo odierno di concepire -e usare- il tempo in sciocchezze social), ma non hanno niente a che vedere con la questione di cosa sia il tempo, e di come vada percepito.
Il più cupo e onirico Marienbad non si salva dal concetto narrativo de “l’anno scorso”, la Morte vince o perde con il Cavaliere ma quello che si giocano è un “intervallo di tempo”, in tutti i paradossi e le varie “macchine del tempo” un quadrante mostra lo scorrere di “anno dopo anno”: è quella che definisco «visione catastale», in cui il tempo è dato, c’è un prima e un dopo comunque.
«La cosa più importante che ho imparato a Tralfamadore è che quando una persona muore, muore solo in apparenza. Nel passato essa è ancora viva, per cui è molto sciocco che la gente pianga ai suoi funerali. Passato, presente e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno».
Solo lo scrittore Kurt Vonnegut (USA, 1922-2007) è riuscito a raccontare il tempo in questo modo, ed il regista George Roy Hill (USA, 1921-2002) a darcene la versione cinematografica:
«I tralfamadoriani possono guardare ai diversi momenti come noi guardiamo un tratto delle Montagne Rocciose. Possono vedere come siano permanenti i vari momenti, e guardare ogni momento che loro interessi. È solo una nostra illusione di terrestri quella di credere che a un momento ne segue un altro, come nodi su una corda, e che una volta che un istante è trascorso è trascorso per sempre».
Così, nel romanzo Mattatoio 5, Vonnegut descrive il suo protagonista:
«Billy Pilgrim ha viaggiato nel tempo. Billy è andato a dormire che era un anziano vedovo e si è svegliato il giorno delle sue nozze. È passato per una porta nel 1955 ed è uscito da un’altra nel 1941. È tornato indietro per quella porta per trovarsi nel 1963. Ha visto la propria nascita e la propria morte molte volte, dice, e rivive di tanto in tanto tutti i fatti accaduti nel frattempo.»
Invece della “visione catastale”, in cui il tempo esiste comunque (come una “particella” in una mappa catastale, che una volta costruita non è più disponibile) e si tratta solo di riempirlo di avvenimenti, Vonnegut nel suo narrare tratta il tempo come un luogo, un paesaggio che può essere visitato e rivisto più volte ed in cui nulla è definitivo.
La fisica è una scienza, ma il suo fine è quello di descrivere spiegare il mondo per come è.
Spesso i fisici si perdono in teorie incomprensibili ai più, ma nella loro testa hanno una visione del mondo (spesso strana e assurda) che non vogliono e non possono esprimere compiutamente in forma semplice. Spesso delegano -più o meno inconsapevolmente- questa funzione ai narratori, che hanno più libertà di loro di esprimere idee dirompenti senza alcuna remora.
È il caso della “natura del tempo” e di tutte le sue implicazioni. Non ci si limita più ai paradossi di chi viaggia nel tempo e riesce a diventare il padre di se stesso, ma si adotta una visione molto più semplice e incredibile:
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Passato, presente e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno
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I terrestri hanno una capacità visiva solo tridimensionale, ma il mondo ha quattro dimensioni, e la quarta è il tempo
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Possiamo guardare ai diversi momenti della vita come guardiamo un paesaggio
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Ciascuno potrebbe vedere e rivivere molte volte la propria nascita e la propria morte
Queste affermazioni forse potranno essere della fisica, ma per il momento sono della letteratura, di Kurt Vonnegut.
Per questo gli dedichiamo l’attenzione e l’interesse necessario, e cercheremo di farci raccontare da lui (narrativamente) quello che ancora solo pochi scienziati 3 riescono a esprimere con la loro dottrina.
«Dove sono?» disse Billy Pilgrim.
«Incastrato in un blocco d’ambra, signor Pilgrim. Siamo dove dobbiamo essere in questo momento, a cinquecento milioni di chilometri dalla Terra, e grazie a una alterazione del tempo. Arriveremo a Tralfamadore in una questione di ore invece che di secoli.»
«Come… come ho fatto a capitar qui?»
«Ci vorrebbe un altro terrestre per spiegarglielo. I terrestri sono bravissimi nello spiegare le cose: sono capaci di spiegare perché questo fatto è strutturato in questo modo, come far verificare altri eventi, o come evitarli. Io sono un tralfamadoriano, e posso vedere tutto il tempo come lei vede un tratto delle Montagne Rocciose. Tutto il tempo è tutto il tempo. Non cambia. Non si presta ad avvertimenti o spiegazioni. È, semplicemente. Prenda la vita momento per momento, e vedrà che siamo tutti, come ho detto prima, insetti in un blocco d’ambra.»
Kurt Vonnegut, importante scrittore americano di discendenza tedesca, aveva debuttato nella letteratura nel 1951 scrivendo racconti e poi romanzi di fantascienza. Nel suo secondo romanzo, Le sirene di Titano” (1959), cominciò a trattare i temi relativi al “tempo”: un suo personaggio che sta viaggiando verso Marte viene risucchiato in un “infundibolo cronosinclastico”. L’infundibolo cronosinclastico, si spiega nel romanzo, è il luogo dove tutte le specie di verità si incastrano perfettamente fra loro, il luogo dove tempo e spazio perdono significato.
Ed è in queste circostanze che si scopre il lontano pianeta Tralfamadore, posto nella galassia della Piccola Nube di Magellano 4. La fantasia sfrenata di Vonnegut gli fa descrivere il pianeta come abitato da una civiltà di macchine pensanti a forma di stura-lavandino, che comunicano telepaticamente ed eleggono un governo per “anarchia ipnotica” che è in carica da 360 milioni di anni …
Nel romanzo Mattatoio N° 5 (1969), il pianeta Tralfamadore diventa coprotagonista assoluto:
Billy Pilgrim, della cui vita si parla, «[…] disse che era stato rapito dai tralfamadoriani la notte del matrimonio di sua figlia. Non si erano accorti della sua mancanza, disse, perché i tralfamadoriani avevano deformato il tempo della sua scomparsa, cosicché aveva potuto vivere a Tralfamadore per anni, e star lontano dalla Terra solo per un millesimo di secondo. Questi esseri erano amichevoli, e erano in grado di vedere in quattro dimensioni. Sentivano pietà dei terrestri che avevano esclusivamente una capacità visiva tridimensionale. Sapevano molte cose meravigliose da insegnare agli abitanti della Terra, specialmente riguardo al tempo. Billy promise di dire quali fossero queste cose meravigliose nella sua prossima lettera.»
Vonnegut, sentendosi stretto nei panni dello scrittore di fantascienza, era da tempo passato a scrivere romanzi di narrativa mainstream, ma aveva mantenuto tutte le invenzioni fantastiche dei suoi precedenti racconti, sentendosi libero di utilizzarle ogni volta che lo ritenesse necessario.
In Mattatoio N° 5 il tema principale del romanzo è autobiografico, la devastante esperienza dell’autore che, da soldato americano sul finire della seconda guerra mondiale, fu fatto prigioniero dall’esercito tedesco e tenuto nei sotterranei di un ex mattatoio bovino a Dresda. Lì fu testimone involontario del tremendo bombardamento delle truppe Alleate, che distrussero la città dalle fondamenta e provocarono la morte di un numero impressionante di civilii.
Un tale tema è stato poco raccontato, nemmeno dai testimoni o dai responsabili, perché in un solo evento tragico si erano mescolate le necessità belliche di una guerra devastante, la voglia di rivalsa di chi aveva vissuto i tragici bombardamenti su Londra e Pearl Harbour, la pietà che va sempre concessa ai vinti, la mancanza di pietà con cui il popolo dei vinti si era comportato con altri popoli e etnie…
Vonnegut era uno scrittore americano, ma di origine tedesca, e soprattutto era lì, giovane soldato, a vedere uno degli atti più feroci di una guerra tremendamente feroce. Decide di narrare le sue esperienze nella maniera più popolare, sfruttando lo stile pulp dei suoi trascorsi dedicati alla fantascienza e alla letteratura popolare:
«Billy chiuse gli occhi. Quando li riaprì, era tornato di nuovo nella seconda guerra mondiale. Aveva la testa appoggiata alla spalla del rabbino ferito. Un tedesco gli stava dando dei calci ai piedi dicendogli di svegliarsi, che era ora di muoversi. […] Il sorriso di Billy mentre usciva dalla boscaglia era qualcosa di particolare almeno quanto quello della Gioconda, perché si trovava nello stesso tempo in Germania nel 1944 e a bordo della sua Cadillac nel 1967. La Germania scomparve, e il 1967 si fece chiaro e luccicante, libero da ogni intromissione di altre epoche. Billy stava recandosi al pranzo del Lions Club. […] Venne fermato da un semaforo nel bel mezzo del ghetto negro di Ilium. La gente che viveva in quella zona la odiava talmente che un mese prima ne aveva dato alle fiamme una parte. Era tutto quel che avevano, e lo avevano distrutto. Quel quartiere ricordava a Billy alcune delle città che aveva visto durante la guerra. I marciapiedi erano fracassati in vari punti, e rivelavano dove erano passati i carri armati e i semicingolati della guardia nazionale».
Il racconto del bombardamento di Dresda viene allora mescolato con le avventure di un personaggio timido e lunatico, che le circostanze trasportano in quell’inconcepibile mattatoio, ma anche in una stolida vita borghese da ottico optometrista nel paesino Ilium, vicino a Indianapolis, dove si sposa e ha due figli.
«Billy Pilgrim non riusciva a dormire, la notte del matrimonio della figlia. Aveva quarantaquattro anni. Il matrimonio si era svolto nel pomeriggio, in una tenda dipinta allegramente a strisce, nel cortile posteriore della casa di Billy. Le strisce erano nere e arancioni. […] Si trascinò per il corridoio del piano superiore, consapevole del fatto che sarebbe stato rapito da un disco volante. Il corridoio era tutto zebrato di ombra e luce lunare. La luce entrava nel corridoio attraverso le porte delle camere da letto vuote dei due bambini di Billy, che non erano ormai più bambini.
[…] Non avrebbe alzato gli occhi al cielo, anche se sapeva che lassù c’era un disco volante di Tralfamadore. Lo avrebbe visto presto, di dentro e di fuori, e avrebbe visto presto, abbastanza presto anche da dove veniva. Udì sopra la testa il grido di quello che avrebbe potuto essere un gufo melodioso. Era un disco volante di Tralfamadore, che navigava sia nello spazio che nel tempo, e quindi sembrava venuto, agli occhi di Billy Pilgrim, tutto a un tratto dal nulla.»
Nel romanzo (in cui è difficile districare gli avvenimenti reali, effettivamente accaduti all’autore, dalla parte di pura, sfrenata, fantasia) il protagonista Billy, pochi mesi dopo la fine della guerra, viene ricoverato in una clinica psichiatrica a causa di un disturbo da stress post-traumatico.
Ed è oggettivamente possibile leggere tutta la sua storia successiva come il parto di una mente disturbata che, come tanti americani degli anni ‘50, sogna gli alieni ed aspetta lo sbarco dei “dischi volanti”. Forse qualcuno l’ha fatto, ma la bellezza e la novità del racconto stanno proprio nel dare credibilità “reale” a tutti gli strani avvenimenti che vi sono narrati.
Nella formazione di Vonnegut come romanziere non sono certo estranei né gli inizi di scrittore “popolare” (e tutta la fantascienza che ne deriva) né qualche chiacchierata con il fratello laureato in fisica (e dunque le scoperte scientifiche, seppure trattate in maniera scherzosa). E la forma con cui si dipanano i suoi libri non è assolutamente quella di un intellettuale europeo, interessato ai temi della dissociazione mentale e dell’incomunicabilità.
A Vonnegut non interessano né i deliri della mente né i paradossi dei “viaggi nel tempo”: il tempo che lui racconta è un libero fluire di un paesaggio di avvenimenti (alcuni drammatici, altri tranquilli e spesso umoristici).
La sua scrittura è piana, semplice, e avvincente. Rifugge tutti gli sperimentalismi del romanzo novecentesco: scrive in terza persona, molto lineare, e con tutti gli usi della grammatica e del linguaggio corrente. Spesso è spiritosa, ma in forma lineare, come sempre la vita sa essere.
Casomai, ci potrebbe essere un riflesso legato al mondo “easy” di chi “si è fatto una canna”. Lo stile libero e scorrevole potrebbe forse rimandare a un qualche uso (mai citato) di sostanze psicotrope, come avveniva spesso negli anni ‘70, di cui lo scrittore ha incarnato i modi.
O, più semplicemente, riflette uno “spirito del tempo”, in cui vigeva la libertà di vivere tutte le possibili esperienze. Fatto è che i suoi libri, e Mattatoio 5 in particolare, hanno avuto un grande successo di pubblico fra le generazioni del ‘68, di Woodstock, del pacifismo e della lotta contro la guerra in Vietnam 5.
La sua visione del tempo (derivata da letture, dal fratello ricercatore, e dalla sua esperienza nella fantascienza) non è secondaria nella sua “poetica narrativa”: per il romanzo “Mattatoio N° 5” è forse l’unico strumento che permette di narrare tutto quell’orrore conservando qualcosa di umano ed un’attitudine costruttiva. Per il resto della narrativa di Vonnegut, il mutevole “paesaggio del tempo” è la visione caratteristica che unifica tutti i suoi scarti narrativi e l’apparente serenità con cui misura il suo cosmico pessimismo.
«Lettere al Direttore,
Al direttore di Ilium Daily News
Nella mia ultima lettera temo di non aver spiegato completamente che cosa mi è accaduto.
Ho perso completamente il senso del tempo.
Salto avanti e indietro nella mia vita, e non ho alcun controllo di dove…».
[Billy Pilgrim si trova a quel punto a rivivere una parte della sua vita, quando era in guerra in Germania nel 1945, soldato disperso in mezzo alla neve di un bosco]
E su questa scena iniziano i titoli di testa del film.
George Roy Hill aveva un compito facile -e difficile- nel trasporre quest’opera di successo in un racconto cinematografico. Lo stile di scrittura di Vonnegut, piana ma con salti di riga che introducevano di punto in bianco un passaggio di epoca, ambiente e tempo fra un paragrafo e il successivo, erano perfette per essere mimate in una realizzazione cinematografica che -di propria natura- giustappone e mette in sequenza una scena dopo l’altra.
Si potrebbe quasi dire che è la scrittura di Vonnegut ad usare un metodo cinematografico, collegando in un montaggio “visionario” pagine che rispettano l’una dopo l’altra solo la sequenza della continuità, ma non certo quella della consequenzialità temporale.
Come fare, allora, a rendere cinematograficamente una scrittura che è già di tipo “cinematografico” nel testo del romanzo, e renderla filmicamente con dei contenuti che, per assunto, vogliono essere non sequenziali?
La scelta di George Roy Hill è, come per Vonnegut, di rispettare la forma “popolare” del cinema narrativo di genere, ma nell’esporre per questo tramite contenuti totalmente nuovi: il film ha diversi incipit, Billy Pilgrim vive contemporaneamente la propria esperienza di giovanissimo prigioniero di guerra americano in Germania durante la seconda guerra mondiale, di maturo socio di un’attuale azienda di famiglia e di singolare eremita costretto da misteriosi alieni sul lontano pianeta di Tralfamadore.
Pilgrim, maturo occhialuto dall’aspetto mite e trasognato, rammenta (o rivive) il suo primo incontro da ragazzo con gli alieni, presentatisi a lui sotto forma di luce, per poi vedersi giovane soldato, prigioniero in un campo ricavato da un ex mattatoio. Seguono (o si mescolano) brani degli anni del dopoguerra e del matrimonio, eventi che il protagonista vive con distacco.
Pilgrim sopravvive poi ad un incidente aereo di cui già conosceva l’imminenza, per subire quindi, quasi con indifferenza, la perdita tragicomica di sua moglie, rimasta vittima di un incidente stradale mentre tentava di raggiungerlo in ospedale.
Gli alieni tornano da Pilgrim per portarlo nel loro “eremo cosmico”, fornendogli anche la compagnia di un’avvenente e poco vestita attricetta californiana che era intenta ad un bagno di sole, rapita appositamente per lui, che l’aveva desiderata vedendola sul paginone di Playboy:
«Per esempio -continua la lettera al Direttore del Billy anziano- questa mattina ero sul pianeta Taralfamadore insieme ad un’amica [inquadrature ammiccanti di Billy e dell’attricetta, fra gli alieni] ed ero nello stesso tempo dietro il fronte tedesco, durante la Guerra» [Billy giovane alle prese con dei commilitoni che gli urlano di non disperdersi mai più].
Da una scena all’altra, il grande artigiano Roy Hill costruisce il film sfruttando tutti gli stereotipi dei film di genere: le pellicole di guerra (con le bravate dei commilitoni e le scene d’azione); le commedie, con tutte le scene umoristiche e agrodolci; i film di fantascienza, con gli alieni saggi e sapienti.
Il film così scorre “easy”, e il suo grande successo di pubblico lo testimonia, fra episodi umoristici («Vi state accoppiando?» chiedono ripetutamente gli alieni di Tralfamadore quando osservano i dialoghi molto imbarazzati dei due terrestri rapiti e messi in mostra nel loro zoo). Ma non mancano le tremende scene del bombardamento di Dresda, né quelle della banale vita borghese di Billy Pilgrim e della sua sgangherata famigliola consumista.
Chi lo ha visto nel 1972, quando ricevette a Cannes il Premio della Giuria, lo ha pensato come uno dei molti interessanti film del “New Cinema” di quegli anni, come Fragole e sangue, Easy rider e L’impossibilità di essere normale. In parte lo era, ed ha condiviso con quelle pietre miliari del cinema nuovo americano il sapore di quei tempi.
Ma era anche l’opera di un valente regista mainstream (all’epoca più che cinquantenne), che aveva debuttato nel mestiere dirigendo telefilm, dopo essere stato commilitone di Vonnegut nella seconda guerra mondiale.
Aveva, qualche anno prima, già realizzato il suo film più famoso: Butch Cassidy (1969) con Paul Newman e Robert Redford. E avrebbe poi realizzato con le due famose star anche un altro film molto famoso, La stangata (1973).
Quella di Mattatoio 5 è una realizzazione altrettanto riuscita, con un intento meno commerciale delle altre. Il regista dedicò all’opera una cura particolare: per gli altri film aveva usato la sua bravura ed il suo mestiere, a Mattatoio 5 riservò un’attenzione specifica.
Basti pensare che affidò le riprese al grande direttore della fotografia cecoslovacco Miroslav Ondříček (che si era rifugiato negli USA nel 1968, insieme al suo regista di sempre, Milos Forman). E, soprattutto, che affidò la musica del film al grandissimo pianista e compositore canadese Glenn Gould.
Il quale, trovandosi fra tanti geni, adottò per le musiche della colonna sonora il Largo del concerto n. 5 in fa minore per clavicembalo di Johan Sebastian Bach.
Piero Nussio
Fisico, esperto di cinema
Note
1Si racconta che i suoi concittadini regolassero gli orologi basandosi sulla sua routine quotidiana.
2 «Quid ergo est tempus? Si nemo ex me quaerat, scio. Si quaerenti explicare velim, nescio», Agostino d’Ippona, Confessioni, libro XI
3 Tra questi, sicuramente, lo statunitense Richard P. Feynman, l’inglese Stephen Hawking e l’italiano Carlo Rovelli.
4 Galassia nana irregolare, visibile solo dall’emisfero sud. Fu scoperta da Amerigo Vespucci durante i suoi viaggi di nell’Atlantico e da lui dedicata a Ferdinando Magellano.
5 Si parla di 135.000 morti.
6 E molto meno considerazione negli ambienti della “letteratura accademica” che lo ha lasciato senza mai un riconoscimento letterario. Questo nonostante fosse anche lui un accademico, insegnante di creative writing ad Harvard.