«Io esisto il mio corpo: questa è la prima dimensione d’essere. Il mio corpo è utilizzato e conosciuto da altri: questa è la sua seconda dimensione. Ma in quanto io sono per altri, altri mi si manifesta come il soggetto per il quale io sono oggetto»1
Nell’opera L’essere e il nulla, Sartre nell’analisi della relazione con l’alterità, parte dall’assunto che vi siano più modi d’essere del corpo, e sono proprio queste differenti modalità ad influenzare la nostra relazione con l’alterità.
La prima dimensione è il corpo “per sé” – corpo sentito – il quale abbraccia tutte quelle sensazioni che provengono dal fatto che “io esisto il mio corpo”; la seconda dimensione il corpo “per altri” – corpo visto -cioè «[…] la rivelazione dell’esistenza del mio corpo, al di fuori, come un in-sé per altri»2, è il mio corpo che non si dà più come il vissuto puro e semplice, ma come un vissuto che si prolunga al di fuori di me e sfugge al mio controllo.
Il mio corpo per “altri” ha una dimensione oggettuale è un corpo che diventa strumento fra gli strumenti e che appare come organo percepito e non più percepibile da me in prima persona tale dimensione rivela la mia fatticità;
«per altri io sono come questa tavola o quell’albero sono per me […]»3.
È il mio corpo quale è per altri che mi imbarazza poiché cerco costantemente di raggiungerlo, afferrarlo e dominarlo per conferirgli una forma, un atteggiamento, fallendo, però, in questo progetto, dal momento che il mio corpo per altri è – costantemente e per principio – fuori dalla mia portata.
Dunque: «Ci rassegniamo a vederci con gli occhi di altri: il che significa che tentiamo di conoscere il nostro essere dalla manifestazione del linguaggio»4.
È evidente come l’esistenza di altri mi riveli l’essere che io sono, senza che io possa né impadronirmene né concepirlo, da ciò scaturisce un importante considerazione: Altri mi “guarda”, e come tale detiene il segreto del mio essere, sa ciò che io sono; in questo modo il senso profondo del mio essere è al di fuori di me, imprigionato in altri e l’altro è in vantaggio su di me. È emblematico come nella semplice e generica relazione con l’alterità ci sia un principio di sottomissione che fa da base.
Il ruolo dello sguardo nella relazione con l’alterità è fondamentale: dobbiamo interpretare il termine “sguardo” in una chiave di possesso, io sono posseduto dall’altro; lo sguardo d’altri produce il mio corpo, lo fa nascere, lo vede come io non lo vedrò mai. Di fronte a questo possesso, io riconosco che l’altro ne è cosciente e di fronte ad esso io sono oggetto, oggetto nel suo mondo.
L’altro fonda il mio essere sotto forma del “c’è”, lo fonda ma non ne è responsabile: il rapporto con l’alterità infatti è originato proprio dal conflitto, cioè dal progetto di ripresa del mio essere.
Poiché “l’altro” rivela il mio essere oggetto, la mia fatticità, cerco costantemente di liberarmi dal suo sguardo cercando di liberarmi, attraverso l’assimilazione, della sua libertà di guardarmi, ma ciò può avvenire solo nel momento in cui mi riconosco come oggetto, come essere guardato.
«[…] io mi identifico del tutto con il mio essere guardato per mantenere di fronte a me stesso la libertà di guardare l’altro, e poiché il mio essere oggetto è l’unica relazione possibile fra me e l’altro, posso servirmi solo di questo essere oggetto come strumento per compiere l’assimilazione dell’altra libertà»5.
Questo progetto di unificazione con l’altro è, in realtà, una specie di conflitto perché finché io mi sento come oggetto per altri e progetto di assimilarlo, l’altro mi coglie come oggetto nel mondo e non progetta di assimilarmi a lui.
In questo consiste – potremmo dire – il conflitto a vuoto, poiché per realizzare la ripresa del mio essere devo necessariamente impadronirmi della libertà dell’altro e ridurla a libertà sottomessa alla mia libertà.
Questo processo è alla base del meccanismo dell’amore poiché è della libertà di altri in quanto tale che noi vogliamo impadronirci; infatti l’amore non è semplice desiderio di possesso fisico perché, se lo fosse, potrebbe allora essere facilmente soddisfatto. L’esempio che esplica questa differenza è proprio l’eroe di Proust, che fa abitare con sé la sua amante, ponendola in una completa dipendenza materiale, ma è con la sua coscienza che Albertine sfugge a Marcel ed è per questo che egli non ha tregua se non quando la contempla nel sonno.
«Così l’amante non desidera possedere l’amata come si possiede una cosa; pretende un tipo speciale di appropriazione. Vuole possedere una libertà come libertà»6.
L’amante, dunque, vuole essere amato da una libertà e pretende che questa libertà non sia più libera, vuole invece che si auto imprigioni; quindi l’amante stesso vuole essere l’oggetto per il quale l’altro eserciti la sua libertà come se fosse sempre “viva” e “libera” ma pur sempre incatenata.
Questa libertà che si sottomette e si impegna, è l’unico modo per essere al sicuro nella coscienza dell’altro, poiché il motivo dell’inquietudine deriva dal sentirmi oggetto di giudizio di valore, puro mezzo e strumento per l’altro, ma se l’altro mi ama, io divento l’insuperabile e acquisisco un valore assoluto agli occhi dell’amante, di conseguenza sfuggo dalla mia fatticità e dal mio essere oggetto, nonché dalla mia esistenza ingiustificata.
Essendo il termine “amato” insignito dell’appellativo di eletto, non sarò più l’oggetto “questo” fra altri “questi” ma sarò l’oggetto per il quale il mondo dell’altro esiste e cosi sarò al sicuro dallo sguardo dell’altro che non mi fisserà più nella mia finitezza, la mia fatticità sarà salva proprio perché è l’altro a fondarmi, mi fonderà con un plus valore e in questo modo la mia esistenza sarà, perché sarà chiamata dall’altro.
L’amore dunque appare come un rimedio, poiché, prima di essere amati, eravamo inquieti per questa protuberanza ingiustificata che era la nostra esistenza; nel momento in cui siamo amati sentiamo che questa esistenza è desiderata nei minimi particolari da una libertà assoluta, appare chiaro come amare in realtà sia il progetto di farsi amare.
Così, nella coppia di amanti, ciascuno vuol essere l’oggetto per il quale la libertà dell’altro si aliena, così ciascuno è alienato in quanto esige l’alienazione dell’altro.
È proprio nell’amore che riaffiora questa conflittualità originaria nella relazione con l’alterità che è fuga e allo stesso tempo ritorno al conflitto poiché da una parte si esige che la fondazione del proprio essere avvenga come essere un oggetto privilegiato, mantenendo di fronte a sé l’altro come soggetto, dall’altra si avverte che ciò non può avvenire perché, dal momento che l’altro ci ama, ci pone e ci sente come soggetto sprofonda dunque nella sua oggettività di fronte alla nostra soggettività.
È così che la prima relazione originaria con l’alterità descritta da Sartre fallisce in questo circolo conflittuale.
Differentemente dall’amore, il quale appunto tenta di assorbire l’altro conservandolo nella sua alterità, nell’atteggiamento masochista, il progetto è quello di farsi assorbire dall’altro e di perdersi nella sua soggettività per sbarazzarsi della propria.
Qui è la soggettività ad essere considerata come ostacolo, si tratta proprio di negare questa; il masochista tenta quindi di impegnarsi nell’essere oggetto, si rifiuta si essere qualcosa di più.
Invece che cercare di esistere per l’altro come oggetto limite come accade nell’amore, il masochista si fa trattare dall’altro come un oggetto fra gli oggetti, come uno strumento da utilizzare, e, dunque, invece di imbattersi nel progetto di assimilare la libertà altrui, si riposa nell’alterità e riduce la sua soggettività rinnegandola.
Ma il masochismo è in sé stesso una sconfitta poiché, più l’individuo tenterà di gustare la propria oggettività, più sarà sommerso dalla sua soggettività, fino all’angoscia.
Così il masochista finisce per trattare l’altro come oggetto. In questo continuo sforzo di annichilire la propria soggettività scoprirà l’oggettività dell’altro e la coscienza di questo fallimento diverrà godimento stesso, cioè godimento di sconfitta.
Essendoci alla base delle relazioni primordiali con l’alterità, l’intento, da una parte, di liberarsi dallo sguardo e dal possesso dell’altro e, dall’altra, il “desiderio” di possedere l’altro; ecco che il desiderio sessuale, per Sartre rappresenta un vero e proprio escamotage.
«Il desiderio è un comportamento magico. Si tratta, poiché non posso cogliere l’altro se non nella sua fatticità oggettiva, di far sì che la sua libertà si appiccichi alla sua fatticità […] in modo che il per-sé d’altri affiori alla superficie del suo corpo, e dilaghi in tutto il suo corpo, e che toccando questo corpo, io tocchi infine la libera soggettività dell’altro. È questo il vero significato della parola possesso. È certo che voglio possedere il corpo dell’altro; ma voglio possederlo in quanto è anche esso un “posseduto”, cioè in quanto la coscienza dell’altro vi si identifica»7.
Nel sesso, vi è proprio questo meccanismo, la coscienza si fa carne, la coscienza desidera la propria fatticità, attraverso il farsi carne della coscienza io induco l’altro a farsi carne con il fine di possederlo non solo in quanto carne ma di possederlo in quanto soggettività libera.
L’altro sarà solo pura fatticità e rimarrà chiuso entro i limiti di un oggetto; in questo schema la carezza e il contatto sono forme fisiche di una volontà di possesso che va al di là della fatticità dell’altro e che raggiunge le vette della sua libera soggettività, in questo modo delimitando il campo dell’altro, rendendolo carne, la sua coscienza non mi sfugge e io sono rassicurato come accadeva nell’amore.
Ma anche il desiderio sessuale è destinato a fallire poiché, essendo il desiderio, “desiderio” di impadronirsi, impossessarsi dell’altro, cioè della coscienza incarnata, nel momento in cui: «Prendo e mi scopro nell’atto di prendere, ma ciò che prendo nelle mie mani, è una cosa diversa da quella che volevo prendere; lo sento e ne soffro, ma senza essere capace di dire che cosa volevo prendere; perché, con il turbamento, mi sfugge la conoscenza stessa del mio desiderio […]»8.
Questo avviene proprio perché il desiderio sessuale è in realtà il tentativo di impossessarmi della soggettività libera dell’altro attraverso la sua oggettività quale è per me e non il desiderio puro e semplice di un corpo fisico. Questo proprio perché, per Sartre, in primo luogo il desiderio è desiderio di un oggetto trascendente e in secondo luogo il desiderio è consenso al desiderio, cioè è desiderio di desiderio, il fare subentra solo dopo potremo dire come escamotage.
Diversamente dalla sessualità, dove la coscienza si fa carne e induce l’altra coscienza a farsi carne in un movimento di scivolamento nella fatticità, l’atteggiamento del sadico ha lo stesso scopo, impossessarsi dell’altro ma in modo differente.
«Così il sadismo è, insieme, rifiuto di incarnarsi e fuga da ogni fatticità e, insieme, sforzo per impadronirsi della fatticità dell’altro»9.
Il sadico, però, non vuole realizzare l’incarnazione della coscienza dell’altro attraverso il proprio farsi carne, poiché il sadismo è fuga dalla fatticità, che consiste nello sforzo di incarnare l’altro attraverso la violenza, cercando di denudare l’altro, di scoprire la carne sotto l’azione.
Rifiutando la propria carne e la propria fatticità, il sadico è costretto a servirsi di strumenti tecnici di tortura per far rivelare all’altro, con la forza, la sua carne; tali strumenti fungono da sostituto della fatticità dal quale il sadico fugge. Il dolore, procurato dalle torture attuate dal sadico sulla vittima, è la rappresentazione della fatticità che invade la coscienza.
Dal momento che il sadico vuole impadronirsi della libertà dell’altro, attraverso il corpo dell’altro usandolo come un oggetto, egli pretende un tipo specifico di incarnazione che è quello dell’osceno; l’osceno infatti appartiene al genere dello sgraziato e rappresenta la fatticità pura.
Nella grazia, infatti, il corpo è lo strumento che manifesta la libertà, l’atto grazioso è simultaneamente gesto preciso e perfetta imprevedibilità dello psichico, ciò che produce l’inquietudine in noi, la grazia dunque rappresenta un essere che sarebbe fondamento di sé.
La fatticità è quindi rivestita e nascosta dalla grazia, un corpo nudo ma aggraziato non mostrerà mai l’inerzia della carne.
L’osceno diversamente appare quando un corpo assume degli atteggiamenti che lo spogliano del tutto dai suoi atti e che rivelano l’inerzia della sua carne ed è proprio questa rivelazione al quale il sadico ambisce.
Il trionfo dell’osceno, del dilagare della fatticità, dell’inerzia della carne è il segno che la libertà dell’altro è là, nella carne, è essa stessa carne, «[…] quel corpo sfigurato e ansante è l’immagine stessa della libertà spezzata e asservita»10.
Il sadismo però richiede non solo la visione dell’osceno, cioè del corpo inerme, ma anche delle manifestazioni dell’asservimento dell’altro; non cerca soltanto di sopprimere la libertà dell’altro, ma di costringerla ad identificarsi con la carne torturata.
Per questo motivo il culmine del piacere è rappresentato dalla vittima che si arrende al dolore e si umilia, se ciò non avviene ed essa resiste e rifiuta di arrendersi, il gioco per il carnefice non è più così piacevole.
Ma anche il sadismo, come relazione di dominazione con l’alterità, è destinato a fallire poiché il sadico scopre il suo errore quando la sua vittima lo guarda, ovvero quando sente l’alienazione del suo essere nella libertà dell’altro.
«Così, l’esplosione dello sguardo dell’altro nel mondo del sadico fa svanire il senso e il fine del sadismo. Nello stesso momento, in cui il sadico scopre che era quella la libertà che voleva asservire e, nello stesso momento, si rende conto della vanità dei suoi sforzi»11.
Ecco che si ritorna al circolo essere-che-guarda e essere-guardato: «Sballottati senza posa dall’essere-sguardo all’essere-guardato, cadendo dall’uno all’altro, nell’alternativa delle trasformazioni, siamo sempre, qualunque sia l’atteggiamento adottato, in stato di instabilità in rapporto ad altri […].»12.
Flavia Petraccone
Laureanda in Filosofia presso Dipartimento Filcospe – Università Roma Tre
NOTE
- J.P Sartre, Essere e il nulla, il Saggiatore S.r.l., Milano, 2014, p. 411
- Ivi, p. 412
- Ivi, p. 41
- Ivi, p.414
- J.P Sartre, Essere e il Nulla, il Saggiatore S.r.l., Milano,2014, p.425
- Ivi, p.427
- Ivi, p. 456
- Ivi, p. 461
- Ibidem
- Ivi, p. 467
- Ivi, p.469
- Ivi, p.471