La tardività è un concetto caro alla psicoanalisi.
Come il trauma, anche la cura psicoanalitica si muove nel tentativo di ridisegnare ex postea nuove coordinate temporali.
La cura passa necessariamente per la riattivazione di un “terzo tempo” – quello del ri-elaborare – ma non vi è cura se non in uno spazio condiviso e alla presenza dell’altro, alla ricerca di quei “tempi privati del sé” che possano consentirne, nell’esperienza del campo, nella relazione di transfert, finalmente un fluire soggettivo.
L’articolo vuole esplorare le connessioni tra tempo e spazio nella definizione della posizione del soggetto.
Autori
[…] per cambiare ogni due ore
tutte le posizioni del dolore.
(V. Lamarque, 2016)
Il tempo è una desinenza.
È necessario il coraggio di finire per poter essere.
Equidistante tra una “a” e una “o”, immobile nel suffisso, arpionata al presente come una balena ferita, Francesca sta. È questa la sua posizione del dolore. Ed è posa cerea che riempie un tempo fermo eppure mai presente. Si tratta di un “tempo seriale, senza storia, collezione infinita di ora”. (Fachinelli 1992 p. 28).
Nei due anni di terapia pochi gli accenni al passato: un ricordo traumatico legato alla sessualità dei genitori, un segreto di cui si è fatta complice involontaria. Preclusa la via al futuro.
Cos’è che blocca Francesca nella posizione del dolore? Cosa non permette al suo corpo di distendersi?
«Psyche ist ausgedehnt, weiß nichts davon».
«La psiche è estesa, di ciò non sa nulla».
In questo noto, criptico frammento datato al 22 agosto 1938, Freud, dal suo esilio a Londra, ci lascia una minuta che sembra sanare l’antica contrapposizione cartesiana tra res cogitans e res extensa, rendendole una.
Al palazzo delle Esposizioni (12 ottobre 2021-27 febbraio 2022), nel tempo ancora perplesso di un mondo appena scosso dalla Pandemia, titubante sulla vicinanza dei corpi tra contatto e contagio, incerto nel recupero delle posizioni, si è tenuta la mostra Ti con zero, la cui presentazione recitava:
«Titolo tratto da un racconto di Italo Calvino pubblicato nel 1967, è una notazione matematica con cui si indica il momento iniziale di osservazione di un fenomeno, un istante di arresto fissato nel tempo e nello spazio che si apre a infinite possibilità. Questa dimensione si rivela un punto di vista privilegiato in cui possono convergere conoscenza e immaginazione».
Come insegna la Fisica, il tempo e lo spazio sono categorie tra loro fortemente embricate. Prendendo a paradigma di ciò il modello del Big Bang, l’una non può esistere senza l’altra.
Ma anche, come illustrato da Paola Marion: «Il tempo, insieme allo spazio, costituisce una delle due fondamentali dimensioni della soggettività e dello sviluppo individuale. La questione del tempo, da Platone in poi, ha attraversato il pensiero filosofico occidentale e già Sant’Agostino nelle Confessioni definiva il tempo come un “enigma intricatissimo”, di cui cogliere le aporie, ma anche l’indicibilità» (Marion, 2010).
Agostino prova a definire il tempo come distensio, e distensio animi.
Espressioni, come l’appunto di Freud, tanto icastiche quanto dense di sottintesi.
Etimologicamente distentio è un derivato del verbo distendo (dis + tendo), «tendere in direzioni opposte»: il tempo appare dunque poter essere descritto come una forma variante di “tensione”. Una “estensione”, o – meglio – una “distensione” dell’animus(traducibile forse, approssimativamente, con “spirito”) in sé proteso nelle due direzioni del passato e del futuro, cioè secondo la nota immagine della freccia temporale, che pare recare con sé un (inusitato? inaspettato?) senso di spazialità.
Ancora, da Marion: «Nel pensiero psicoanalitico, lungi dall’essere concepito come un a-priori dell’accadere dell’esperienza, [il tempo] rappresenta piuttosto una condizione della mente che si struttura nella relazione con l’altro. Il paradigma dell’oggetto è del resto quello di essere l’agente più potente nella strutturazione del tempo attraverso il ritmo presenza-assenza, in cui l’esperienza del soggetto si compenetra con quello dell’altro. Nella costruzione dell’asse temporale, da cui dipende la nostra capacità di pensare e di pensarci, sono in gioco sia lo stato di passività, di Hilflosigkeit, della condizione umana alla nascita e il suo prolungato stato di dipendenza, sia la bifasicità della sessualità umana. L’apparato psichico non solo nasce e si sviluppa in funzione del tempo, ma è anche abitato da una molteplicità di direzioni temporali in tensione tra loro all’interno del soggetto, la cui rappresentazione incontra l’indicibilità di cui parla Agostino». (Marion, 2010).
Va ora qui accennato, almeno brevemente, alla nozione freudiana di Nachträglichkeit (reso ora con après coup, ora con deferred action, in italiano spesso con azione differita, posteriorità, tardività).
Perché vi sia un trauma, occorrono due tempi: è solo “nel dopo” che si ha riattivazione o reinterpretazione di un qualcosa che non poteva essere assunto e/o assimilato al momento del suo accadere.
È questa “riattivazione” del tempo attraverso un “terzo tempo”, il tempo della seduta, il tempo dell’analisi, che permette un tempo della cura.
È nell’incontro psicoanalitico che si crea un nuovo “qui ed ora” in cui la temporalità e la causalità possono finalmente trovare significato, fare di un accadimento un evento, dare senso al trauma rendendolo esperienza.
È questo, che si configura come ‘evento’, nel senso attribuito al termine da Carlo Diano. Non quicquid èvenit, ma id quod cuique èvenit. Il fatto che qualcosa accada non è sufficiente a configurare ciò come evento: perché lo sia, è necessario che ciò che accade lo si senta accadere per sé stessi; l’evento, dunque, non è il semplice accadere, ma il sentire che quanto accade, accade per qualcuno in particolare. In tal senso, l’evento è sempre hic et nunc. Il quanto – quantum – (che) accade si distende in un quando che avviene – in un cum.
Come per il trauma, non c’è tempo della cura se non c’è tempo alla presenza dell’altro (presente, o mancante).
È l’impronta dell’altro, dell’oggetto di cui si va alla ricerca, in tensione con la pulsione, che reca la cifra del trauma e/o della cura.
Per trovare/creare un nuovo inizio, un nuovo Ti conzero. Perché «La dove è Es, Io divenga».
Riprendendo un certo paradigma alla Winnicott lo si potrebbe parafrasare dicendo: There is no such thing as time. There is time when there is someone (else).
In un certo senso, lasciati al libero fluire del tempo, non ci sarebbe tempo. Il tempo rischierebbe di restare circolare, eterno aion, muovendosi lungo l’obiettività impersonalmente abbandonica del chronos, senza divenire kairos.
Viceversa, perché il tempo possa avere senso, perché sia un tempo della cura, ha bisogno, per dispiegarsi, per giungere alla distensio animi, che sia un tempo alla presenza dell’altro.
Le parole dell’analista, il silenzio dell’analista, la presenza dell’analista – con le relative posizioni asimmetriche – così come – nel dispositivo dello psicodramma – il gioco, i doppi, l’inversione di ruolo, creano incertezza, attualizzando il conflitto infantile nella situazione analitica, ponendo una tensione ermeneutica volta ad elaborare quei messaggi enigmatici che attraversano il campo, messaggi che pescano nella scena della teoria della seduzione, e non attengono solo all’evocazione, ma anche alla costruzione. Sono trovati/creati. Soggettivati.
Il concetto di Nachträglichkeit, dunque, «non si limita ad esprimere [“semplicemente”] una doppia direzione temporale che dal presente va al passato e viceversa, ma […] riguarda l’operare del trauma stesso». Lungi dall’essere mera attribuzione retrospettiva di significato, reca piuttosto con sé la potenzialità del ri-creare, nell’incontro della situazione transferale, lo spazio per accogliere ed elaborare le tracce di quell’incontro primigenio (più o meno traumatico, più o meno “confuso nella lingua”), alla presenza di un “terzo”, verso un momento immaginativo rivolto al futuro (cfr. R Künstlicher, report SPI 2013).
Ecco, forse una nuova sfumatura di senso da dare alla definizione agostiniana di distensio animi: come il tempo, così l’animo si distende. Laddove il tempo si dis-tende, si libera dalla connotazione fortemente negativa che il prefisso “dis-” ha ereditato dal Latino. Come con la scarica, la tensione viene meno.
Scrive Pavese (Il mestiere di vivere, 30 ottobre 1940): «Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l’aria. È impalpabile, sfugge a ogni presa e a ogni lotta; vive nel tempo, è la stessa cosa che il tempo; se ha dei sussulti e degli urli, li ha soltanto per lasciar meglio indifeso chi soffre, negli istanti che seguiranno, nei lunghi istanti in cui si riassapora lo strazio passato e si aspetta il successivo. Questi sussulti non sono il dolore propriamente detto, sono istanti di vitalità inventati dai nervi per far sentire la durata del dolore vero, la durata tediosa, esasperante, infinita del tempo-dolore. Chi soffre è sempre in stato d’attesa – attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto. Viene il momento che si grida senza necessità, pur di rompere la corrente del tempo, pur di sentire che accade qualcosa, che la durata eterna del dolore bestiale si è un istante interrotta- sia pure per intensificarsi. Qualche volta viene il sospetto che la morte – l’inferno – consisterà ancora del fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più».
È questo forse che ancora non riesce a prendere voce nella terapia con Francesca: non c’è grido di dolore o meglio è un grido taciuto.
Cosa è, dunque, il tempo della cura, se non un’interruzione del tempo “tutto-trauma”, “tutto del trauma”?
Con la distensio animi, nella Nachträglichkeit, si addiviene finalmente ad un Ti con zero, ed un “terzo” tempo, o “tempo del terzo”, può – finalmente – (ri-?)mettersi in movimento.
Ma cos’è che talvolta sbarra l’acceso a questo terzo tempo?
È forse il trauma stesso, la paura che qualcosa accada di nuovo.
Francesca racconta di strategie messe in atto per non sentire di nuovo ciò che da bambina aveva sentito. Dice di giocare d’anticipo. Fermare prima perché non accada il poi.
Nella vita di Francesca, come nella stanza d’analisi, sembra sia impossibile dire: tutto accade, ma accade anche il contrario di tutto, così nulla avviene.
Poi, all’improvviso, è nello spazio onirico che si apre un passaggio. A distanza di pochi mesi si susseguono tre sogni, i primi raccontati dopo più di un anno di analisi.
Nel primo Francesca accede al passato, alla casa dell’infanzia, è un sogno statico: è lei tra i genitori: perché ti sei messa in mezzo a questi due?
È questa forse la posizione del dolore che ancora la definisce.
Nel secondo sogno è il rosso delle unghie laccate e per la prima volta un sentimento di rabbia.
Il terzo sogno è un sogno in due tempi, all’inizio un abbraccio con una figura femminile, poi c’è una porta, di cui lei ha le chiavi, che sembra però mossa dal vento e le permette di accedere a un’altra parte del sogno.
Emergono così i primi elementi di movimento che apriranno poi una nuova fase della relazione analitica.
È attraverso il racconto del sogno che Francesca si stacca dall’ora eternoe muove i primi passi. Cambia posizione.
Così la porta sembra in qualche modo metafora analitica: è in quel doppio movimento di apertura tra chiavi e vento che si gioca la relazione terapeutica.
La paura che qualcosa accada di nuovo approda nel terzo tempo della terapia ad nuova posizione: quella in cui, finalmente, qualcosa di nuovoavviene.
Ci si muove a partire da tracce di una ferita non vista che, originariamente, accade. E solo dopo si fa evento, nello sforzo – più o meno riuscito (il ricordare, il ripetere) – di attribuire un significato, di dar senso all’essere (del) soggetto.
Se, in un primo momento, il trauma accade, è in un secondo momento che esso può farsi evento (qualcosa che avviene per il soggetto), nel tentativo di significare a livello rappresentativo quanto occorso, e di poterne fare una esperienza.
Il rischio è, però e dunque, quello del congelamento, della fossilizzazione in un tempo “out of joint”, in un ripetere meramente coattivo. Nella fissità della posizione del dolore. Della narrazione di sé che, non trovando/creando spazio per l’altro, risulti asfitticamente posticcia e talmente solidale con l’accadimento traumatico da risultare adesivamente identitarizzante.
La cura passa necessariamente per la (ri-)attivazione di questo “terzo” tempo, quello del ri-elaborare alla presenza dell’altro, alla ricerca di quei “tempi privati del sé” che possano finalmente consentirne (nell’esperienza del campo, nella relazione di transfert) un fluire. E un fluire soggettivo. Un ritorno del vento che apre anche le porte chiuse a chiave.
Così, come per i ghiacciai raccontati da Cognetti, «Il passato è a valle, il futuro è a monte. […] Qualunque cosa sia il destino abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa» (Cognetti, 2016, p.25).
Riccardo Cocchi
Psichiatra Psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico, Dottore di Ricerca (Ph. D.) in Ricerche e Metodologie Avanzate in Psicoterapia, Antropologo Culturale.
Esperto nel trattamento psicoterapeutico di adulti, bambini ed adolescenti, già professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Candidato IPA presso la Seconda Sezione Romana della SPI. Socio Centro Apeiron-SIPsA.
Psicologa, psicoterapeuta, psicodrammatista. Membro Centro Apeiron- SIPsA, Vice Presidente e Membro titolare SIPsA.
Ha conseguito un master universitario di II livello in psicodiagnostica per valutazione clinica e medico legale.
Funzionario e docente presso la sede di Roma – Scuola di specializzazione in psicoterapia psicoanalitica COIRAG. Psicoterapeuta presso il Servizio psicologico integrato EDUCATT dell’Università Cattolica del Sacro Cuore sede di Roma
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