«La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo
perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno
strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza»
Adriano Olivetti
[Carla] «Ho sempre lavorato con passione e dedizione, perché per me il lavoro significava tutto, era la mia possibilità di realizzazione e di affermazione. Sono venti anni che lavoro senza un minimo riconoscimento, nessuno si accorge di tutto il lavoro che faccio e della qualità con cui lo svolgo, nessuno si preoccupa di me, dei miei desideri e delle mie aspirazioni. Neanche la pacca sulle spalle qui. Io non ce la faccio più. …. Qualche volta ho provato a chiedere un incontro con il mio capo, ma nessun risultato. La risposta era sempre la stessa “non è il momento giusto” oppure “ti lamenti sempre” oppure “ringrazia per ciò che hai” …ed intanto altri andavano avanti … Sono sempre nervosa o mi sento depressa, ho perso l’entusiasmo, la gioia di venire al lavoro e mi sento come se in parte avessi perso anche una parte importante di me stessa, la parte di me che sognava di diventare qualcuno, di affermarsi almeno al lavoro, di poter incidere nella società con il mio operato».[Isa] «Beh, sono sempre stata una persona sicura di me e del mio valore professionale. Ho scelto il mio percorso con costante consapevolezza, certa di costruire un percorso in linea con le mie aspettative professionali, che non nascondo essere state in passato molto ambiziose. Mi sono dedicata al lavoro tanto, ma sempre senza pentirmene ed anche purtroppo influendo negativamente sulla vita privata. Dodici anni fa ho deciso di lasciare il lavoro che avevo per accettare questa nuova sfida. E a me le sfide sono sempre piaciute. Qui avrei portato a compimento il mio sogno di realizzazione personale e professionale. Così credevo fortemente … Purtroppo oggi – con il senno di poi – le dico di aver sovrastimato e idealizzato questa opportunità. Per la prima volta sento di vivere un vero e proprio fallimento, soprattutto personale. Sono ancora qui al lavoro solo e soltanto per il bisogno di uno stipendio … ho una figlia da mantenere! Mi ritrovo in un ufficio in cui non mi riconosco e non mi riconoscono, senza un ruolo, senza attività definite, chiare. A volte non so neanche dove sedermi quando arrivo in ufficio! Ogni mattina arriva un collega qualunque e diverso e mi dice “oggi fai questo …”, senza spiegarmi perché e come. Faccio domande, non ricevo risposte. Svolgo l’attività al meglio che posso – non conoscendo ciò di cui si tratta – e ricevo feedback negativi senza spiegazioni. Così ogni giorno … da ormai troppo tempo. Mi sento svuotata e stanca di lottare da sola. Non so quanto posso resistere così …»
[Ilaria] «Da sempre mi trattano come se fossi una scema! Non sono mica incapace di intendere e volere. I colleghi mi rimproverano apertamente davanti ad altri colleghi ed anche davanti ai responsabili. E nessuno dice niente! Nessuno ha mai detto niente. Io qualche volta sono riuscita a rispondere a tono, ma molte altre scappavo via e andavo a piangere. Piangere disperatamente, chiedendomi il perché di questo atteggiamento. Sono sempre stata cordiale, disponibile, accomodante. Ho aiutato sempre tutti, quando potevo facevo il lavoro per gli altri … Beh sa queste cose in ufficio capitano! C’è sempre il collega o la collega che quel giorno ha bisogno di scappare perché ha un impegno urgente ed allora io mi proponevo di finire il suo lavoro per evitare poi fastidi con il capo. Ma purtroppo non è successo con me. Neanche quando iniziavo a non sentirmi molto bene al lavoro, mi capitava di non riuscire ad essere più tanto concentrata e mi stancavo molto più velocemente. Da lì a breve la notizia del cancro. Sono stati mesi difficili, molto difficili. Lontana dall’ufficio, malgrado tutto, mi sentivo male. Avevo bisogno di avere il mio spazio, la mia postazione, il mio tempo. Si mi mancavano le relazioni, le risate ed i caffè alla macchinetta con i colleghi, ma era pur sempre tempo per me. Al rientro dalla malattia credevo che le cose migliorassero, ma le mie condizioni comunque non ottimali e la riabilitazione che ha richiesto più tempo del previsto, sono state le condizioni per far sì che – ancor più di prima – colleghi e responsabili non mi coinvolgessero nelle attività, nei progetti, nella quotidianità al lavoro. E neanche le schermaglie e le ripicche sono finite! Quando provo a parlare di questo loro sono bravi a dirmi “ma noi lo facciamo per preservare la tua salute, per non farti stancare e stressare. È grave quello che ti è successo, non vogliamo essere responsabili di nuove malattie”. Inutile dirle che, malgrado io abbia detto loro che questo senso di inutilità e frustrazione mi fa stare anche peggio, le risposte e le azioni non ci sono state e non ci sono. Dottoressa … mi hanno fatto molto male e ancora me ne stanno facendo, ma io sono forte. Sono più forte di loro (con un accenno di sorriso) …».
[Aldo] «Stento ancora a crederci. Trentacinque anni in questa Azienda, in questa unità. Sono ben voluto da tutti, ho sempre rispettato tutti e fatto quello che mi veniva chiesto di fare…anche attività che non erano di mia competenza. Sono una persona solare ed ottimista, ho sempre una parola di conforto per i miei colleghi che mi vedono come un punto di riferimento. Poi all’improvviso ricevo la notizia, così…senza preavviso! Lettera di licenziamento! Saluti e grazie. Capisco i problemi dell’Azienda e di questa Unità in particolare, ma potevamo parlarne. Non voglio credere che non ci fossero alternative, dopo tutto quello che ho fatto per questa azienda! È uno shock, è uno shock! Cosa faccio io adesso?! Che umiliazione è questa?!»
Queste sono solo alcune delle innumerevoli storie che ho avuto modo di ascoltare durante le mie attività di consulenza organizzativa. Si tratta di storie di impiegati, di manager, di uomini, di donne, di padri, di madri, di mariti, di mogli … Si tratta di storie di individui appassionati e dediti al lavoro che hanno visto infrangersi i propri sogni, le proprie identità ed in più di qualche caso i propri corpi.
Ascoltare e incontrare queste storie oggi, in questa forma così estrema e dolorosa, risulta quasi assurdo, impossibile, anacronistico rispetto all’attualità del management organizzativo che vede una riscoperta ed un investimento sempre maggiori in tema di salute, benessere, wellbeing management, felicità, riduzione dello stress, valorizzazione delle soft skills, agile e smart working. Tante belle ed altisonanti parole queste, tante nuove professioni emergenti, tanti nuovi corsi e master, tante nuove iniziative e proposte di sensibilizzazione ed ascolto organizzativo. Tante, tante, tante … ma la realtà? La realtà forse ci racconta che è ancora significativamente alto il livello di comprensione e gestione delle dinamiche individuo-organizzazione-benessere-salute da doversi e potersi attuare.
Quasi tutte le persone che ho incontrato nel corso della mia esperienza in ambito Risorse Umane, alle domande «Cosa è per te il lavoro? Che significa il lavoro per te? Cosa rappresenta per te la possibilità di lavorare? Che immagine/i associ al lavoro? Perché è importante per te il lavoro?» hanno risposto, secondo macro categorie, «La possibilità di realizzarmi e migliorarmi; un desiderio ed una speranza di miglioramento personale; poter realizzare il mio sogno di bambino; dimostrare alla mia famiglia che ce l’ho fatta e che valgo qualcosa anche io; la possibilità di socializzare; poter fare ciò per cui ho studiato e ripagare la famiglia degli sforzi che hanno fatto per permettermelo; la possibilità di poter contribuire a migliorare la società ed il mondo in cui viviamo; per far sì che rimanga qualcosa di me anche quando non ci sarò più; per rendere orgogliosa la mia famiglia; la possibilità di poter accrescere costantemente le mie conoscenze; per dare un significato ed uno scopo alla mia vita; la possibilità di crearmi un futuro stabile…».
Al di là dell’analisi di contenuto e senso di ogni affermazione, è interessante notare come le connessioni individuo-lavoro si sviluppino lungo le dimensioni di Identità – Significato – Relazioni – Speranza – Empowerment – Responsabilità piuttosto che su Regole – Processi – Procedure – Ruoli – Dovere – Struttura. Il lavoro assume forme che possono – a volte – coincidere con l’essenza stessa della vita. Il rapporto individuo – lavoro si fonda allora sul desiderio di accrescere la sicurezza in se stessi e fortificare quindi l’autostima, la fiducia di sè e le relazioni al fine di produrre “cose” utili a proteggersi dai giudizi altrui e dalle insicurezze del futuro. Il lavoro ha – in questa ottica – il magico potere di trasformare la vita e di eliminarne criticità ed insicurezze, diventa una “utopia illusoria”, per citare A. Gorz1 o una “energia libidica” come afferma Freud2. Il lavoro si trasforma in bisogno/i specie – specifico/i differenti da individuo a individuo, che si tenderà a voler soddisfare una volta entrati nel sistema organizzazione.
Possiamo sintetizzare e riconoscere quindi le cinque funzioni – oltre quella economica – che svolge il lavoro, secondo la classificazione di M. Jahoda:
- Struttura ed organizza il tempo vita
- Permette e facilita i contatti sociali
- Contribuisce alla creazione di un ruolo sociale e dell’identità
- Favorisce un possibile scopo nella vita
- Mantiene in attività rafforzando le capacità fisiche e mentali
Contribuisce a determinare e favorire il raggiungimento di un maggiore stato di salute e benessere dell’individuo all’interno dell’organizzazione e di un miglior livello di integrazione tra i due sistemi.
Ma come si integrano “senso del lavoro” e “dinamiche del lavoro”? Ognuno arriva in Azienda carico di aspettative, sogni e desideri legati e derivati dal personale significato attribuito al lavoro. E per realizzarli è disposto ad investire molto sia in termini di tempo sia in termini di emozioni, relazioni, studio e conoscenza. Si trova a confrontarsi con un’organizzazione da conoscere, processi, procedure, organigrammi. Il lavoro è spesso caratterizzato da obiettivi a volte molto sfidanti da raggiungere, infinita serie di mail da leggere e a cui rispondere in tempi ristretti, meeting e riunioni, progetti da definire, avviare e gestire. E poi la gestione dei rapporti con i colleghi, la competizione, i conflitti da gestire, le incomprensioni con il capo. Il tempo per un feedback individuale strutturato scarseggia, promozioni, riconoscimenti e sviluppo lenti o assenti. Il multitasking è d’obbligo. In alcuni casi tecnologie obsolete che rallentano il lavoro, spazi e locali inadeguati, procedure e processi non al passo con i tempi, scarse iniziative formative e/o di sviluppo personale, poca attenzione al clima ed alla cultura interna. Questo e molto altro ancora per otto ore al dì (di media), per – almeno – cinque giorni su sette, per … quanti anni? Il contesto lavorativo attuale che è sempre più digital, smart, agile e flessibile, contribuisce ancor di più a rendere sfumati i confini tra il professionale ed il privato con il rischio che il lavoro interessi anche gli spazi di interesse per altre attività.
Il lavoro smuove in noi delle emozioni ed il modo in cui ci fa sentire, lo affrontiamo e gestiamo è determinante per noi, per chi ci sta attorno e per la produttività dell’azienda in cui si lavora. Se all’inizio le emozioni sono legate alla sfera dell’entusiasmo, della curiosità, della novità, dell’accettazione legata ad “un ritorno in futuro”, del “è giusto sia così, devo farmi conoscere” – e ci permettono di performare adeguatamente e riuscire a reggere anche livelli di stress molto alti – con il passare del tempo queste emozioni possono confluire nella sfera della irritabilità, noia, frustrazione, invidia, sofferenza e causare abbassamento della qualità delle performance, demotivazione, stress, abbassamento del livello di concentrazione, burn-out. E questo accade soprattutto quando si inizia ad avvertire una sorta di infelicità, ci si sente provati fisicamente, sopraffatti ed inadeguati alle richieste del lavoro, ansiosi e stressati, insoddisfatti. Ma “non si riesce a frenare o reagire” a questo flusso perché significherebbe fallire nell’impegno con se stessi, essere giudicati e visti come perdenti, essere considerati dei deboli; significherebbe azionare un meccanismo di dialogo con se stessi, di sviluppo di consapevolezza e soprattutto di compiere delle scelte. E questo ci costa molta fatica, molta più di quanto si possa immaginare. E allora spesso è preferibile continuare a vivere in una dimensione traumatica, piuttosto che vedere la realtà ed agire di conseguenza assumendosene le responsabilità. L’autoconsapevolezza, una forte motivazione, e le azioni concrete sono la base della costruzione della resilienza, la fondamentale capacità che ci permette di essere agili e flessibili, di identificare e risolvere i problemi, di accettare i feedback critici degli altri, di modificare abitudini disfunzionali e di accettare il cambiamento. Come disse Aristotele: “il coraggio è la prima delle virtù umane perché rende possibili tutte le altre»; c’è il coraggio alla base della resilienza, è questa la virtù che ci permette di identificare un obiettivo, di agire per raggiungerlo e sopportare il vissuto di paura che fa parte del processo.
Parlando di lavoro ed organizzazioni è necessario considerare la complessità del rapporto tridimensionale che coinvolge: contesto sociale (nello specifico si fa riferimento al nuovo mercato del lavoro ed alle nuove normative in materia), organizzazione ed individuo quali attori principali e determinanti lo stato di benessere organizzativo ed individuale. Con benessere organizzativo si intende “La capacità di un’organizzazione di promuovere e di mantenere il più alto grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori in ogni tipo di occupazione»3, mentre possiamo definire il benessere individuale come “lo stato dinamico nel quale l’individuo è in grado di sviluppare il proprio potenziale, di lavorare in modo produttivo e creativo, di costruire con gli altri relazioni forti e positive, di contribuire alla propria comunità»4. Quando un individuo percepisce di non riuscire più ad avere controllo e coinvolgimento in ciò che fa e l’organizzazione non è più in grado di fornire e garantire un supporto, può subentrare una forma di disagio che – se ripetuto e continuativo – diventa un vero e proprio trauma.
L’attenzione delle organizzazioni allo studio delle determinanti della “salute al lavoro” (intesa come insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la convivenza nei cotesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando il benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative) si sviluppa a partire dagli inizi del ventesimo secolo e con la nascita del movimento delle Relazioni Umane di Mayo – nel 1933, si osserva il suo definitivo consolidamento dell’importanza del “fattore umano”. Si inizia a fare attenzione a quelli che possono essere gli effetti ed i danni della routine, della dequalificazione, della non comunicazione, della demotivazione, sul benessere dei lavoratori. L’interesse si sposta significativamente dai soli fattori fisici ed ergonomici di salute e sicurezza a quelli anche mentali, psichici, di wellness e health promotion. Fine anni ’80 inizi 2000 si iniziano ad evidenziare gli stretti legami tra i costrutti i salute, stile di vita e sicurezza; in particolare Patt (2000) parla proprio della necessità di creare una vera e propria cultura della salute nelle organizzazioni fondata su elementi specifici quali: comunicazione, empowerment e work – life balance.
Nel 1986 Rosen pone all’attenzione gli aspetti quali clima e cultura come fondamentali per la salute organizzativa e nel 1990 Raymond, Wood e Patrick introducono il termine Occupational, Health Psychology (OHP) che applica la psicologia nei setting organizzativi. Nel loro pensiero c’era l’idea che un ambiente di lavoro sano è caratterizzato da: alta produttività, soddisfazione del lavoratore, sicurezza, poco assenteismo, basso turnover e assenza di violenza.
Una seconda ricerca degli autori coinvolge anche una prospettiva di analisi organizzativa orientata nel lungo termine. Una organizzazione sana è anche una organizzazione che sa crescere e svilupparsi riuscendo a gestire e tenere sotto controllo quelli che sono indici di possibile malessere organizzativo: calo dei profitti, calo della produttività, stress, assenteismo. L’organizzazione dovrebbe essere quanto più “accogliente” per il dipendente, un luogo dove poter comunicare apertamente e senza riserve, che faccia sentire coinvolti nel lavoro e nelle decisioni da prendere.
Le prospettive di studio e di ricerca sul tema della salute organizzativa sono state molte (per gli approfondimenti si rimanda alla letteratura di riferimento).
A titolo divulgativo riporto i risultati di alcune delle principali ricerche effettuale. Nel 1994 Williams propone la “griglia di salute organizzativa”, una struttura a più livelli rappresentati da:
- Fattori ambientali: ad esempio rumore, temperatura, spazi, luminosità)
- Fattori fisici: ad esempio alimentazione, sport e movimento, salute e malattie)
- Fattori mentali: ad esempio autostima, stress, depressione, trauma, ansia)
- Fattori sociali: ad esempio relazioni, interessi personali
I fattori sono disposti in ordine gerarchico, il livello più alto è soddisfatto se è stato soddisfatto quello precedente.
Nel 1995 Jaffe sottolinea il carattere interdisciplinare del tema ed individua quattro prospettive principali di ricerca.
- La prospettiva dello stress da lavoro e burn out: l’attenzione è focalizzata sul come la persona riesca o meno a gestire ed affrontare situazioni stressanti e su come l’ambiente di lavoro può provocare o allievare stati di disagio e pressione. Questi ultimi risultano essere i principali responsabili di stress, malattia, traumi ed esaurimento. Nel caso del burn out l’attenzione è rivolta a come le persone reagiscono e rispondono ad ambienti di lavoro stressanti caratterizzati da numerosi contatti interpersonali. Il burn out è oggi un fenomeno riconducibile a tutti i contesti professionali e non più solo circoscritto alle professioni di aiuto (Borgogni, Consiglio, 2004). E variabili implicate nell’analisi del job burn out sono riconducibili alle dimensioni dell’energy (quanta energia investo nel lavoro), dell’involment (quanto sono emozionalmente coinvolto) e dell’efficacy (quanto mi sento efficace nel mio lavoro). Gli indicatori sono misurati con il MBI-GS uno strumento di rilevazione del burn out che indaga anche le variabili organizzative che possono aver ostacolato o favorito l’insorgere di questo malessere. A queste prospettive si unisce anche l’analisi e la rilevazione del mobbing inteso come forma di attacco psicologico subito da un individuo ed esercitato da parte dei colleghi e/o superiore/i attraverso la messa in atto di comportamenti aggressivi.
- La prospettiva dello sviluppo organizzativo o della riprogettazione organizzativa: tale prospettiva tende ad indagare quali forme organizzative, processi e modelli influenzano la motivazione, la soddisfazione lavorativa e l’efficacia del lavoratore. Partiamo dall’assunto che le persone siano motivate da fattori intrinseci (desiderio di crescita, di dare senso e significato alla propria esistenza, di partecipazione, apprendimento continuo, formazione) e da fattori estrinseci (remunerazione, status e sicurezza). Le organizzazioni che sono in grado di soddisfare i fattori intrinseci di un lavoratore saranno quelle a maggior successo.
- La prospettiva delle politiche organizzative di promozione della salute: focalizzazione sui programmi, le procedure e le iniziative che l’organizzazione può sviluppare per rispondere al bisogno di maggior coinvolgimento e partecipazione del lavoratore. L’attuale trasformazione del mercato del lavoro, delle professioni, dei modelli di management, richiede di sviluppare ed innovare le procedure organizzative per poter rispondere alla nascita di nuovi valori, culture e bisogni dei lavoratori.
- La prospettiva psicodinamico-sociale: si fonda sull’idea che sia l’individuo ad influenzare l’organizzazione e non viceversa. Quando il singolo soggetto è riuscito a ben gestire la propria salute, allora potrà diffondere questa conoscenza all’interno dell’organizzazione. Il focus è sulla leadership, sulle caratteristiche personali dell’individuo e sul livello di maturità raggiunto.
I primi interventi per la salute ed il benessere psicofisico del lavoratore risalgono agli anni Quaranta e Cinquanta e si basavano sull’idea che le organizzazioni dovevano pensare di più ai «sentimenti ed alle preoccupazioni dei lavoratori, imparando a gestirne gli aspetti emotivi». Ma è solo negli anni Sessanta Settanta con gli studi sullo stress e sui rischi psicosociali che l’interesse si estende anche allo studio dei meccanismi lavorativi che li influenzano. Nel 1999 la Commissione Europea definisce lo stress lavorativo come «un insieme di reazioni emotive, cognitive, comportamentali e fisiologiche ad aspetti avversi e nocivi del contenuto del lavoro, dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di lavoro». Si riconoscono in questa definizione i tre livelli su cui operare: individuo (interventi di empowerment personale), individuo-organizzazione (migliorare il rapporto persona-ambiente, relazioni interpersonali), carico di lavoro, comunicazione), organizzazione (modifica della struttura e delle pratiche organizzative, dei fattori fisici, ambientali, formazione).
Gli esiti di questi interventi e le analisi della letteratura, hanno portato – a partire dagli anni 2000 – alla costruzione e successiva validazione di un questionario che rileva lo stato di salute organizzativa con la conseguente indicazione di quali sono le aree sulle quali intervenire. Il questionario è il Multidimensional Organizational Health Questionnaire (MOHQ) elaborato da Avallone e Paplomatas in collaborazione con la cattedra di Psicologia del lavoro della Facoltà di Psicologia 2 dell’Università la Sapienza di Roma5. Le dimensioni individuate sono quattordici; un’organizzazione è in buona salute se:
- presenta un ambiente di lavoro igienico, confortevole e accogliente,
- definisce obiettivi chiari e c’è coerenza tra enunciato e prassi operativa
- riconosce e valorizza le competenze e i contributi dei dipendenti e sviluppa nuova potenzialità,
- ascolta attivamente,
- mette a disposizione le informazioni pertinenti al lavoro,
- è in grado di gestire situazioni conflittuali,
- stimola un ambiente relazionale franco, comunicativo e collaborativo,
- assicura rapidità di decisione, operatività fluida e supporta l’azione verso gli obiettivi,
- assicura equità di trattamento a livello retributivo, di assegnazione ri responsabilità, di promozione personale,
- mantiene livelli tollerabili di stress,
- stimola nei dipendenti il senso di utilità sociale contribuendo a dare senso alla giornata lavorativa dei singoli e al loro desiderio di contribuire ai risultati comuni,
- adotta le azioni per prevenire gli infortuni e i rischi professionali,
- definisce i compiti dei singoli e dei gruppi garantendone la sostenibilità,
- è aperta all’ambiente esterno e all’innovazione tecnologica e culturale.
In aggiunta a queste dimensioni sono state definite altre tre aree riconosciute come indicative di “benessere” e “malessere” nei contesti di lavoro.
La prima area fa riferimento a:
INDICATORI POSITIVI DI SALUTE ORGANIZZATIVA
- Soddisfazione per l’organizzazione
- voglia di impegnarsi per l’organizzazione
- sentirsi parte di un team
- voglia di andare al lavoro
- senso di autorealizzazione
- convinzione di poter cambiare le condizioni negative attuali
- rapporto equilibrato tra vita lavorativa e privata
- relazioni interpersonali positive
- valori organizzativi condivisi
- credibilità del management
- stima del management
- percezione di successo dell’organizzazione
La seconda area fa riferimento a:
INDICATORI NEGATIVI DI SALUTE ORGANIZZATIVA
- Risentimento verso l’organizzazione
- aggressività abituale e nervosismo
- sentimento di inutilità
- sentimento di irrilevanza
- sentimento di disconoscimento
- insofferenza nell’andare al lavoro
- disinteresse per il lavoro
- desiderio di cambiare lavoro
- pettegolezzo
- aderenza formale alle regole e anaffettività lavorativa
- lentezza nella prestazione
- confusine organizzativa in termini di ruoli, compiti, etc
- viene meno la propositività a livello cognitivo
- assenteismo
La terza area fa riferimento ai disturbi individuali riconducibili all’area psicosomatica.
I risultati che si ottengono somministrando il questionario, fungono da base oggettiva e concreta per la determinazione e pianificazione di successivi interventi di sviluppo organizzativo specifici per quel contesto. Le principali aree di azione possono riguardare:
- Interventi sulla struttura e sui ruoli organizzativi
- Interventi di innovazione tecnologica
- Interventi di Change and Transformation Management
- Interventi sui processi organizzativi
- Interventi sulla cultura e valori organizzativi
Dal punto di vista di ricerca, studio, strumenti e conoscenza (sapere) sembra esserci abbastanza – anche se ancora molto si sta facendo; dal punto di vista di programmi di Welfare aziendale, di iniziative private a presidio di salute e benessere (saper fare) si evidenziano alcune buone prassi – anche se ancora non sufficientemente presenti. Dal punto di vista del “prendersi cura” dell’argomento, dell’agire in ottica di prevenzione, dell’agire concretamente a favore del benessere “a prescindere da…” (saper essere) credo che ancora molto, moltissimo si debba e possa fare. Le testimonianze riportate a titolo esemplificativo ad inizio articolo – tratte dalla mia esperienza diretta – sono attuali, attualissime. Parliamo del 2018. E non si tratta di piccole imprese. E quante altre testimonianze ancora si sarebbero potute riportare? Molte. E se ognuno di voi fa riferimento alla propria esperienza o a quella di chi vi è vicino, quanti vissuti simili riconoscete? Probabilmente molti.
Come mai il concetto di benessere aziendale – oggi come non mai “in voga” – stenta ad essere consolidato e sistematizzato all’interno delle organizzazioni? Sono sulla bocca di tutti oggi parole come “ottimismo”, “felicità”, “Mindfulness”, “smart-working e lavoro agile”, “meditazione e rilassamento”, “resilienza”, “gentilezza”, “comunicazione, ascolto ed assertività”, ma quale significato vien loro attribuito? Mi vien da chiedermi se davvero si comprende appieno l’enorme portata e valenza psicologica e comportamentale che ciascuno di questi “strumenti” ha insito in se stesso.
La dimensione traumatica ed il trauma – di lieve o grande intensità – rappresentano forse la causa maggiore di sofferenza umana, ma allo stesso tempo sono le più incomprese e sottovalutate. Forse perché “costano” in capacità, impegno e complessità?! Forse. Il fondamento è di tipo biologico e si manifesta sotto forma di “stato di allerta” per un pericolo percepito. Se questo stato di allerta non si risolve il sistema Psico-Neuro-Endo-Immunitario continuerà ad essere attivato, producendo uno stato di tensione interna che nel tempo manifesterà sintomi a vari livelli e gradi di intensità e danno.
In particolare il trauma psicologico è una ferita subita dalla psiche a seguito di una certa esperienza – singola, ripetuta o prolungata nel tempo – vissuta dal soggetto come “critica”. L’evento traumatico può essere di qualsiasi tipo e la gravità varia da persona a persona; implica un’esperienza di senso di impotenza e vulnerabilità di fronte ad un pericolo percepito (a livello soggettivo o oggettivo). Il perdurare nel tempo di questa condizione conduce ad un vero e proprio “esaurimento emotivo” che influisce significativamente sulle capacità di concentrazione, attenzione, memoria, percezione, analisi e problem solving, comunicazione e relazione, empatia con conseguente perdita di autostima, motivazione, entusiasmo ed autoregolazione emotiva. L’evoluzione e la ripresa dal trauma dipendono da molti fattori sia interni che esterni tra cui la resilienza (hardness), la capacità di riorganizzare in modo positivo la propria esperienza a seguito del vissuto traumatico. Per la Psicologia la resilienza assume il significato specifico di capacità di affrontare le avversità della vita, superarle ed uscirne rinforzato o trasformato significativamente. È il risultato dell’interazione dinamica tra le caratteristiche personali dell’individuo (autostima, abilità sociali, tolleranza alla frustrazione, attitudine alla speranza, autoefficacia) e i fattori ambientali e relazionali (legami familiari, aspettative personali e sociali, livelli di stress a cui si è esposti). Ciò rende la resilienza una qualità non stabile e deterministica per sua natura, bensì “multidimensionale e multi determinata” e situazionale. Studi in ambito di neuroscienze e psicoterapia hanno evidenziato quanto sia importante agire in termini di neuro plasticità cerebrale per modificare le tracce lasciate dagli eventi stressanti e/o traumatici. Gli interventi di sviluppo della resilienza sono volti a favorire comportamenti di socializzazione attiva e di benessere relazionale, con rapporti interpersonali positivi ed elevato sostegno sociale al fine di facilitare e favorire una più efficace regolazione emotiva. Inoltre, fonti di recente letteratura scientifica ci evidenziano la reale efficacia delle tradizioni di meditazione che permettono di coltivare atteggiamenti di compassione e gentilezza che effettivamente aumentano le capacità di socializzazione, di empatia sociale, di tono dell’umore6. Queste sono le condizioni che favoriscono la proattività, la creatività, la tolleranza al cambiamento e alla complessità.
Le conclusioni di queste analisi confermano quanto i comportamenti sociali ed emotivi subiscano l’influenza delle esperienze e da esse ne vengano modificate. Lo stress ed i traumi psichici producono delle importanti e durature alterazioni nel comportamento andando a “procurare ferite” al livello di omeostasi neuro-sociale. La ricerca sta iniziando a dimostrare gli impatti positivi degli interventi di promozione di comportamento sociale e benessere su strutture e funzioni neuro-sociali, ma è indubbio che molto debba essere ancora fatto da un punto di vista di diffusione, promozione e “traduzione in azione” degli stessi. Da psicologa “romantica” quale mi definisco, sono certa che molto sarà fatto e – per quanto nelle mie capacità – mi impegno a diffondere e promuovere idee e progetti che possano contribuire alla diffusione di un più ampio concetto di benessere – organizzativo ed individuale. Credo sia necessario e possibile andare oltre il concetto del «Beh sì, è una buona azienda, ci troviamo bene…», e soprattutto trasformare in realtà i tanti slogan che recitano “da noi le persone sono al centro”, “obiettivo primario è far crescere i nostri dipendenti”, attraverso un “paziente” impegno di sviluppo e diffusione concreto e costante di un clima e atteggiamento positivo (reale incontro tra valori degli individui e valori dell’organizzazione) come asset principali per lo sviluppo del business.
L’obiettivo dovrebbe essere, per l’organizzazione, quello di “prendersi cura” degli individui affinché si sentano – per davvero – persone e non risorse. La differenza – non solo terminologica – per mio pensiero ed esperienza è enorme, mentre i gesti e le azioni da fare per iniziare a coltivare e seminare il buon seme del benessere organizzativo possono essere anche molto semplici ma di grande impatto. E per gli individui, invece, l’obiettivo dovrebbe essere quello di “prendersi cura” di se stessi in primis e delle altre persone poi, riconoscendo il valore e l’impatto delle proprie azioni – o non-azioni – sugli altri e sul contesto, perseguendo in tal senso la finalità di sviluppo e miglioramento di autoconsapevolezza, senso di responsabilità e impegno individuale (le difficoltà non sono sempre episodi provocati dagli altri o dal contesto).
«Saprai a stento chi sono o quale sia il mio significato,
ma sarò benessere per te ciò nonostante …»
(Walt Whitman)
Sefora Rosa
Psicologa, Coach, Consulente Organizzativa
Note
1 A. Gorz, Metamorfosi del lavoro, Einaudi, Torino, 1992
2 Freud, Al di là del principio del piacere, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1989
3 Per approfondimenti Avallone e Bonaretti, Benessere Organizzativo, 2003
4 Foresight Mental Capital and Wellbeing Project, 20084
5 Per approfondimenti Avallone e Paplomatas, salute organizzativa, 2005
6 Per approfondimenti Hoffmann et al., Clinical Psichology Review, 31, 2011
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