2017 CECCHETTI TAGLIAFERRI Lo striptease dell’osceno o il pervertimento della relazione di cura

Giovanni

Mi apre un signore elegante, con giacca a doppio petto, capelli lunghi, barba curata. «Le ho aperto le serrande –dice- per accoglierla. Così pure mi sono vestito, altrimenti rimango in tuta anche la notte, senza mettermi sotto le lenzuola. Nel 2001 è morta mia sorella di cancro, poco prima mia madre, sempre di cancro. Oggi non c’è più nessun parente. Questa sorella, mia moglie (lapsus!), più piccola di me, mi ha rovinato. Faceva la vita da gran signora, si è venduta tutti i beni di famiglia e in più ha fatto molti debiti. Quando si è ammalata è stata sei mesi in coma ed io mi sono occupato di tutto, ho pagato i debiti, e lei, appena uscita dal coma, mi ha fatto diffidare dall’avvocato. Per fortuna avevo le carte in regola per dimostrare che avevo fatto gli interessi di mia sorella. Non ho soldi, devo pagare il condominio. Le sedute si è offerta R. (l’ex compagna) di pagarle». Io non posso accettare e propongo un pagamento simbolico, ma fatto con i suoi soldi.

«Posso pagare 20 euro a seduta». Accetto. Per me non è una “concessione” nei suoi confronti, ma una questione di etica. Il paziente paga il massimo di quello che può (Lacan).

«Sono uno psicoterapeuta, di indirizzo cognitivista, e sessuologo. Tutti i pazienti se ne sono andati. Uno, quando mi sono assentato per mezz’ora, mi ha detto: “Non ti puoi mettere il pannolone?!” Io per ricevere una persona mi devo preparare: non mangiare, prendere determinati medicinali … ho dovuto farlo anche per ricevere lei. Oltre il tumore all’intestino, ho subito anche un’operazione … che mi ha lasciato impotente e senza nessun controllo anale. Il chirurgo, uno dei migliori in Italia, mi aveva assicurato che non sarebbe successo». Restiamo d’accordo che avrebbe pensato se intraprendere il percorso terapeutico e che mi avrebbe richiamato. Me ne vado.

Dal primo incontro/colloquio, si intravede già, in nuce, un percorso analitico, ma totalmente per me nuovo, sconosciuto, e immagino anche per lui. La per-versione è già nel setting, nello stesso invio e nella struttura della relazione, palesemente sintomatica. L’invio mi è venuto da una collega che sapeva del mio precedente lavoro con i malati terminali di Aids. Ma andare a casa del paziente è per me un’esperienza totalmente nuova. Devo anche confessare che non ero preoccupata per il carattere “a termine” del lavoro (una morte annunciata!), quanto della complessità del caso. Si trattava di un collega che ci teneva molto alla sua professionalità, di un indirizzo – il cognitivismo – lontano dal mio, e sessuologo. Si è presentato nel pieno delle sue capacità professionali, apparentemente distaccato, sicuro di sé. C’era un singolare contrasto tra l’immagine con la quale si presentava e il drammatico contenuto del suo discorso. In qualche modo era come se mi avesse sottoposto ad un esame. In realtà si stabilisce da subito un contratto tacito: io non avrei “sparato” interpretazioni irritanti. Ma il problema era come farlo stare nella posizione di paziente. E come si crea – se si crea! -il transfert tra due colleghi che conoscono anche i “trucchi” della “magia” analitica? Certo, entrare a casa del paziente non è come andare in una casa-famiglia. Significa anche condividere qualcosa di molto intimo. Nonostante mi avesse accolto alzando le serrande – il che simbolicamente era già un segno di accettazione della mia presenza – il salotto del quale decide di fare la stanza di analisi è molto buio, con mobili massicci, scuri, una libreria piena di testi di psicologia e altro. Uno spazio che non è retorico definire “sepolcrale”? Siamo seduti su due divani frontali. Non nascondo che ero in imbarazzo, ma avevo anche la certezza che il processo psicoterapeutico fosse iniziato nel momento stesso in cui fa il lapsus (moglie al posto di sorella!). La domanda che mi pongo oggi, ma che mi posi anche allora, è: perché mettermi in una situazione impossibile come questa? Non si trattava solo di avere a che fare con una morte annunciata, cosa per la quale mi sentivo sufficientemente preparata (quando seguivo i malati terminali di Aids ciò che mi sconvolgeva senza rimedio era la morte dei bambini!). Si trattava, ora, di avere a che fare con un corpo maschile ancora interessante nel suo mostrarsi, ma completamente sovvertito (l’accenno al pannolone “buca” l’asetticità del discorso!). Si trattava di entrare in contatto con un mondo all’interno “sporco” e frantumato, regredito, in singolare contrasto con l’immagine esterna – professionale?

Certamente è qui, dall’inizio, che appare la questione della perversione. Si tratta del suo corpo ridotto ad un tubo digerente in disfacimento, della sua sessualità estremamente presente e rabbiosa, delle feci sempre presenti nel discorso, tormento e godimento sul piano immaginario; si tratta anche di un pensiero e di una capacità di parola ricercati e specialistici, ma che al tempo stesso sono maleodoranti e imbrattano. Capisco subito che non posso utilizzare né la posizione del “supposto sapere” né esibire il sapere accumulato in anni di lavoro terapeutico. Mi viene assegnato un posto dove evacuare sofferenza, dolore, rabbia e sarcasmo …: come fare di questa posizione una postazione di un ascolto profondo?  L’aver proposto un pagamento sì simbolico, ma anche povero non rischia di rendere anche la prestazione povera? Questa proposta risponde ad una deontologia a mio avviso corretta, ma nel mio caso va a coincidere con un mio sintomo, quello della “gratuità”: non farsi pagare, o comunque ritenere trascurabile il problema del denaro.

Qualcosa sulla domanda di analisi. Mi devo ricordare che non c’è stata, apparentemente, una domanda di terapia. L’invio e la domanda vengono da una collega che è stata la sua donna amata e che realmente crede che solo un percorso di psicoterapia possa accompagnarlo ad una buona morte, anche se conosce bene l’orgoglio, quasi una saccenteria ostinata dell’amico. La domanda viene dunque dall’Altro; ma lui indubbiamente l’ha accettata, l’ha fatta propria. In che senso? Fino a che punto? Solo per compiacere l’amica o perché dalla sua disperazione interna silenziosa sale una domanda di aiuto? O perché vede lucidamente che nella terapia potrà definire uno spazio in cui sadicamente riversare sulla collega (io!) che presume (questa è la sua fantasia) di “curarlo”, la propria rabbia? Ci sarebbe anche da riprendere il tema, con il quale ha avviato la sua “presentazione”, della morte delle donne amate, madre e sorella minore, ma avremo modo di farlo.

P.S.: nel momento in cui, per scrivere queste pagine, rileggo gli appunti della prima seduta, sull’immagine di lui che mi apre la porta ben vestito, elegante, con la barba lunga, si sovrappone quella del personaggio chiave di Ordet 1, capolavoro di Dreyer, che ho rivisto di recente. Come mai? C’è in questa associazione un senso nascosto? Johannes (questo il nome del personaggio) è folle, reso folle, diremmo, dalla fede in Dio: ma sarà lui a compiere il miracolo finale. Un santo folle, un personaggio dostoevskiano forse. È questa la vera contraddizione che ho “visto” senza rendermene conto nel mio paziente, dietro la scissione tra l’immagine composta e il disgregarsi caotico nascosto? Rimane che io busso alla porta e lui mi apre, in questa prima seduta.

La narrazione della relazione sintomatica che ha legato me, nella posizione di analista, e lui, nella posizione di analizzante, sarà piuttosto complessa. C’è stato forse un periodo nel quale noi analisti abbiamo pensato alla scrittura di un “caso” in termini narrativi: il “caso” è un racconto, con la sua fabula e il suo intreccio, l’io narrato e l’io narrante, difficilmente districabili talora, ma non comunque al punto di non permettere la stesura del romanzo, con la sua unità. Oggi non è più così, perché l’universo dell’esperienza analitica è esploso e imploso al tempo stesso. È stato fatto notare d’altronde (da Heidegger) che la prima testimonianza sull’uso del greco analuein (da cui il freudiano analisi) è in Omero, quando descrive lo stratagemma di Penelope che “scioglie”, “disfa” di notte la tela che di giorno ha tessuto. Così’ è, credo, per noi analisti, che abbiamo sempre a che fare con fili e colori disfatti, con frammenti. Così è, in particolare, quando ci troviamo dinanzi ad una perversione, se è vero quello che Lacan insegna: che «ciò che il perverso mette in scena nel suo fantasma si presenta (…) come una sequenza di movie di pellicola cinematografica»2.

Ad accentuare questo carattere, inoltre, c’è il fatto che a narrare questo caso siamo due terapeute/analiste e che la prima parte del racconto riguarda Giovanni3, incontrato quando aveva 47 anni e morto dopo quasi due anni – ed è opera mia, (Paola Cecchetti); la seconda parte riguarda la sua compagna, entrata nella sua vita nel tempo della terapia, paziente di Giovanni per moltissimi anni e che, pochi mesi prima della morte di lui, farà una domanda di analisi e verrà inviata alla dottoressa Carmen Tagliaferri. Maria farà una seduta individuale e una di psicodramma analitico. La seconda parte di questo scritto, dunque, viene costruita da Carmen.

Sulla lettura lacaniana della perversione, tornerò dopo. Prendo però alla lettera quanto ho citato poco prima, e decido di raccontare la storia di Giovanni come attraverso una serie di movies che vanno ancora montati, non rispettando la sequenza temporale: una serie di trailers che hanno il compito di invogliare lo spettatore ad andare a vedere il film, ma che forse lo depistano anche.

Mi mostra la scintigrafia, uno scheletro con un buco al centro, e subito dopo racconta di una sua amica che gli scrive delle passeggiate in mezzo ai boschi, a lui che si sente, ed è, imprigionato nella casa. Sembra riversare l’aggressività che gli bolle dentro contro di me, e mi attacca perché nel momento in cui si è allontanato per andare al bagno, avrei detto che in questo modo smerdava me e il colloquio. Aggiunge: «È stata ingiusta anche quando ha parlato di nevrosi da destino, mentre si tratta, nel mio caso, di un’invalidità permanente». Una lezione, da parte di un “collega cognitivista” sui rischi di ogni interpretazione affrettata? Sembra che voglia mostrarmi il pannolone, ma si ferma e dice: «Sarebbe uno striptease dell’osceno!». In questa battuta mi sembra che sveli quello che era già nella radiografia che mi ha mostrato all’inizio della seduta: un interno senza parole legato ad un esterno inguardabile.

Un sogno di quando si è operato. «Ho la mia vecchia 500, rimessa a nuovo da me. Mi fermo in una piazzuola nella quale ci sono nomadi in movimento. C’è anche una 500 nuova, da cui prendo i pezzi e li monto su quella vecchia. Riprendo il viaggio. Ci sono tantissimi tornanti, e sono preoccupato perché c’è un grande nubifragio». Nella realtà, proprio in quel momento scoppia un temporale e lui commenta: sincronia! Risate. Riprende il sogno: «La mia preoccupazione è per quello che guida, di cui non mi fido, e per quello che sta dietro di me. Arriviamo. La situazione cambia. Ci sono strane persone vestite di nero in circolo, e io cammino in mezzo». Le sue associazioni: le amiche freudiane hanno interpretato i tornanti come le anse dell’intestino tolto chirurgicamente. Pensando a Jung, dice che questo sogno è un’istantanea, non è proiettato nel futuro. Io penso che la 500 sia la macchina che lui ha avuto in eredità dalla morte del padre e che ha rimesso a nuovo con grande abilità, pezzo per pezzo, come non è riuscito a fare, o non è stato possibile fare, con il suo corpo. Il camminare in mezzo a uomini vestiti di nero sembra prefigurare il proprio funerale, che lo attende al termine di un viaggio tormentato.

Mi accoglie con il sorriso. «Lei ama l’inconscio – dice -, io voglio parlarle dei fatti. Sono stato sabato in un brodo di solitudine». Sono questi “i fatti”? E cosa è il Reale?

«Lei crede nell’inconscio – dice – e questa volta le devo dare ragione. È venuta un’amica, che è stato il mio grande amore giovanile, e mentre cucinava mi ha raccontato il sogno che aveva fatto prima che mi ammalassi: un cagnolino con un tumore nella pancia, e lei gli dava dei calci nella pancia …». Nutrire e uccidere. Qual è il terribile segreto che gli intestini custodiscono?

«Mi definisce una struttura orale, perché fumo, bevo, amo baciare. Quando facevo l’amore ero molto attento alla mia compagna. Ma ora lei mi definisce una struttura anale, e questo mi fa solo arrabbiare, perché non è un passaggio voluto». Pongo il problema del destino: lo costruiamo o ci capita? «Come sessuologo so che il malato oncologico non ha più la libido. Non mi risulta. Farei l’amore tre volte al giorno». A questo punto si mette ad imitare il direttore di Anthea, che voleva convincerlo che il tumore è un male che ha nella testa. Con agilità e ironia imita il direttore e si definisce un istrione.

«Le mie feci sono liquide. Si mescolano con l’urina e arrivano fino alle scarpe. Mi devo cambiare tutto. Come faccio se non sono a casa? Jung – continua- sostiene che per vivere ci vogliono tre cose: affetto, lavoro e riconoscimento». Gli rimando che lui in questo momento fa il gioco delle tre carte. Ride e ci si ritrova.

«Ho passato il capodanno con l’ex paziente con la quale mi do del lei. Si è spogliata, l’ho baciata e dopo quattro anni ho risentito il piacere del contatto». La sua ex paziente andrà a vivere da lui, portandosi dietro il suo cane, malato. Questa presenza, anzi queste presenze renderanno più sopportabile la quotidianità e alimenteranno anche l’illusione di poter fare una vita “normale”, tra lei che la mattina andrà a lavorare e il delirio di una vita notturna consumata tra sigarette, alcool e giochi sessuali. “Vedo”, mentre scrivo queste righe, le collezioni di insetti diversi che decoravano le pareti della sua casa. Farfalle dai colori variopinti inchiodate con spilloni, testimonianze di desideri perversi e mortuari. Uccidere per conservare, la morte come unica modalità di conservazione della vita? È questo il Desiderio dell’Altro che gli è stato trasmesso dalla madre e che lo ha marchiato?

Ricoverato a medicina d’urgenza. Esce dall’ospedale e facciamo una seduta. Prende le foto di quando era piccolo con la sorella minore. La mamma bella, solare, il papà più grande di lei di 16 anni. Un uomo che poteva mettere paura. In realtà sua madre è stata una paziente psichiatrica. Suo padre, medico, era sposato con un’altra donna che lo lascerà vedovo. «Non ha voluto sposare mia madre –dice-, ma lei lo ricattava tentando il suicidio. La teneva buona con la morfina». Sua sorella, più piccola di due anni, è andata in coma epatico per l’abuso di alcool. Quando è morto il padre, la sorella, maggiorenne, si è appropriata di tutto il patrimonio. Il padre era un collezionista di quadri.

È nato di otto mesi. In ospedale c’era un’ostetrica che alla madre non piaceva, al punto che ha detto: «Preferisco farlo morire che farlo nascere con questa». Nel 1997 è stato operato al cuore per una cardiopatia degenerativa, nel 2001 di cancro.

Come detto in partenza, ho cercato, con dei flashes, di illuminare momenti significativi dell’esperienza, così come si sono presentati e come li ho vissuti di volta in volta. Se ora guardo indietro il percorso terapeutico fatto, credo che quelle intuizioni iniziali andrebbero trasformate in discorsi ampi e complessi. Mi appare più chiaro, innanzi tutto, il nesso tra la storia “intera” di Giovanni e l’esito tragico della sua vita. È come se i disastri del suo corpo (il cuore, l’intestino, l’intervento chirurgico disastroso) fossero rimbalzati all’indietro, in un effetto di “rinculo”, trascinando tutti i materiali della sua vita e portando in superficie quei nuclei perversi o comunque di sofferenza accumulati dalla primissima età.

Riprendiamoli, almeno in parte. L’infanzia di Giovanni può essere sintetizzata nell’immagine di un bambino che sta a guardare una madre che godeva sia nei tentativi di suicidio che nel farsi trovare “morta” sul pavimento al ritorno del figlio dalla scuola. Il padre, chirurgo, sadicamente spadroneggia su tutta la famiglia e la tiene in scacco. Giovanni è stato sempre picchiato dal padre. L’immagine che continuamente gli ritorna alla mente è quella di un corridoio lungo 12 metri in cui il padre lo insegue prendendolo a calci. Il padre chirurgo; un intervento chirurgico mal riuscito (?) lo ha ridotto all’impotenza. Il padre colleziona quadri, il figlio inchioda farfalle che colleziona. Possiamo intuire, in mancanza di dati, come l’adolescente abbia vissuto l’età del conflitto e della ribellione, ai limiti della devianza. Racconta che partecipava di notte a corse clandestine con scommesse. Forse è lì che inizia il suo viaggio nel mondo della dipendenza dal fumo e dall’alcool, dipendenza clamorosa ancora quando, adulto e malato, l’ho incontrato. Si è laureato in scienze biologiche, ma poi in psicologia. Perché? Forse è stato il tentativo di “rammendare” la sua vita così “sbrindellata”. Aveva trovato il modo, facendo il terapeuta, di raggiungere l’obiettivo ultimo del perverso, occuparsi dell’Altro per compensare, eliminare la mancanza? Il perverso – insegna Lacan – è colui che si consacra a otturare il buco nell’Altro.

Veniamo così al tema che dall’inizio si è presentato, quello della sessualità genitale così drammaticamente troncata dall’intervento chirurgico. La rabbia per una castrazione che da simbolica è divenuta reale, lo spinge sempre più a giochi perversi, al voyerismo, al piacere nello spogliare le donne desiderate con cui aveva una relazione, per riprenderle con una cinepresa. Qui apparentemente il piacere è nel guardare, ma in realtà si tratta di catturare lo sguardo dell’Altro, per castrarlo e godere nel vedere ciò che sfugge allo sguardo, quello che non si può vedere. Riprende con la telecamera, compulsivamente, il corpo erotizzato della donna, per cercare di cogliere l’impossibile, il luogo della mancanza fallica. La ricerca, la spia, l’insegue insistentemente con il proprio sguardo.

Torno a chiedermi, a questo punto, quale sia stato per lui – e per me – il senso di questa esperienza psicoterapeutica, sulla quale spesso Giovanni ha ironizzato o ha scaricato la propria aggressività. Ma l’ha portata avanti, fino alla fine. Una relazione analitica c‘è stata e lo ha spinto addirittura ad uscire di casa, con enorme fatica, e a venire nello mio studio fino alla vigilia della sua morte. Il lavoro degli ultimi tempi era molto centrato sui sogni, dai quali finalmente si potevano toccare, nel passaggio dal manifesto al latente, i nuclei profondi della sua angoscia. È qui che il nostro lavoro è divenuto autentica psicoanalisi?

Riporto uno di questi sogni: «Mi trovo di sera in un luogo aperto, illuminato da fiaccole. In mezzo a tanta gente che trascorre allegramente la serata, ballando e suonando, facendo l’amore. Io mi trovo insieme con la mia compagna, anche se non la vedo. La sensazione è quella di essere in un gruppo di sopravvissuti o in un gruppo tribale unito per difendersi da un altro gruppo. Ad un certo punto mi accorgo che c’è una regina della festa, distesa nuda e circondata da tanta gente. La guardo. È bella, penso, ma non come la mia compagna. Tuttavia sento il desiderio di fare l’amore con lei, ma le dico che non posso avere un rapporto sessuale completo. Lei risponde: “Sì, ma vorrei una contropartita. Voglio che tu mi faccia passare una bellissima serata”». Poi c’è la fine, nel sogno e nella realtà: «È notte, sono su una barca e mi sono allontanato dalla riva. Una voce mi chiama: Giovanni, Giovanni! …».

Come nelle scene più famose di Ordet.

 

Maria

«Se c’è una cosa che insegna Freud è l’importanza fondamentale della perversione nei gesti dell’amore»

 (J. Lacan, Lacan in Italia 1953-1978)

 

«Vado a casa dei miei genitori, è come se in questo sogno io ribaltassi la situazione e fossi io a scalzare i miei genitori da casa. Con me c’è Giovanni che lascio in una stanza a parlare con mia zia (materna) e mia madre. Incontro una ragazza con una bambina di circa 6 anni, so che è sua figlia. Mi accorgo che questa ragazza ha la pancia grossa, penso sia incinta, è una malattia mi dice lei. Addosso ha una maglietta trasparente come un velo, lascia vedere il seno, la pancia con un segno a sinistra, una ferita, un taglio i due lembi di carne non sono ben rimarginati, formano una piega con un piccolo nodo».

S/calzare l’altro è il progetto perversamente più calzante per lei?

Scalzare / essere scalzata, scavallare / essere scavallata sono significanti che torneranno più volte nella terapia di Maria, in particolare nelle sedute di psicodramma

Una pluralità di questioni si addensano nelle pieghe della vita di Maria. Come un piccolo nodo il sogno allo stesso tempo condensa, dispiega e annoda.  Siamo al terzo incontro. Maria è una giovane donna dall’aspetto dimesso, di(s)messo ogni tratto vitale, femminile … eppure, penso, sarebbe graziosa se … Il mio pensiero rimane sospeso come le parole con cui mi introduce al suo discorso Mi sono accaduti tanti avvenimenti è la frase di apertura del nostro primo incontro. Li enumera con frasi brevi che si troncano e rimangono in sospensione come in attesa di una risposta, come il suo sguardo tenacemente ancorato al mio. Ad agosto (siamo a febbraio), assieme al suo cane molto malato, ha lasciato la casa dei suoi genitori per andare a vivere con il proprio compagno, anche lui molto malato. Non ha portato altro con sé. Se n’è andata ad agosto quando i suoi genitori erano al mare per evitare di salutarli. Non si sono più rivisti, non sanno dove e con chi abita. Tra loro solo qualche rara, formale telefonata. Lei non dice, loro non chiedono, forse immaginano perché sanno che è in terapia da molti anni, tra alterne vicende una ventina almeno, il suo compagno è stato, è il suo terapeuta, lui sta morendo, lei ha bisogno di aiuto, perciò è qui.

Maria mi è stata inviata dalla psicoterapeuta del suo compagno.

Racconta: a 20 anni, la violenza dell’anoressia e dell’isolamento dal mondo la spinge a iniziare una psicoterapia. Si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza senza mai laurearsi, le mancano 8 esami e la tesi. Nel corso del tempo l’anoressia sarà più contenuta, mai del tutto risolta, ciò che ha sempre avvertito nel corso della sua terapia è stata l’angoscia di dissoluzione, grandi attacchi di panico che costringevano S a raggiungerla per strada e “scortarla” fino al punto da raggiungere. Un’escalation che a tratti si placava per riprendere poi con la stessa veemenza. Di che cosa doveva essere avvertita Maria? Di un desiderio, una domanda che non concerne alcun bisogno, qualcosa che, mettendola in questione, rischia di dissolverla, annullarla? Un desiderio che solleciti il suo perdersi affinché l’Altro vi si ritrovi? Ciò che le sfugge è che lei credendo di cercare il godimento dell’Altro, in verità cerca l’angoscia dell’Altro?

Dopo alcuni colloqui preliminari inizia una diadica, una seduta individuale e un gruppo di psicodramma

L’incipit della psicoterapia sembra essere la narrazione di un incontro amoroso o di erotomania «Lui mi è subito sembrato bellissimo … il volto … un Gesù dagli occhi azzurri, quello che si rappresenta nell’immagine del Sacro Cuore, da lui mi sono subito sentita accolta, capita … non so quando le cose hanno cominciato a cambiare, so che è accaduto» . Compare subito l’oggetto eletto del suo desiderio, il Sacro Cuore come la forma stessa dell’oggetto piccolo a che detta al desiderio la sua direzione erotica.

 

La storia familiare: Maria, è la primogenita di una coppia profondamente disprezzata, una coppia attaccante e da lei continuamente attaccata. Il padre, ora in pensione, è stato bidello di una scuola elementare. Lo descrive come un uomo manipolativo che ha costruito la propria piccola fortuna con il lavoro e piccoli imbrogli, nel suo discorso la madre sembra coincidere con il corpo discinto e le sue nudità, l’eccesso. È stata donna di servizio presso famiglie cui ha sempre sottratto ciò che era possibile sottrarre, Maria ha un fratello di 2 anni più giovane, sposato, con due bambine di 6 e 2 anni, anche con lui il rapporto è da sempre conflittuale. La sua infanzia è fatta di pochissimi ricordi, tanta solitudine e mortificazione : mamma che la puniva mettendola in ginocchio, spesso con le mani legate dietro la schiena, mamma che ritenendola troppo lenta la sollecitava con punture di spillo, in particolare il ricordo della puntura di spillo che la madre le faceva sul pollice affinché smettesse di succhiarlo (smetterà solo a 6 anni) diventerà, durante l’analisi, un sogno dove una vecchia amica di scuola le punge il capezzolo con un ago; campeggia sulla scena l’immagine del padre che la lega alla sedia, prende la rubrica e minaccia di chiamare le sue amichette di scuola affinché la vedano così, lei sperava che all’arrivo di mamma sarebbe stata liberata ma lei non solo derideva la bambina ma anche il marito incapace sia di ridurre la figlia all’obbedienza che di svegliarla. Maria porta con sé un corpo svilito e una psiche assediata dal trauma

Sembra evidente la forza dell’appello libidico della madre alle sollecitazioni erotiche della figlia. Appello che si organizza su una pluralità di registri, del dare a vedere, dare ad intendere, a toccare, a sentire…ma l’incitamento materno invita anche a farsi beffe dell’istanza paterna. Maria sembra essersi trovata stretta in un’alternativa irriducibile: tra una madre minacciante e interdittrice, e una madre seduttrice che incoraggia il godimento infantile facendosi beffe del significato strutturale della legge del padre. E così la sfida si farà tratto caratteristico della sua struttura, tratto che si alimenta dell’appello alla derisione. È significativo, a questo proposito il sogno fatto prima di lasciare la casa dei genitori per andare a vivere da Giovanni. «Ero accucciata al buio, angosciata, piena di paura nel lasciare la casa dei miei, mi mancavano i denti, avevo i capelli lunghi, mi pettinavo con la spazzola come se mi strappassi i capelli, mi vedevo brutta, nessuno si sarebbe avvicinato, nessuno mi avrebbe costretta a mettermi in piedi e poi vedevo la mano di Giovanni, era come una luce, la afferravo. Però la paura era il rovescio della medaglia di un desiderio». Associa al sogno una gita a Parigi con i compagni di liceo quando per far ridere tutti si vestì come una befana e andò per strada a chiedere l’elemosina avendo dentro una rabbia feroce. Il gioco è il giogo di Maria adolescente. Il suo perverso potere di seduzione nasce dalla fascinazione della subordinazione e della depravazione. Lei è allo stesso tempo osservatore e cronista che gode dello smarrimento perverso suo e dell’altro.

La vergogna fa la sua entrata sulla scena degli affetti a seguito dello scacco narcisistico che accompagna ogni atto diretto dal desiderio

Nell’orizzonte lacaniano la vergogna rappresenta il ritorno, nel campo percettivo, di un oggetto rimosso, rivela che il corpo è metafora del fallo, si copre di vergogna per il rifiuto, da parte dell’Altro, di riconoscerne il valore. La relazione con Giovanni, prima e durante la loro convivenza, è punteggiata dallo sguardo: specchi, macchine fotografiche, cinepresa, dopo la sua morte trova e visiona fotografie e riprese filmiche di ex fidanzate, lei immagina che alcune siano anche ex pazienti.

Della sua infanzia ricorda un solo gioco: da sola in camera, abbassa le serrande, spegne la luce, solo una lampada direzionata sulla Barbie, in quel cono di luce Barbie sogna e incontra il principe azzurro che la porterà lontano in un meraviglioso castello. Lei è una bambina di 9 anni, più tardi ormai adulta Maria diventerà “Magia” nome che, nell’intimità le darà Giovanni, il suo principe azzurro sia pure malato e incontinente. Su questo sfondo di incontinenza organica e pulsionale si ritaglia l’emozione, quasi una visione estatica, della nudità dei corpi al loro primo incontro in una notte di Capodanno. Le altre immagini saranno prive di questa luminosa idealità.

La convivenza di Maria e Giovanni inizia ad agosto, la sua analisi a febbraio, a luglio dello stesso anno Giovanni muore lasciandole in eredità la casa che, per pochi mesi hanno abitato insieme, scenario di una relazione terapeutica che si è, nel tempo, pervertita in una complicità sado-masochista in cui lei agiva i desideri sessuali di lui ma anche le proprie tendenze perverse, espressione «di un desiderio che non osa dire il suo nome… la perversione si situa al limite del registro del riconoscimento»4, una relazione in cui il desiderio non dipende dall’Altro, da un segno del suo riconoscimento ma da un oggetto asessuato, scorporato dal campo dell’Altro, l’oggetto non è più davanti ma dietro il desiderio5.

Esibisce, in analisi, un’immagine di sé svalutata e vinta. Nelle sedute individuali, in particolare, espone se stessa costringendo ad una complicità voyeuristica che non ammette sottrazioni. La dimensione anale è molto presente nei racconti e nei sogni, anche per la realtà dell’incontinenza di Giovanni.

Ma anche la dimensione sadica anale occupa un posto importante come una costante della vergogna originaria dove lei è ridotta al rango di spazzatura, oggetto di rifiuto e soggetto rifiutato dallo sguardo dell’altro, riflesso, nella realtà, della immaginaria dominazione anale del terapeuta – padrone. La vergogna – e sappiamo quanto la vergogna abbia bisogno di uno sguardo – si colloca nella giuntura fra paura e colpa. Ha paura e si sente colpevole di essere il fallo, ha paura e si sente colpevole di non esserlo. La casa ereditata diventa una cripta impossibile da lasciare e da tenere come impossibile è il lutto per la perdita del compagno. Per anni non andrà al cimitero, ci vorranno anni prima di cominciare a svuotare la casa di oggetti, vestiti, scritti, fotografie, cassette vhs … insegne tangibili di un passato che non si può tollerare che passi. Ci vorranno anni per accostare l’idea che la casa potrebbe essere venduta. Un sogno che «non ho raccontato al gruppo» dice l’intensità e la vischiosità di un transfert che sembra irrimediabilmente irrisolvibile. Nel sogno «c’era tantissima gente, io parlavo con lei che aveva un taglio tra il collo e il seno, era un solco profondo che mi faceva pensare alla diversità delle mie terapie, quella con Giovanni e quella con lei. Non posso entrare in una relazione affettiva non protetta con lei, nel sogno ascoltavo parole come fossero ossigeno». Il sogno sembra parlare del solco, della distanza, in realtà transferalmente trasporta la contiguità e la confusione, la profondità della sua domanda perché quel taglio è sul corpo di Giovanni, cicatrice non ben rimarginata, testimone di un importante operazione cardiaca

Lacan si spinge un poco oltre ciò che Freud scrive attorno al lutto come identificazione con l’oggetto perduto «Noi siamo in lutto per qualcuno di cui possiamo dire io ero la sua mancanza. Siamo in lutto per persone che abbiamo trattato non importa se bene o male e di fronte alle quali non sapevamo di assolvere la funzione di essere nel posto della loro mancanza»6. Compare la verità dell’aforisma per cui, in amore possiamo dare solo ciò che non abbiamo ma l’irriducibile misconoscimento della mancanza chiude Maria in una particolare economia del desiderio, nella rappresentazione di una mancanza non simbolizzabile che si traduce in una contestazione psichica inesauribile, confonde rinunciare al desiderio col rinunciare all’oggetto originario del proprio desiderio. Schiava di un’economia desiderante che la sfinisce nel dimostrare a contrario che la sola legge che riconosce al desiderio è la legge imperativa del suo proprio desiderio e non quella dell’altro condannandosi cosi a sopportare i tormenti generati dall’orrore della castrazione.

Maria aveva portato con sé il vecchio cane imponente e malato, curato con attenzione e dedizione, prima da Giovanni e poi da Maria, dopo circa un anno dalla scomparsa di Giovanni anche lui muore. Una cagnolina di piccola taglia entrerà in casa dopo alcuni anni, anche qui ci vorrà del tempo, ma un gioco in una seduta di psicodramma testimonia la possibilità di articolazione e raccordo all’altro, si può camminare modulando il proprio passo sul suo.

 

Vorrei soffermarmi su una seduta in gruppo in cui Maria parla con disappunto, di uno scossone ricevuto in una seduta individuale cui associa la necessità di trovare una nuova casa, qualche commento in gruppo attorno al ritornello che si ripete senza diventare frase definitiva, le fa ricordare quando rimase chiusa nella propria camera da letto, (lei è Giovanni hanno sempre dormito in camere separate). Una vite non ben avvitata cade, sente la maniglia cadere all’esterno, è intrappolata. In quello stesso periodo fa un sogno, non ricorda se prima o dopo l’episodio raccontato. «Sono in una stanza con mamma, lei mi dice che la porta è solida ma quando io metto la mano sul pannello si rompe, come la carta sughero che ricopre le pareti della stanza di Giovanni».

Si gioca l’episodio in cui rimane chiusa nella stanza.

«Avevo più volte riavvitato la vite. La porta si chiude e sento cadere la maniglia dall’altra parte, è una porta non troppo solida, piena di tarli come tanti mobili di casa, con le forbici faccio un buco, che mi importa, pendo, di queste cose vecchie, tarlate. Sono piena di rabbia per questa casa che tengo come una reliquia, brucerei tutto…comunque l’importante è che riesca a rientrare, ecco recupero la maniglia e rientro».

L’animatore rimanda quanto sia significante la frase «l’importante è che riesca a rientrare», i doppiaggi – «dico come rientro non come esco / c’è bisogno di uno scossone per far cadere il tarlo / potrei usare le forbici per tagliare non per bucare, rovinare» – la colpiscono e tornata al posto accenna ad una segnalazione di mamma, le ha parlato di una casetta liberty, quello stile non le dispiacerebbe, l’animatore sottolinea il significante Liberty.

Qualche mese prima aveva giocato un altro sogno in cui era alla finestra di fronte alla Bocca della Verità. Il resto diurno del sogno è rappresentato da un litigio con le colleghe di ufficio che le rimproverano la sua lentezza e confusione nel disbrigo di una pratica amministrativa che comporta la somma degli importi di rimozione. «Ti sei ingarellata» è la frase che la fa infuriare. Ci vorrà il gioco con tutte le sue scansioni e i doppiaggi per sfiorare la verità che non può uscire dalla bocca di essere e non solo essersi, nel passato, ingarellata.

Sul mio versante cosa può essere accaduto in questa analisi? La vergogna di un’analista troppo fallica per risuonare con un femminile apparentemente vinto e svilito? Momenti analitici in cui sai, senti di dover fronteggiare rabbia senza parole e senza rappresentazione, impotenza … stati troppo intensi da sopportare. L’infantile ci abita, senza sosta e senza cedimenti.

Ci vogliono anni di raccordo al simbolico della parola, articolata al terzo dell’analista, affinché il discorso si rielabori in un confronto con la legge del significante e non si sottoponga alla legge della forza insignificante, forza dell’imposizione e dell’impostura del padrone.

 

Paola Cecchetti

Psicoanalista, psicodrammatista, membro didatta e Presidente S.I.Ps.A., docente C.O.I.R.A.G

 

Carmen Tagliaferri

Psicoanalista, psicodrammatista, membro didatta SIPSA, docente e funzionaria C.O.I.R.A.G

 

Note

1.C. Th. Dreyer, Ordet (La parola), Danimarca, 1954

  1. J. Lacan, Il Seminario. Libro VI, p. 484
  2. “Giovanni” ovviamente non è il suo vero nome. Il riferimento a Ordet spiega forse il motivo della mia scelta.
  3. J. Lacan, Il Seminario. Libro I, p. 259
  4. J. Lacan, Il Seminario. Libro X, p. 110
  5. J. Lacan, ibidem, p.171

 

 

Bibliografia

Lacan J. (1953-1954), Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, Einaudi, Torino,1978

– (1958-1959), Il Seminario. Libro VI Il desiderio e la sua interpretazione, Einaudi, 2016

– (1953-1978), Lacan in Italia 1953-1978, La Salamandra, Milano 1978

– (1962-1963), Il Seminario. Libro X. L’angoscia, Einaudi, 2007

– (1972-1973), Il Seminario. Libro XX. Ancora, Einaudi, 2011

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