2017 ANGELO VILLA La parola placebo Sugli effetti perversi della retorica contemporanea

Cercare di comprendere il disagio sociale comporta sempre l’obbligo di non evitare di confrontarsi con il tema più scabroso e nefasto con il quale, in un modo o nell’altro, il disagio stesso si trova mischiato e confuso. È un argomento di cui ci si vorrebbe immediatamente sbarazzare, poiché è, probabilmente, tra tutti gli argomenti possibili, quello meno duttile e più imbarazzante: la violenza.

Essa alimenta un cortocircuito dal quale è difficile uscire e a cui, in definitiva, è impresa complessa riuscire a porvi un termine. Il disagio, infatti, tende a esprimersi sempre più attraverso forme radicali, e, quindi, ovviamente, violente; la risposta al disagio finisce per assumere, a sua volta, una configurazione violenta.

Un circuito vizioso dal quale risulta sempre più difficile uscire. La società contemporanea non sfugge a questa logica. Sicuramente, come altre epoche della storia umana. La violenza, piaccia o meno appartiene, del resto, alle vicende proprie del genere umano, da Caino e Abele in poi. Variano le manifestazioni, le occasioni, la misura, ma la violenza costituisce un elemento costante che segna e accompagna la vita degli individui, a qualsiasi latitudine del globo. È un’invariante che riappare in ogni variazione, mutamento del contesto sociale, spesso sino al punto d’esserne la levatrice.

Una simile considerazione, anzi, più veridicamente una simile banale constatazione non comporta l’accettazione rassegnata della violenza come fosse un dato naturale, incontestabile, ma, piuttosto, credo sia importante il riconoscere la portata drammatica che immette nell’esistenza individuale e collettiva. L’averne coscienza è una consapevolezza che si scontra con quella che è stata (e, talvolta, lo è ancora) la più generosa e ambiziosa delle utopie che l’uomo costantemente coltiva e che, di volta in volta, ripropone, quella cioè dell’eliminazione della violenza, dell’illusione della sua messa al bando.

La storia di quest’utopia è, in fondo, antica come la storia della violenza stessa. È, se vogliamo, una reazione a quest’ultima. A sua volta, è, di conseguenza, parte integrante della storia degli uomini come la storia della violenza, per quanto, come i fatti purtroppo dimostrano, abbia goduto di una fortuna decisamente inferiore.

Di quest’ultima storia, complessa e variegata, controversa e ambigua, ci interessa qui provare a isolare un aspetto particolare, a nostro parere alquanto significativo, poiché raccoglie o esaspera un tratto specifico del discorso contemporaneo. Un tratto, cioè, che ne marca l’identità, per lo meno nell’ambito della cosiddetta cultura occidentale, per come la stessa è andata man mano costituendosi negli ultimi decenni; un tratto, quindi, che non può non risultare contaminato dall’influenza che persino un certo uso spiccio, volgarizzato della psicoanalisi ha svolto in ambito sociale e, ahimè, terapeutico, mutando le tradizioni più consolidate e le ideologie più obsolete. In quanto tale, esso partecipa o rischia di partecipare di un’istanza perversa che risponde dell’etimologia latina del termine. Pervertire non implica il contrapporsi o il contestare, ma un’operazione ben più infida e sottile, quella cioè caratteristica del rendere corrotto, dello sconvolgere1. Quale rapporto mantiene tutto ciò con la violenza? E soprattutto, oggi, con una pratica o retorica discorsiva che pretenderebbe di sopprimerla?

Vediamo di circoscrivere con maggior precisione il nodo centrale del problema. La questione della violenza chiama in causa due considerazioni essenziali. Una prima di natura ontologica e riguarda quella che potremmo definire come la sua “sostanza”, termine che mettiamo, non a caso, tra virgolette, poiché alquanto inadeguato, improprio, ma che evidenziamo, in assenza di uno migliore, per tentare di indicare il “che cos’è” che la abita, la mantiene in esercizio. Una seconda considerazione è di natura etica o, per meglio dire, di natura possibilmente o tendenzialmente tale. Essa ci introduce a una dimensione poco o nulla lineare, quanto, tuttavia, indispensabile. Se la violenza nel suo emergere è palesemente distruttiva, annichilente, cioè mortifera, ciò significa che la negatività della violenza domanda, come suo correlato strutturale, un’istanza che, a sua volta, obbligatoriamente, la neghi. Una necessità inderogabile, per lo meno in linea di principio, affinché si conceda alla vita una possibilità per potersi mantenere. Dunque, letteralmente: una negatività che negativizzi la negatività della violenza. In teoria, la simbolizzazione è l’azione che dovrebbe promuovere questa medesima operazione. Il linguaggio ne costituisce il tramite insuperabile. A patto di non dimenticare che, innanzitutto, la parola è la morte della cosa, come scriveva Hegel, e che, dunque, la morte non corrisponde qui a un accadimento fatalistico, ma a un atto, non scontato o spontaneo. La citazione è ripresa, più volte, da Lacan medesimo, a partire dal suo scritto-manifesto Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi2, il quale si è a lungo soffermato su quel che ha denominato il trauma del linguaggio, il “troumatisme” che la comparsa della simbolizzazione genera nell’essere umano. Si tratta di due puntualizzazioni, quella di Hegel e quella di Lacan, di cui non si può ignorare l’importanza poiché mettono chiaramente in luce come l’assunzione del processo di simbolizzazione da parte di un individuo non sia né indolore né automatico. La rinuncia o la limitazione della violenza passa insomma per la via di una interiorizzazione della funzione simbolica che è tutt’altro che pacifica. Hegel scrive di “morte”, Lacan insiste su un termine non meno inquietante, quello di trauma. Perché parliamo, allora, di etica? In estrema sintesi, per due ragioni. La prima: se la violenza ha una “sostanza”, questa “sostanza” attiene la comparsa di un esserci potenzialmente e unilateralmente distruttivo che sollecita un’istanza che lo contenga, lo inibisca il più possibile. Detto altrimenti, un’istanza che cerchi di far passare questo eccesso di reale, nell’accezione lacaniana del termine, sotto il filtro di una castrazione umanizzante. La clinica contemporanea mostra, in maniera tragica, la portata pragmatica di una simile dimensione. Il deficit di simbolizzazione lascia adito all’agito, alle condotte più devastanti. Essa rileva di come l’inconscio appaia costretto a reperire nel corpo, nella sua materiale fisicità il suo luogo d’espressione elettiva, a svantaggio di quelle produzioni psichiche più elaborate (sogni, fantasie, sintomi …) che avevano accompagnato la nascita della psicoanalisi. Da qui il rapporto stretto che ne consegue tra corpo e violenza. Ora su di sé, ora sugli altri. Comportamenti sui quali la parola tradisce la sua palese impotenza. La seconda ragione è più sottile: il processo di simbolizzazione riguarda il modo in cui il linguaggio viene mobilitato nei riguardi di quel reale che si vorrebbe negativizzare. Ciò significa che, quanto meno, il modo interpella di conseguenza l’uso che ne viene fatto. Uno schematismo sin troppo azzardato potrebbe porre in una contrapposizione quasi manichea la simbolizzazione e, dunque, il linguaggio, da una parte, e la violenza con il suo reale in atto, dall’altra, ma, alla prova dei fatti, le cose non sono così semplici.

La simbolizzazione o, comunque, l’uso del linguaggio può imboccare strade diverse, sino a intrattenere un rapporto oscuro ed ambiguo con la violenza stessa.

L’etica si sviluppa e si articola in rapporto a un discorso del quale si può bene cogliere il rischio a cui necessariamente si sottopone, un rischio dal quale nessun discorso è mai totalmente esente, ancor più su una materia tanto delicata e sensibile come questa. La morale stessa costituisce un dubbio e, talvolta, un nefasto esempio di come l’etica possa essere stravolta, svuotata e ridicolizzata dal suo interno, e riproposta nel suo contrario. Come ciò che in nome di un consenso o di un ambiguo conformismo sociale finisce per opporsi all’etica medesima, alle sue esigenze normative e talvolta impopolari. A questo proposito, più nello specifico, un posto particolare ci sembra vada riservato alla logica perversa che assume un ruolo centrale nell’alterazione della struttura discorsiva, nella manomissione del suo senso intimo e quindi nella direzione che prende effettivamente poi il processo stesso di simbolizzazione. In che modo, in questo caso, la perversione vi gioca un ruolo?

 

Sul prezzo della parola

La difficoltà o, se vogliamo, lo scandalo che comporta l’affrontare il tema della violenza riguarda la stretta connessione che essa intrattiene con l’operazione che dovrebbe inibirla, sublimandola, ben prima che la stessa richieda una dose supplementare di violenza per azzerarla. O, quanto meno, imprigionarla o combatterla.

L’equivoco, a questo proposito, si lega a un fraintendimento della teoria psicoanalitica, la quale pone al centro della sua etica e della sua prassi la necessità di far in modo che la parola, cioè un simbolo, venga a prendere il posto dell’agito e, dunque, qui, della potenziale deriva violenta. È nota la battuta freudiana secondo la quale la civiltà sarebbe sorta quando gli esseri umani in luogo di lanciarsi frecce e accanirsi gli contro gli altri con armi contundenti hanno iniziato a insultarsi tra loro. Lanciando parole, anzi parolacce, al posto di oggetti distruttivi.

L’accento, tuttavia, giustamente posto sulla parola in quanto forma principe della simbolizzazione ha meno in ombra il costo psichico, libidico dell’operazione. Confondendo spesso quella che è la concreta posta in gioco del processo di simbolizzazione. Più precisamente: se la parola costituisce indubbiamente una simbolizzazione dell’essere umano, ciò non significa che qualsiasi simbolizzazione, ogni parola, in senso lato, rilevi di una simbolizzazione nell’accezione psicoanalitica del termine.

Per Freud, la simbolizzazione è l’equivalente di una castrazione, cioè è analoga, quasi fosse un sinonimo, al concetto di separazione. C’ è simbolizzazione, dunque, non semplicemente perché un individuo parla o chiacchera, ma perché la sua parola rappresenta un taglio e una perdita nei confronti di quel reale che manteneva il singolo incollato alle sensazioni del suo corpo. E, dietro ad esse, a quello del corpo con il quale ha sperimentato le sue prime soddisfazioni, quello materno.

La parola, come testimonia l’analizzante nel corso della sua cura, o, meglio, una parola non generica, una parola degna di questo nome, una parola piena, come la designava Lacan, scaturisce da una fatica, da un lavoro. Non è cioè una parola gratuita, ma, al contrario, è una parola pagata a caro prezzo. Nel caso opposto, è solo una parola tra le tante, magari prodotta da un sapere intellettuale, ma distante dalla realtà del paziente, dalla carne del suo godimento. Ma non è proprio qui, e non altrove, che la parola in quanto pagata, in quanto capace di sottrarre alla carne un suo eccesso di soddisfazione che essa rileva il suo fondo di verità, la sua credibilità? È, in quanto tale, dunque che la parola palesa la sua ambigua prossimità con quella stessa violenza che è invitata a contrastare se vuole promuovere un effetto di soggettività nell’essere umano?

La parola, in definitiva, come si sottolineava anche in precedenza, include a una separazione, una rottura.

È quel che fa della stessa un atto, cioè un’operazione simbolica, e non un’azione, più o meno, fisiologica dell’essere umano, quasi fosse analoga al camminare o al respirare.

Ora, è, invece, a questo riguardo indicativo considerare come la diffusione del linguaggio psicoanalitico e, più ancora, della sua traduzione in chiave psicologica sia corrisposto all’assegnazione di un ruolo prioritario alla parola nelle relazioni umane, a vari livelli. Un ruolo che, sul piano sociale, la parola era ben lungi dal possedere in epoche passate, più consone al silenzio e all’inibizione espressiva che non a un libero e disincantato accesso alla rappresentazione verbale. Il paradosso o, forse, la perversione di un simile esito è tuttavia stato quello di slegare la relazione che la parola intrattiene con il suo prezzo, e, conseguenzialmente, con il suo valore. E, in non ultima analisi, con quella violenza che è il costo che il singolo paga per la separazione da quella carne che congela il suo godimento, quella separazione che è l’unica operazione che legittima eticamente, prima che funzionalmente, l’accesso alla parola.

Se, quindi, il senso e l’origine della parola rinviano a un movimento disgiuntivo, la diffusione generalizzata della retorica della parola ha finito per stravolgerne la prospettiva, mutandone radicalmente la direzione.

Ponendo, in primo piano, l’illusoria utopia di uno stemperamento della problematicità che la parola crea, sino a veicolare l’idea suggestiva che tra la parola e la realtà sulla quale è chiamata a intervenire non ci fossero un baratro e un prezzo, ma una invisibile linea di continuità, tale da fare della parola un docile e duttile strumento di governo delle sensazioni e delle emozioni provate, così cancellando l’oscura memoria che accostava la rappresentazione verbale alla violenza. Senza accorgersi che liberata dal peso del suo costo era la parola che si liberava da sé stessa, da quel che è, in quanto atto soggettivo.

Se, quindi, pervertire vuol dire deviare, la deviazione tocca qui un punto chiave della nostra tesi.  Si è soliti ritenere che la perversione riguarda la messa in atto di condotte detestabili, ma essa, non di meno, attiene altresì il modo in cui si dispiega un’articolazione discorsiva, si enunciano affermazioni, si sostengono talune asserzioni. Lo scritto, ad esempio, che Lacan dedica alle singolari convergenze tra la costruzione normativa super-egoica di Kant e quella di Sade, un autore che dovrebbe incarnare la prospettiva opposta, sono in tal senso estremamente indicative. Per quanto suscettibili di una rilettura critica3.

La perversione che è in gioco nella dimensione discorsiva rileva anch’essa di un azione manipolatoria, come quelle effettuate nelle pratiche perverse. L’oggetto di tale manipolazione non sono, in questo caso, i corpi, ma la logica che presiede alla simbolizzazione, all’istituzione del senso. E, dunque, non tanto o non immediatamente la contrapposizione con la legge simbolica, quanto la manomissione del registro della verità.

Se, quindi, qui parliamo di perversione è perché la struttura stessa del processo che ne organizza la simbolizzazione a ritrovarsi alterato a partire dalla distorsione che lo stesso subisce in virtù della soppressione dell’ambiguità costitutiva che ne è alla base.  Il tema della violenza occupa in tutto questo una funzione cardine, insuperabile. Il tentativo di non riconoscere l’implicazione che la stessa intrattiene con quella simbolizzazione che dovrebbe costituire l’arma contro la violenza medesima introduce uno sfasamento discorsivo che in luogo di arginare una possibile deriva violenta, in realtà la esaspera. O ancora: la esaspera, la rende più accessibile alla violenza stessa proprio in quanto corrode sempre più il dispositivo simbolico, vanificandone progressivamente l’incidenza.

Proviamo, dunque, a mettere l’accento su due ambiti tematici nei confronti dei quali si è andata esercitando questo progressivo (e progressista?) svuotamento dal rapporto che gli stessi intrattengono con la violenza. La “liberazione” dalla violenza da cui sono impregnati tali ambiti è parte integrante di un programma che alla fin fine tradisce, volente o no, la sua vocazione obbligatoriamente pedagogica, per un verso, e la sua matrice fortemente ideologica, per un altro. Il primo ambito qui interpellato è quello della sessualità. Rifacendosi al linguaggio lacaniano potremmo definirlo come quello legato al registro del reale, nel senso più lato del termine. Il secondo è quello che tocca l’ordine del fondamento e, dunque, storicamente il discorso religioso, prototipo ante litteram del discorso del padrone.

 

Sulla sessualità

Partiamo da una considerazione largamente condivisibile, in pratica un’ovvietà. La sessualità è stata, sino a qualche decennio fa, il terreno sul quale la società ha esercitato maggiormente il suo controllo. In occidente, per la larga parte, la storia della sessualità è stata la storia della sua inibizione. Lo è stata sino al punto da proporre, a cominciare dal libertinismo settecentesco, un’utopia di liberazione, senza tenere conto della complessità della partita in gioco. Sia come sia, comunque, la sessualità è stata associata a un discorso normativo che, a causa della sua impronta decisamente repressiva, ne ha marcato lo sviluppo, in maniera indelebile. Se consideriamo la problematica propria alla violenza troviamo qui il primo riferimento essenziale, a riguardo. La sessualità soffriva a cause delle gabbie che il discorso comune, religioso ma non solo, vi imponeva.

Non a caso, la repressione della sessualità è stata vista come una delle cause originarie dell’umana infelicità: la possibilità di un accesso a una maggiore soddisfazione del proprio corpo era sbarrata da costruzioni sociali, impedimenti familiari e culturali e così via. Lo stesso Freud ha segnalato come la mancata possibilità per le donne di accedere a un’ampia conoscenza della vita sessuale comportasse un conseguente effetto di debilità, oltre al dispiegarsi di una florida sintomatologia.  La non conoscenza nient’affatto casuale della dinamica sessuale ha costituito in tal senso la prima forma di violenza a questo proposito, in quanto indice di una non possibilità d’accesso a un’economia di godimento umanizzante. Una violenza, se così possiamo dire, sull’oggetto, sessuale. La barriera posta nel singolo tra lui e la sua libido. Una violenza che sembrava reperire, ad esempio, il suo rovescio clinico nelle manifestazioni patologiche che affliggevano i pazienti dell’epoca eroica della psicoanalisi. L’educazione liberale (era poi realmente tale?) del piccolo è elogiata da Freud nella presentazione del caso clinico, per quanto la fobia che angoscia il bambino condiziona pesantemente la sua giovane vita. Ma, c’è di più.

La violenza che l’inibizione esercita sulla sessualità ha un nome. Si chiama ignoranza. Essa è il prodotto di una società sessuofobica, bigotta. Reprime l’accesso a un sapere sulla sessualità nella misura in cui ne teme la portata sovversiva. Cosa potrebbe accadere quando l’essere umano sarebbe finalmente consapevole di quel che succede al proprio corpo libidinizzinato? Travolto dall’entusiasmo per le sue scoperte iniziali, lo stesso Freud cedette alla tentazione di coltivare l’ingenua ambizione che la socializzazione delle conoscenza relative alla sessualità avrebbe prontamente apportato un sensibile miglioramento sul piano della sintomatologia, in generale. Un’opera di prevenzione che avrebbe scongiurato l’insorgere del malessere negli individui e nella collettività.  Un ideale, tutto sommato, illuminista. Il sapere, e non la verità, come accade nei discorsi religiosi, vi libererà. La luce della conoscenza scaccerà le tenebre oscurantiste dell’ignoranza, spazzerà via, una volta per tutte, gli ostacoli che impediscono l’accesso a una nitida visione delle cose. Un sogno di trasparenza, un’illusione di riconciliazione tra l’essere umano e le sue pulsioni, i suoi desideri, tanto seducente quanto estremamente improbabile, poiché si colloca proprio laddove lo scarto tra il primo e i secondi addita una divisione incolmabile. Il territorio psichico dove s’infrangono tutte le presuntuose volontà di padronanza che l’individuo cocciutamente conserva. Non a caso, fu, per primo, lo stesso Freud ad abbandonare il proposito di una prevenzione in grado di estirpare alla radice i mali della società.

L’ignoranza socialmente promossa dalla società ha, dunque, rappresentato la prima espressione della violenza nel contesto sessuale, quella violenza che il sapere ha cercato (e cerca) di sopprimere con gli strumenti a sua disposizione. Una violenza, come si è detto, sull’oggetto che, tuttavia, fa il paio con quella che è invece immanente all’oggetto stesso. Quella cioè che non riguarda l’interdizione di un rapporto (fecondo? soddisfacente? “positivo”?) con la sessualità, in virtù della consapevolezza (di cosa, poi?) del suo sintomatico funzionamento, ma quella che emana dall’esercizio della sessualità medesima. A più riprese, sin dai suoi esordi, la centratura posta sulla sessualità ha comportato nel medesimo tempo la messa in evidenza della sua portata decisamente traumatica. Ciò ha isolato la violenza che si associa alla sessualità, o, più esattamente, che emana dalla sessualità stessa, quasi confondendosi con essa. L’indagine dei fantasmi che gravano sulla psiche dei pazienti evidenzia in maniera impietosa quest’aspetto, a cominciare dall’ambiguità del fenomeno della seduzione. Per proseguire con la concezione sadica che il minore si fa del coito o, ancora, l’impatto sconcertante con la cosiddetta scena primaria e così via. Un eccesso di reale, per rifarsi alla terminologia lacaniana, sopraffà l’individuo, perché la sessualità lo mette in contatto con un piacere che esonda oltre il principio che dovrebbe regolarlo, sino a condurlo in un territorio inquietante, dove il piacere sembra destinato a stravolgersi nel suo opposto. Com’è noto, Ferenczi giungerà a teorizzare un contrasto tra due linguaggi emotivi, quello della passione, tipico dell’approccio sessuale e, dunque, dell’età adulta, a quello della tenerezza, caratteristico dell’infanzia. Ma, vera o falsa che sia la distinzione dello psicoanalista ungherese, il linguaggio della passione è altresì quello della violenza. Un linguaggio, non una parola, per riprendere la classica distinzione saussuriana, poiché è un linguaggio muto, senza la parola. Anzi, è un linguaggio che la rifugge.

Ecco, dunque, l’altro versante violento attraverso il quale il reale della sessualità fa capolino nell’umana esperienza.  La via attraverso la quale il godimento si manifesta nella sua forma meno controllabile, mostrando come la sessualità e la violenza possa facilmente condividere un comune terreno, partecipare di un’identica origine. È una considerazione che ci permette di ritornare alla prima forma di violenza poc’anzi richiamata, quella cioè inerente l’ignoranza. Se la sessualità intrattiene un rapporto con la violenza quale relazione hanno entrambe con l’ignoranza? L’interrogativo ci riporta, inevitabilmente, al tema della prevenzione o, comunque, più riduttivamente, alla possibilità di recidere il nodo morboso tra sessualità e violenza. Può, insomma, la conoscenza combattere non solo l’ignoranza, ma quella stessa violenza che dell’ignoranza (di cosa? Del godimento?) potrebbe essere uno dei suoi effetti? O, ancora: se l’associazione tra la sessualità e la violenza rende ragione di un linguaggio passionale può la parola dissolvere questo ambiguo e pernicioso legame?

Un immaginario, quello del tabù, ha offerto a tutto quel che di oscuro pareva velare e problematizzare la sessualità la sua forma compiuta, falsamente sintomatica. Poco distinguendo nella gerarchia e nel senso delle repressioni in atto, come invece fece a suo tempo Marcuse in Eros e civiltà, la retorica del tabù ha alimentato una concezione semplicistica della sessualità, quella che, per opposizione, indicava nelle differenti manifestazioni di simbolizzazione la strada per depurare la sessualità sia dal gravame dell’ignoranza che da quello della violenza. Il tabù crollava come un castello di sabbia, poiché il sapere, la parola l’avrebbero soppresso. Ora educando la sessualità, ora riconciliandola definitivamente con il piacere. Ciò che stava fuori dal discorso, una volta allargato il discorso stesso, vi veniva incluso, sia nel senso dell’educazione, ma sia soprattutto in quello di una riconosciuta compatibilità economica tra soddisfazione e piacere. Se qualcosa rimaneva ancora fuori, ciò avrebbe interessato tutt’al più il patologico, in quanto inaccessibile, in quanto separato, in definitiva, dalla sessualità stessa.

 

Sui fondamenti

La versione in chiave psicologica o, se vogliamo, la banalizzazione delle intuizioni psicoanalitiche è un fenomeno che non è considerabile unicamente in ragione di un uso disinvolto, superficiale dei concetti introdotti da Freud. Se, infatti, ciò può essere il risultato di un deprecabile saccheggio della teoria psicoanalitica, perpetrato senza particolari scrupoli in materia, occorre però prestare attenzione a come la contemporaneità ha spinto ben più in là l’intera posta in gioco. Sino, cioè, a fare di questo spiccio e idealistico psicologismo uno dei contenuti più pregnanti della sua ideologia dominante (occidentale), quella che tra le sue varianti più accreditate include la retorica del politicamente corretto.

La parola riconciliata con quel reale che le fa muro ha, in parallelo, avuto un suo riscontro con un’operazione analoga, ma svolta sul terreno opposto.  Se nel campo della sessualità, si è fatto di tutto per celebrare le nozze della parola con il godimento, educandolo, istruendolo, socializzandolo o, più semplicemente, legittimandolo di fatto, in quello proprio al simbolico si è cercato di rabbonirne l’incidenza.

Partendo, insomma, da due punti d’origine differenti, il reale, da una parte, e il simbolico, dall’altra, entrambe le traiettorie hanno converso in un’unica direzione.

L’emergenza del discorso psicologico come perno insostituibile dell’ideologia dominante è, infatti, cresciuta nell’esatta misura in cui andava progressivamente indebolendosi la referenza a discorsi ritenuti più “forti” o fondativi, quali quelli religiosi. Discorsi del Libro, se pensiamo alle tre religioni monoteistiche.

Nella loro valenza istitutiva e, poi, conseguenzialmente normativa, la Bibbia, o il cosiddetto Vecchio Testamento, i Vangeli, il Corano hanno posto, ciascuno a suo modo, per quanto piuttosto inanellati tra loro, i significanti in grado di offrire una direzione all’esistenza del credente. La via per sfuggire al peccato, la garanzia per accedere al regno dei cieli. Essi organizzano un discorso che è, per l’appunto, fondativo, in quanto pone i fondamenti che regolano un’esistenza, nella vita e oltre.

Un fondamento che non può, anch’esso, non intrattenere un necessario rapporto con la violenza, pena altrimenti la sua inconsistenza.  Una violenza che si ritrova a un duplice livello nei testi della tradizione monoteistica. È, per un verso, una violenza legata all’irruzione del messaggio divino, al potere con cui si manifesta la sua rivelazione, un trauma istituente (poiché pone un ordine) che possiamo associare a quello destituente della sessualità (poiché presentifica il caos delle sensazioni): l’Altro compare nella storia degli uomini, trasformandola. Per un altro verso, la storia di questa fondazione non è certo avara di episodi o richiami espliciti alla violenza, specie nel Vecchio Testamento e nel Corano. Può, d’altronde, esistere una fondazione che prescinda da un rapporto con la violenza?

I testi fondativi non hanno il pudore di rimuoverla o sminuirla. Come, insistiamo sul parallelismo, anche nel caso della sessualità, l’analisi dei testi propri del fondamentalismo ci porta a fare i conti con questo indissolubile intreccio tra rivelazione e violenza. L’accettazione del messaggio divino è una spada che recide i legami non solo con religione precedente, con i culti politeisti, ma, nel medesimo tempo, è anche un’esortazione a conquistare una dolorosa, sofferente autonomia nei riguardi di taluni costumi sociali e finanche nei confronti dei legami familiari. La fede è una decisione, poiché il riconoscimento del fondamento abbisogna che si rompano gli indugi, le incertezze, le ambiguità. Con altre idee, con altre concezioni della vita e del mondo, ma la questione non è di natura puramente intellettuale. Il verbo credere rende giustizia solo parzialmente di quel che l’aderire a una religione comporta. L’ebreo o il musulmano, ad esempio, paiono poco disposti a inoltrarsi in una speculazione metafisica sull’esistenza di Dio che appartiene maggiormente alla filosofia scolastica di matrice cattolica. Sia l’uno che l’altro paiono interessati a cogliere quello che Dio esige o ordina, concretamente, più che a sondarne l’ineffabile sostanza.

Ciò ci porta a dire come la credenza finisca per toccare un aspetto estremamente contingente e tangibile dell’umana esistenza. Essa non riguarda solo la fede in un al di là, ma comporta altresì l’incontro con una serie d’istanze normative che sono destinate a regolare o, comunque, a offrire una direzione alle pulsioni del singolo.  Ora pretendendole di sublimarle, ora legittimandole, ora sforzandosi di metterle al servizio dell’ideale, ora reprimendole e così via.

In ogni caso, pur tenuto delle divergenze tra le tre religioni monoteiste, la forma di enunciato che le caratterizza è di stampo assertivo. Sia in sé, in quanto rigetta la problematizzazione o il dubbio, sia in quanto giunge a divenirlo, come effetto della sua sacralizzazione. Critici letterari come Frye o Bloom o Meschonnic hanno più volte sottolineato lo stretto rapporto che la dimensione testuale e, per l’appunto, letteraria intrattiene con lo scritto religioso. La poeticità, il ritmo, la sua intraducibilità hanno consegnato alla narrazione religiosa un in più che privilegia ambiguamente e in maniera più che seduttiva il significante nei riguardi del significato. L’effetto di risonanza, la presa emotiva più che la speculazione del senso. Si tratta di un aspetto che inevitabilmente fa leva sul versante letterale del segno linguistico. Quello stesso versante che, nel mentre tocca e incanta l’inconscio del lettore, dall’ introduce gli enunciati più imbarazzanti e difficili da accettare per la coscienza laica occidentale contemporanea.  Una simile resistenza è quella che ha portato progressivamente a rivisitare i testi religiosi allo scopo, anche qui, di sgravarli di quella letteralità che, nella sua immediatezza, riproponeva un rapporto stretto, adialettico con un’enunciazione severa, tagliente. Si è, in tal senso, accordato al testo religioso una valenza metaforica, sino al punto da fare di questa valenza non un’interpretazione e un arricchimento della letteralità, come accadeva in tempi più lontani, ma una formula che si oppone alla letteralità. L’acrobazia semantica che ne deriva ne produce così un vero e proprio stravolgimento del senso originario o, comunque, di quello che, in prima battuta, appariva ricettivamente avvertibile. L’obiettivo dell’impresa è facilmente intuibile, o così ci pare. Eliminare qualsiasi traccia di violenza dalla figura dell’Altro divino, restituirlo alla fede come un oggetto a cui affidarsi pienamente, un oggetto totalmente buono, per rifare eco alla prosa kleiniana.

Formule ripetute da secoli, come nella più nota preghiera cristiana, il “Padre nostro” come “non ci indurre in tentazione”, vengono sostituite da espressioni di opposto tenore nelle quali non è Dio (confuso qui con Satana?) a promuovere il male, come potrebbe sussistere una tale incongruenza? Un’equivocità che ricorda quella dei celebri versetti satanici del Corano …  E ancora: il dio degli eserciti come può essere nel medesimo tempo quello della pace, quello degli ordini quello dell’amore e della misericordia …. La non solubilità della contraddizione divina impone una chiarificazione “interpretativa” che chiama in causa l’elisione del suo versante oscuro, poco o nulla rassicurante. Così ad esempio, giustamente Sibony rammenta come un termine chiave della retorica islamica come djiah significa nello stesso tempo sia sforzo interiore, come propongono le letture più illuminante, che guerra santa, come sono inclini a intendere i fondamentalisti4. Una posizione alquanto differente, per fare un altro esempio, da quella di una psicoanalista come Marie Balmary che, più modernamente invece, risolve a suo modo secondo una strategia alquanto riconciliante la spinosa questione del giudizio finale, togliendo così ad affetti quali la paura o l’angoscia la loro stessa ragion d’essere.  Senza poi chiedersi, alla fin fine, quale sia il senso di evocare un’idea, quale quella del giudizio finale, per poi svuotarla dal significato che le è tradizionalmente proprio, nullificandola, per ridurla a quello che non è. O, meglio, a smarrirne la specificità, facendo del giudizio un non giudizio, a che pro? Non era più corretto rigettarne l’idea stessa? Perché mai rovesciarla nel suo contrario, sarebbe questa la prova dell’audacia interpretativa? 5

Il tema del giudizio finale è, d’altronde, quello che al timore (o al terrore?) dell’Altro, inizio della sapienza, come recita il Liro dei Proverbi nell’Antico Testamento. E, di conseguenza, alla colpa, al peccato e a tutto quel che si porta appresso, quell’universo dai contorni tenebrosi che la coscienza moderna vuole allontanare da sé, come il retaggio di una fantasmagoria obsoleta, medioevale.

Il recupero, se così possiamo definirlo, in forma narcisisticamente compatibile dell’immagine divina, smussata in quelle asperità che la rendevano così indigesta alla sensibilità moderna procede di pari passo alla soppressione di quell’alterità che, lo si ricordi, costituiva il modello e il vertice inaccessibile di tutte quelle figurazioni umanizzate dell’alterità che ne discendevano a cascata, dalla donna allo straniero, al folle …

Una domanda, a questo punto, ci si impone: ma se Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, è possibile che l’uomo tenda a creare Dio a sua immagine, quanto meno storica? E, dunque, proseguiamo: è cancellando o riducendo a puro sembiante il riferimento all’Altro divino che il registro umano dell’alterità tende a svuotarsi, a perdere di consistenza sia tra gli esseri umani che nell’essere umano stesso?

 

Sull’alterità

Ricapitoliamo. Se la sessualità e la religione sono destinate a catalizzare l’espulsione di quella violenza cui sono intimamente legate, ciò riflette l’esigenza narcisistica che anima il ricorso illusorio alle supposte virtù taumaturgiche della parola. Tacitare o, immaginariamente, supporre di tacitare la violenza che abita il reale della sessualità e l’assertività della rivelazione divina implica il tentativo di abolire la cifra di alterità che le connota entrambe. Così riconducendo l’ambito dell’alterità a quello di una progressiva omogeneizzazione, luogo di varianti dai colori diversi, ma tutte più o meno speculari. È questa, in definitiva, l’esito dell’intera operazione di abolizione della violenza? Si colloca qui il cuore perverso di quest’operazione dal carattere così marcatamente ideologico?

Si tratta di un’iniziativa che, insistiamo su questo punto, mira a negare l’aspetto più peculiare della rappresentazione simbolica, cioè, lo ribadiamo, il suo iscriversi traumatico nell’umana esperienza. Un trauma che, di pari passo, non è del tutto secondario in relazione a quel che definiremo come un secondo trauma ad esso connesso, quello cioè della delusione. Se, infatti, l’accesso dell’essere umano al linguaggio si configura come una perdita di godimento, come una limitazione della libertà pulsionale, come un’adesione a un codice espressivo già determinato, l’acquisizione mai indolore e sempre lacunosa di questa restrizione si compendia con la scoperta che tale sacrificio non tutela, comunque, il singolo dall’impatto l’esperienza. Detto, cioè, in estrema sintesi: la parola, cioè quella dimensione simbolica così faticosamente fatta propria, non è onnipotente. Il costo dell’assunzione non ripaga il beneficiario da misurarsi poi con quanto la parola lo lascia indifeso, sprovveduto nei riguardi degli avvenimenti.  Un trauma secondo che spinge i reticenti al trattamento analitico ad affermare: “sì, ma a cosa serve parlare?”. Domanda non priva, in tutta onestà, di una sua indiscutibile ragion d’essere.

La recisione del rapporto tra la parola e la sua violenta traumaticità fa della parola stessa un orpello, un placebo, un “bla bla” dalla connotazione vuota, ridondante. Un effetto che si può facilmente rinvenire anche all’interno di una cura analitica quando il dire del terapeuta rinuncia alla sua incisività, si trasforma in un sapere elargito, ridondante, in larga parte risaputo dal paziente stesso. Ma, c’è di più. La negazione della relazione tra la parola e quella cifra traumatica che la specifica, come origine e come destino, fa della violenza un valore assoluto in negativo. Ciò significa che essa, la violenza, diventa l’ago della bilancia che discrimina eticamente un comportamento da un altro unicamente su questa base, così ignorando lo statuto di necessità che il ricorso alla violenza può esigenze. L’ipocrisia dell’abuso di tecniche o interventi “soft” (o, quanto meno, ritenuti tali), sia in contesti terapeutici che educativi, è spesso più brutalizzante, devastante di quelli esplicitamente violenti. Laddove infatti quest’ultimi potrebbero riassumersi in un’azione deprecabile, ma esaurita in sé stessa, i primi fanno prova della loro perversa e invasiva manipolazione, ovviamente perpetrata in nome del singolo su cui si esercita e, il più delle volte, camuffata sino a renderla poco o nulla riconoscibile nella sua dinamica generativa. La quotidianità, prima ancora che la clinica, forniscono numerosi esempi a riguardo. O, ancora, proiettata su una scena più ampia, più generale la storia umana rileva di queste tensioni violente, in cui si sovrappongono passioni incontrollate, furori degni di miglior causa, ambizioni sfrenate, umoralità variabili, ma anche esigenze di libertà, aneliti di giustizia, opposizioni all’arbitrio. Come scrive Freud in un passaggio delle sue Considerazioni attuali sulla guerra e la morte: «La storia primordiale dell’umanità è infatti piena di assassini. Ancor oggi quella che i nostri figli imparano a scuola come storia universale non è in realtà altro che una lunga serie di uccisioni fra i popoli». Nasconderlo significa ignorare la realtà dell’uomo, misconoscere la portata tragica, e non di meno assurda, dell’esistenza.  Ignorare o, come si tende non di rado a fare: ostracizzare la storia, come fosse un inutile reperto archeologico.

L’assolutizzazione della condanna della violenza vuole, invece, fare piazza pulita di tutto questo, come volesse infantilmente distogliere lo sguardo da una simile consapevolezza. Così togliendo, tuttavia, qualsiasi elemento di discrimine tra una disposizione e un’altra, come se parificasse il carnefice e la vittima, sostituendo così al rischio umanizzante della giustizia la sedicente certezza della bontà. Una riedizione di un fantasma naturalista “à la Rousseau” o, a seconda, libertino …

Ora, sia come sia, la messa fuori gioco del tema della violenza non solo consegna una visione falsa della realtà della vita umana, della sua complessità, del disagio che inevitabilmente connota l’essere al mondo individuale e collettivo, ma tende a sopprimere il rapporto con quella forza che è chiamata a sostiene la credibilità di un discorso, la sua perentorietà. L’impossibilità che accomuna i tre classici “mestieri” freudiani (educare, governare, analizzare) pone il limite cui soggiace la parola stessa, ma, proprio a partire da ciò, evidenzia implicitamente la condizione in base alla quale la parola può ambire a una sua efficacia.

Ciò non vuol dire ovviamente fare di una parola uno strumento di violenza, una parola mirata a ferire, ma sapere bene quel con cui una parola è sollecitata a misurarsi se vuol essere degna di questo nome.

Separare, in fondo, la parola da quella complessità, tutt’altro che pacificata e pacificante, con cui si trova intrecciata mira infatti a allentare un evento, una rappresentazione dal senso cui si lega. Come il senso venisse ad essere non solo depotenziato, ma tendenzialmente soppiantato dall’accadimento che pretende di riassumerlo ed esplicitarlo. È qui che l’alterazione perversa, il mutamento direzionale fa intendere la sua presa invalidante nella sua forma più destrutturante.

 

Sulla verità

La struttura che presiede al funzionamento discorsivo, per come proposta da Lacan6, suppone che la verità vi occupi un ruolo imprescindibile, quello di motore e causa del discorso medesimo. L’assenza del rimando alla verità corrisponde al venir meno del discorso, in quanto dispositivo in grado di rispondere di un legame, quello tra le parole e gli atti, tra le parole e il reale, tra le parole e gli individui. Senza verità, non c’è discorso alcuno. Ma, non è proprio nella messa fuori gioco del registro della verità che si palesa quell’azione perversa di cui si è detto? Una domanda che pone l’imprescindibile necessità di interrogare lo statuto stesso della verità, facendo eco al celebre interrogativo che uno scettico Ponzio Pilato indirizzava a Gesù e sul quale Nietzsche non ha mancato di ironizzare: «Cos’è la verità?» (Gv. 18,38).

In questo senso, si può considerare come il rigetto unilaterale della violenza nei termini che si sono detti conduce a cogliere la verità sul piano del visibile, del riscontrabile. O, quanto meno, dell’oggettivo o preteso tale. La verità della violenza si palesa dunque come dell’ordine di quel che non sembra o non vuole sottrarsi alla predilezione di uno sguardo. Fotografico o psicologico che sia. La sua identità poggia su un fattore essenziale ed esclusivo, quello cioè della corrispondenza tra l’enunciato e i fatti.  La rappresentazione, insomma, è ridotta ad essere un puro indicatore degli avvenimenti. A essa non rimane che il compito di rifletterli. Sono accaduti oppure no? C’è stata violenza o non c’è stata? La verità, in questo caso, è quella che appartiene al linguaggio giuridico o medico.

È un paradigma della verità che si oppone a quello più enigmatico proposto dalla religione o dalla psicoanalisi. L’assolutizzazione del riferimento alla violenza impone la dittatura dell’evidenza che si ritrova nei mass media, ma anche in altri autori (vedasi, ad esempio, Foucault), che tende a ricondurre il problema della rappresentazione nella verità al puro statuto linguistico del segno. E così a risolvere, nell’ottica del segno, l’intera problematica in questione.

Ma ridurre la verità a una mera corrispondenza tra la rappresentazione e gli eventi, in un’unica parola, ai “fatti” non è amputare la verità di una dimensione più ampia, quella che interpella il ruolo dell’Altro e soprattutto quello della soggettività?

Il discorso religioso, ad esempio, chiama una verità che rimanda al ruolo fondamentale che vi assicura colui che enuncia o vi è supposto enunciare, cioè Dio o i suoi profeti. L’accento non poggia più fatti, ma sull’Altro che occupa una posizione unica. È lui il garante della verità. Essa non si contrappone all’errore, ma all’infedeltà. Poiché alla fin fine la verità non è qualcosa che si conosce, perché è qualcosa che si fa. Più precisamente, non si conosce, perché è già data, cioè rivelata nelle sacre scritture. Ciò significa che il paradigma attraverso il quale la verità può essere colta non è quella del segno, ma quella della lettera.

Essa comporta un credere a cui la cultura occidentale guarda con estremo sospetto, spesso considerandolo, in maniera piuttosto superficiale, come una tra le maggiori cause della violenza. Una motivazione che punta a sostituire la religione inoppugnabile dei fatti a quella misteriosa e datata, grondante di pregiudizi e sangue, come quella dei testi. Senza rendersi più di tanto conto di quanto la religione dei fatti, la logica del segno finisca per inibire all’origine un possibile sviluppo della soggettività, non lasciando ad essa che la violenza, e dunque la pulsione di morte, come unica via d’uscita da un contesto che non permette soluzioni differenti.

La psicoanalisi, infine, pone un terzo modo attraverso il quale la verità può trovare spazio. Non quella dei fatti, né quella dell’Altro, ma quella in cui la soggettività può provare a dirsi, a farsi intendere. Una breve, ma intenso scritto freudiano del ’27 dal titolo La negazione, commentato dallo stesso Lacan7, può essere qui a riassumere in termini sintetici la questione. Paradossalmente in esso Freud si propone di dimostrare come il contenuto rimosso di una rappresentazione può penetrare nella coscienza alla sola condizione di lasciarsi negare. È il “non è mia madre”, enunciato dal paziente, in rapporto a una rappresentazione onirica che testimonia, invece, del suo contrario, cioè quel “è mia madre” che il paziente si ostina a rifiutare …  E così via. Detto altrimenti, la verità emerge come negazione della verità ed è, per l’appunto, proprio questa negazione, il suo “non è (mia madre)” a permettere il suo emergere, l’ “è (mia madre)”.

Ora, si colga lo spostamento di piano. La verità che qui viene messa in luce non si giova di alcun riferimento esterno: i fatti, i sacri testi. Essa ha un oggetto, ma è un oggetto psichico (pulsionale, fantasmatico) al quale si lega la verità del singolo, quella che è, forse, in larga estranea o non padroneggiata dal paziente medesimo. Un oggetto non “naturale”, poiché la sessualità non lo è, ma costruito attraverso il filtro della castrazione che l’individuo ha sperimentato.  Essa interpella una rimozione che comporta la perdita di quell’immediatezza e, di conseguenza, sul piano della rappresentazione, di quell’evidenza propria al segno. Dire che l’oggetto è, a suo modo, costruito significa che non è semplicemente negato, in nome dell’ideale, come nella prescrizione religione. Esso è prodotto nella dialettica con la rappresentazione e l’interdizione edipica che lo candida a essere “inventato”, ricercato nella produzione fantasmatica, nelle strategie del desiderio che ne derivano. È per questo che la verità dell’inconscio è sempre lì, vicina e inafferrabile, sottile e macroscopica, insieme. Il significante l’avvolge e ne è avvolto, mancando sempre il rapporto con una realtà che, poi, il significante stesso contribuisce a definire, a circoscrivere nell’esperienza di ciascuno. Il venir meno della castrazione è tuttavia l’esclusione della dinamica significante: è la condanna all’evidenza che sostituisce o s’integra con quella alla cieca credenza. Le due dimensioni che, attualmente, si coniugano con la violenza. La verità del significante è l’erede dell’incontro, mai sereno, con il limite e con il tentativo immaginario di aggirarlo fantasticamente, cioè, per l’appunto, via significante. La verità che ne risulta è il resto di quest’operazione, la dimostrazione dell’umana incompiutezza. Essa si situa sul bordo del dicibile, appare e scompare in funzione delle intermittenze che l’inconscio presenta. È una verità che circola nelle pieghe della parola, velata e non svelata come i fatti o rivelata come nei libri religiosi. Il significante, nell’accezione lacaniana del termine, è la forma che è propria alla rappresentazione. Non il segno, dunque, né la lettera. Ne riprendiamo la formula classica: un significante è ciò che rappresenta un soggetto per un altro significante. Una rappresentazione, insomma, rinvia a un’altra, istituendo una catena. La nascita della psicoanalisi, a partire dall’approccio freudiano all’isteria, scaturisce proprio da questa rivoluzione. Aver posto al suo centro una politica volta a mettere in valore la logica del significante contro l’evidenza del segno o l’ossessione della letteralità che non concedevano alla soggettività alcuna opportunità per farsi strada.  L’agito violento non è, del resto, la prova ineludibile dell’inoperatività del significante, la testimonianza cruda dello scacco di quella semplificazione banalizzante e perversa che faceva della parola non un passaggio obbligato (e, ahimè, doloroso) di entrata nella simbolizzazione e in quel che Freud chiamava, giustamente, il disagio della civiltà? E, l’agito stesso non è forse un implicito rimprovero a una parola non giunta, a una parola ridotta, come avrebbe detto Rosenzweig, a “rumore fumo”, che per ipocrisia o per quieto vivere o, peggio ancora, per suggestione ideologica ha rinunciato a misurarsi con quel reale che è la ragione stessa della sua funzione? Provando, per quel che può, a tacitare il rumore, a dissolvere …

Dice bene Montale: «Le parole/ dopo un’eterna attesa/rinunziano alla speranza/ di essere pronunziate/ una volta per tutte/ e poi morire/ con chi le ha possedute»8.

Angelo Villa
Psicoanalista, membro ALI-Psi, docente Irpa

 

NOTE

  1. Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 1985, vol. 4, p.913
  2. In Jacques Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, vol. 1, pp. 230-316
  3. Di fatto, esse riprendono il noto testo di Adorno e Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo. Per una lettura critica delle tesi dei filosofi “francofortesi”, vedasi Susan Neiman, In cielo come in terra. Storia filosofica del male, Laterza, Bari, 2011, p. 182 e ssgg.
  4. Daniel Sibony, Islam, phobie, culpabilité, Odile Jacob, Paris, 2013, p. 42
  5. Vedasi Marie Balmary, Daniel Marguerat, Nous irons tous au paradis. Le Jugement dernier en question, Albin Michel, Paris 2012
  6. Vedasi, in proposito, Jacques Lacan, Il Seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi. 1969-1970, Einaudi, Torino, 2001, in particolare: Produzione dei quattro discorsi, pp. 3 – 23
  7. Jacques Lacan, Risposta al commento di Jean Hyppolite sulla «Verneinung» di Freud, in Scritti, op. cit., vol. 1, pp. 373-390
  8. Eugenio Montale, Le parole, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1984, p. 374
image_print

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *