ALICE MANGIARINO, MASSIMO PIETRASANTA Trauma in scena: oscillazioni tra reale e fantasmatico

Antefatto

Dante è un uomo di 44 anni, inserito in Comunità psichiatrica dall’ottobre 2010. Di famiglia operaia, risiedeva in una città lombarda con i genitori ed un fratello minore prima di arrivare in comunità come misura alternativa all’inserimento in OPG a seguito di comportamenti di molestie ed esibizionismo nei confronti di minori.

Presenta un quadro clinico riconducibile ad una sindrome frontale post-traumatica, esito di un incidente automobilistico avvenuto in età adolescenziale, caratterizzato da ideazione e comportamenti megalomanici, motti di spirito, condotte impulsive.

Quindicenne, Dante era rimasto vittima di un grave incidente stradale: ricoverato in coma all’Ospedale della sua zona, aveva subito un intervento chirurgico di asportazione di ematoma acuto sottodurale temporale destro con conseguenti esiti di paresi spastica e importante sofferenza neuropsichica diagnosticata come uno stato di demenza post traumatica.

Il risveglio dal coma, dopo 40 giorni di perdita di coscienza, era avvenuto alla presenza della madre e con l’utilizzo di stimolazioni sensoriali, in particolare le canzoni dei Pooh, il suo gruppo musicale preferito.

Dopo la riabilitazione, con recupero parziale del deficit motorio, permaneva un certo impaccio nella deambulazione ed una lentezza nell’esecuzione dei movimenti associati ad un eloquio modestamente disartrico. Tale sintomatologia residua non è stata di ostacolo negli anni successivi all’acquisizione della patente di guida ed allo svolgimento di diverse attività lavorative.

Le rilevanti conseguenze psichiche del danno cerebrale vengono descritte in cartella clinica come “infantilismo, bizzarrie comportamentali in netto contrasto con una personalità premorbosa descritta come bene adattata alle norme socio-familiari, deficit di critica e di giudizio, superficialità, disinibizione sessuale espressa sotto forma di comportamenti sessuali distorti (voyeurismo, maldestri approcci all’altro sesso attuati con argomentazioni infantili e farraginose, allusioni a contenuto vagamente erotico, tentativi di approcci impropri ed incongrui per il contesto e la persona interessata), abitudine a stabilire un contatto fisico con la persona astante per dare più credito alla conversazione (sfiorare un braccio, prenderle la mano, cingerle le spalle), discontrollo della propria impulsività, comportamenti antisociali (piccoli furti, maldestri tentativi di truffa), logorrea associata a vischiosità”.

Se si prende in considerazione il concetto di trauma non solo come conseguenza di eventi accidentali, questo può essere ampliato includendo non solo abusi e molestie ed altri eventi particolarmente stressanti per il soggetto (ad esempio, delicate operazioni chirurgiche come nel caso di Dante), bensì anche traumi emotivi che si inscrivono nella relazione tra il paziente e una o entrambe le figure genitoriali. «Trovarsi in una condizione di isolamento emotivo, in cui il soggetto non riceve contenimento, né adeguato rispecchiamento alle proprie angosce, provoca uno stato penoso che può essere controllato mediante il ritiro in fantasie autoindotte, che sviluppandosi assumono una valenza erotica; se i genitori, e in special modo la madre, non si accorgono di tale ritiro o addirittura lo consentono attraverso modalità più o meno coscienti, la predisposizione alla perversione è data»1.

Sin dall’esordio della sintomatologia psichica post-traumatica ci si potrebbe porre, dunque, la domanda dell’incidenza della personalità pre-morbosa di Dante nello sviluppo della patologia perversa di cui egli è sofferente, “giustificata” dalla famiglia come conseguenza dell’incidente automobilistico.

Dante, comunque, fa il suo ingresso in comunità agli arresti domiciliari, dopo essere stato fermato poco prima per il reato (continuato) di violenza sessuale verso persona in inferiorità fisica e psichica, vale a dire una ragazzina minore di quattordici anni. Dell’episodio, Dante fornisce una spiegazione molto personale: in modo scherzoso si sarebbe rivolto ad una ragazzina facendo un apprezzamento al suo abbigliamento ma vedendola spaventata l’aveva abbracciata per rassicurarla, proseguendo poi per la propria strada.

È il paziente più esperto nel gruppo di psicodramma della comunità, colui che vi partecipa dalla sua fondazione, tanto da sentirsi investito della funzione di accogliere i nuovi ingressi, spiegando le regole del gruppo e ponendosi quale elemento in possesso di una storia collettiva da raccontare e condividere. Non racconta molto invece della propria vita, sottolineando il suo essersi già narrato in un tempo passato e sfuggendo alla domanda dell’Altro attraverso l’uso di “battute di spirito” come via di fuga.

Durante una seduta, nel tentativo di consigliare un compagno di gruppo, Dante dice: «A volte, si può raccontare un segreto senza necessariamente doverlo fare parlandone in prima persona, ma declinandolo su altri!».  Con questa affermazione Dante ci ha dato in parte spiegazione di come intenda svelarsi e concedersi: “attraverso gli altri” ed attraverso le storie, i racconti e le opportunità che il gruppo permette di cogliere.

Come sostiene Paul Lemoine (1975) in un articolo sulla pulsione scopica «Nello psicodramma è lo sguardo comune del gruppo che […] individua la falla e mette in luce il desiderio […] l’inconscio vi si ritrova non solo sotto forma dei ricordi infantili repressi, ma anche come fantasma […] ed è attraverso i fantasmi che si svela la struttura, cioè la relazione che un soggetto intrattiene con l’oggetto delle sue pulsioni»2.

In che modo, tuttavia, affrontare la cesura esistenziale che il trauma del coma pare aver prodotto in Dante tenendo in debito conto sia la personalità premorbosa che l’effetto catastrofico dell’evento?

Pablo Picasso, Guernica, 1937

 

Coma, sindrome frontale e perversione 

È possibile pensare al coma non soltanto come uno stato di assenza di coscienza protratto nel tempo, ma come una esperienza di transito fra la vita e la morte in cui il soggetto si trova a ripetere, amplificandole, situazioni fisiologiche (il sonno, da cui etimologicamente deriva il termine greco) o patologiche (la crisi epilettica) o indotte (l’anestesia) più consuete.

È altrettanto importante ricordare che il risveglio dal coma avviene in tre fasi, dapprima in uno stadio di solo apparente contatto con l’ambiente circostante, definito stato vegetativo e caratterizzato da risposte motorie non volontarie mediate dall’attività sottocorticale, successivamente in un periodo di attività corticale di reattività muta, con attività cognitiva di base ridotta a causa di disturbi della memoria e dell’attenzione, come in una fase confusionale e solo al termine del processo si recuperano l’autonomia delle capacità di base della vita quotidiana e delle funzioni intellettive e socio-relazionali.

È nello stato vegetativo che la stimolazione sensoriale (nel nostro caso la musica dei Pooh) può avere qualche effetto, cioè influenzando la ripresa di funzioni automatizzate, come ad esempio la respirazione, l’andamento pressorio e cardiocircolatorio, mentre non vi sono evidenze cliniche di analoghi effetti stimolanti sul recupero della coscienza, mentre sono certamente di ausilio gli accorgimenti ambientali per riordinare la fase confusionale.

Pur sinteticamente abbiamo descritto un processo di estrema complessità, in cui compromissioni anche parziali possono determinare deficit neurologici rilevanti e/o disturbi della personalità significativi, come peraltro segnalato in letteratura fra gli esiti di Disturbi post-traumatici da stress anche molto meno catastrofici del coma, in particolare la sindrome frontale diagnosticata a Dante.

Si tratta, come già anticipato, di un quadro clinico caratterizzato da deficit cognitivi che compromettono le funzioni attentive, la capacità di pianificazione delle azioni e di risolvere i problemi e da disturbi emotivi e comportamentali, con eccessiva disinibizione, instabilità affettiva e reazioni incongrue agli stimoli ambientali.

 

Un film cult degli anni ’70, Arancia meccanica di Stanley Kubrick, ci fornisce immagini drammatiche degli eccessi del discontrollo delle aree frontali: il protagonista, Alex, è un giovane operaio londinese a capo di una banda di balordi dedita a violenze gratuite di ogni genere (stupri, pestaggi, aggressioni a vittime indifese, rapine), che, una volta catturato ed incarcerato viene sottoposto ad un trattamento sperimentale rieducativo, consistente in visioni obbligatorie di scene di violenza in aggiunta a trattamento farmacologico.

Terapia basata su ripetizioni di scene e sulla coazione a mantenere lo sguardo sulle componenti aggressive dell’individuo, evitandone la rimozione.

Tale trattamento annulla il libero arbitrio di Alex, tanto che egli viene sottoposto ad umiliazioni e violenze che subisce senza reagire, provando sensazioni di nausea ogni volta che lo sfiora il pensiero di rispondere aggressivamente ad una offesa.

Una volta scarcerato, ritrova alcuni dei personaggi vittime dei suoi soprusi che approfittano dell’inversione dei ruoli e si pongono come aggressori: in una di queste situazioni Alex tenta il suicidio gettandosi da una finestra e cadendo in coma.

Al risveglio Alex prende coscienza che l’effetto del trattamento rieducativo è esaurito e che la personalità violenta si è ricostituita e decide di usarla legalmente fino a farsi nominare capo della polizia.

Romanzo che amplifica molti dei temi che stiamo affrontando, sottolineando particolarmente il conflitto fra la violenza patologica del soggetto e la reazione istituzionale che ne annulla il libero arbitrio come unico trattamento possibile: conseguenza particolarmente visibile nei soggetti sottoposti a lobotomia frontale, uomini-automi ancora presenti nell’ospedale psichiatrico di Alessandria negli anni ’70.

Nel paradosso di una “psicoterapia coatta”, tuttavia, si può riflettere sulla trasformazione del soggetto attraverso l’osservazione di scene, il processo di identificazione con i personaggi in gioco, l’assunzione del ruolo di vittima dopo aver preso coscienza delle sofferenze inflitte all’Altro nella posizione di aggressore ed il recupero delle proprie istanze pulsionali rese più accettabili socialmente dal cambiamento di status, divenendo addirittura tutore dell’ordine.

 

Temi di riflessione da tener ben presenti in un gruppo di psicodramma in comunità composto da membri per lo più sottoposti a procedimenti prescrittivi della magistratura ed in particolare per Dante, in cui, al di là della componente normativa, vi può essere un vincolo al “libero arbitrio” correlato alla specificità del disturbo frontale post-traumatico.

Varie ipotesi patogenetiche giustificano la sintomatologia della sindrome frontale: secondo Shallice (1991) le disfunzioni, in particolare della sfera cognitiva, sono da ricondurre ad un deficit del Sistema Attenzionale Supervisore, che garantisce nella norma un controllo vigile delle funzioni automatiche sottostanti, modulando il sistema di selezione competitiva che attiva o inibisce schemi di comportamento.

La lesione frontale, danneggiando il Sistema Attenzionale Supervisore, determina comportamenti rigidi ed inflessibili e distrazioni per incapacità di attivare gli schemi importanti e di inibire quelli superflui.

Secondo Damasio (1995), invece, che definisce la sindrome frontale “sociopatia acquisita”, utilizzando una terminologia che evidenzia i disturbi emotivo-comportamentali, si tratta di un danno al Sistema di Marcatura Somatica, che aiuta il soggetto nel processo decisionale, collegando alle rappresentazioni interne stati del sistema nervoso autonomo, vale a dire sensazioni soggettive di benessere che fungono da incentivo all’azione o di malessere che fungono da campanello d’allarme e da disincentivo.

Il marcatore somatico costituisce una sorta di segnale anticipatorio, acquisito dal soggetto attraverso l’esperienza di circostanze esterne inclusive di norme sociali ed etiche, in termini psicodinamici l’istituzione di istanze superegoiche che modulano i comportamenti umani.

Questo modello interpretativo della sindrome frontale applicato ai comportamenti perversi relativi alla sessualità, imputati a Dante e causa dell’arresto domiciliare in comunità riflette in fondo alcune delle caratteristiche attribuite alla perversione da Freud nei “Tre saggi sulla Teoria della Sessualità” (1905), in particolare una continuità fra il normale ed il patologico e la compresenza di livelli primitivi ed adulti di sessualità.

Più modernamente, l’approccio teorico alla perversione della psicoanalisi si situa su tre diverse posizioni: la prima (Chasseguet-Smirgel, 1985) riprende la teoria dello sviluppo psicosessuale di Freud considera la perversione una deviazione in cui la realtà psichica viene frammentata e rimescolata, abolendo le differenze fra il buono ed il cattivo, in un mondo ideale senza tempo e senza spazio.

In una versione post-kleiniana Rosenfeld (1988) e Meltzer (1973) attribuiscono l’organizzazione patologica perversa a nuclei narcisistici distruttivi che prendono il potere sulle parti sane, sottomettendole, così come nel perverso si manifesta un trionfo crudele sull’oggetto sessuale.

La posizione a nostro avviso più interessante in relazione al tema che intendiamo approfondire, pur considerando la perversione una relazione oggettuale narcisistica, la ritiene una funzione difensiva dall’angoscia che minaccia l’identità della persona ed un tentativo verso forme più integre di strutturazione del sé (Kohut 1997).

Masud Khan (1979) parla di interferenza traumatica nello sviluppo della perversione, di microtraumi infantili e di trauma cumulativo, che contribuiscono a creare aree caratteriali di tipo narcisistico ed autoerotico specifiche, che struttureranno la personalità del soggetto perverso.

Ipotesi neurofisiologiche e teorie psicodinamiche convergono a definire complesso il quadro clinico della sindrome frontale e dei suoi effetti cognitivo-comportamentali e del suo trattamento e a mettere in dubbio la certezza di una reazione causa-effetto univoca, sia pure a seguito di un evento catastrofico quale il coma come nel caso di Dante.

Sociopatia acquisita, ci dice Damasio, ma a che punto della storia del soggetto?

Quali gli effetti dello psicodramma in situazioni in cui il trauma oscilla dal reale al fantasmatico?

 

Pablo Picasso, Les jeux, 1950

 

IL TRAUMA IN SCENA: STIMOLI PER UN RISVEGLIO

Dante, ripensando all’esperienza del coma che ha lasciato tracce mnesiche frammentarie, in una seduta verbalizza in gruppo che «decidere di stare a letto non è piacevole». È così che in gruppo prova a riconnettersi all’esperienza del coma, attraverso la narrazione di un momento particolare in cui i genitori sono in comunità a fargli visita, durante il periodo nel quale egli aveva deciso di fare lo sciopero della fame come protesta nei confronti del sistema giudiziario che prolungava la sua degenza.

È Dante a chiedere, nel qui ed ora della seduta, di poter “rivedere” la sequenza di tentativi di stimolo messi in atto dagli operatori e dalla coordinatrice della comunità, per indurlo ad alzarsi dal letto e a riprendere la cura di sé.

  • Un educatore della comunità tenta di farlo alzare dal letto proponendogli di giocare a carte: è Damiano, un giovane paziente considerato da Dante “come un fratello” ad assumere questo ruolo. Dante però non si alza, nonostante abitualmente il gioco delle carte costituisca per lui una forte motivazione.
  • Un secondo tentativo è quello messo in atto dalla coordinatrice della comunità la quale si reca nella stanza di Dante e gli comunica che sarebbero arrivati i suoi genitori, ma anche in tale circostanza, Dante non intende alzarsi e dice di non credere a ciò che gli viene detto. È Asia, una collega psicologa che nel gruppo di psicodramma riveste la funzione di Io Ausiliario, ad essere chiamata nel ruolo della coordinatrice: abitualmente Dante è particolarmente ricettivo alle indicazioni degli operatori, anche nel gruppo ove le parole delle psicologhe rappresentano idee da non trascurare, ma anche questo stimolo risulta insufficiente.

Arrivano i genitori e Dante solo allora dice: «Mi alzo!». Verbalizza durante il gioco di provare vergogna ed imbarazzo nel farsi trovare dai genitori così trascurato e chiede alla coordinatrice di aiutarlo a farsi la barba. È Fausto, un giovane paziente proveniente da una famiglia piemontese medio-borghese, con notevoli aspettative nei riguardi del figlio, ad essere scelto per vestire i panni della madre di Dante, l’unica che può avvicinarsi in un primo momento, così come era stata colei che lo teneva per mano al risveglio dal coma.

Fausto, peraltro, viene prescelto anche in quanto condivide con Dante la passione per la musica, poiché durante l’adolescenza e sino all’esordio della sua crisi psicotica aveva studiato pianoforte in conservatorio: nel doppiaggio l’animatore rimanda a Dante che anche in un precedente risveglio suoni musicali avevano giocato una parte significativa, riferendosi al ricordo della canzone dei Pooh al momento dell’uscita dal coma.

  • I genitori vengono a fargli visita, situazione totalmente inaspettata da Dante, tanto che inizialmente non ci credeva, pensava fosse una delle tante comunicazioni degli operatori funzionali a riportarlo all’attività quotidiana.

Circola il tema della fiducia: quanto potersi fidare dell’Altro? Per la prima volta, Dante riesce a mettere in gioco la madre, come se potesse offrirla allo sguardo del gruppo, mentre il padre, che nella scena reale rimane fuori dalla porta della sua stanza, per ora non trova posto nella rappresentazione.

Pablo Picasso, Coppia e uomo con la pipa, 1966

In precedenza le scene di Dante si riferivano alla vita quotidiana della comunità, conflitti con gli altri ospiti, richieste agli operatori, episodi durante le gite, con una censura rispetto al passato e al mondo familiare.

Due mondi distinti, due tempi separati, apparentemente senza continuità, entrambi idealizzati, tanto che spesso Dante parla della comunità come di una seconda famiglia che lo ha accolto ed a cui si è adattato.

Una breccia nell’idealizzazione della comunità-famiglia (la contestazione e lo sciopero della fame) e l’incontro con un materno affettuoso e sollecito interrompono il suo ritiro autistico: la relazione con la madre diviene il motore, la motivazione a ripartire, ciò che gli consente di concedersi di alzarsi e di affrontare il mondo.

 

Come sottolinea Elena Croce (2004), «Il fatto di poter giocare, invece di limitarsi a parlare contribuisce […] a innescare quella capacità di rêverie che è la base delle costruzioni fondamentali in ogni corretto lavoro analitico»3.

Il passaggio da un coma subito come accidente della vita ad una chiusura al mondo scelta come autonoma decisione anticonservativa rappresenta già un transito in cui Dante sente di poter tornare protagonista della sua esistenza.

Si tratta veramente di alzarsi e di mettersi in gioco recuperando la memoria che pareva cancellata dal trauma.

Pablo Picasso, La casetta in giardino, 1908

 

 Dallo sguardo alla parola

Analogamente all’acquisizione dell’identità del bambino attraverso l’allontanamento della figura materna e l’assunzione del padre a livello simbolico, nello psicodramma la ricostruzione di sé avviene attraverso il discorso che consente al soggetto di rivelarsi a sé stesso e al gruppo, mostrando il suo desiderio e la sua castrazione.

Il risveglio di Dante, mediato allora dopo l’incidente come nel qui ed ora del gruppo dalla funzione di rêverie materna, avvia il processo analitico dell’attualizzazione in un discorso che si dipana in una sequenza di giochi significativi, in cui si manifesta la sua relazione con la legge del padre.

In una seduta di poco successiva alla scena descritta, Dante prende la parola e racconta di aver subito un furto di trenta euro in Comunità e di averlo raccontato alla coordinatrice, la quale pare non averlo preso in considerazione. Di nuovo il tema della fiducia circola nel gruppo, attraverso le parole di più partecipanti. Vi è una minaccia dentro la Comunità?  Questo non è un posto di ladri, affermano alcuni pazienti, ma Dante in gruppo forse teme di essere privato di alcune risorse, ad esempio del vantaggio secondario del disturbo post–traumatico che gli ha consentito sinora di mascherare la propria storia.

In associazione al furto subito Dante racconta un’esperienza vissuta in passato da adolescente, un episodio nel quale, trovato un portafoglio per strada, lo consegna ai Carabinieri. Nel gioco emerge la sua ambivalenza di fronte alla scelta “fra il bene ed il male”, come dirà nel commentare la scoperta del portafoglio: ricorda, infatti, che la scena è più complessa e che la decisione della restituzione viene assunta in famiglia. Nel gioco Aldo, il paziente veterano della comunità con cui egli spesso entra in competizione è scelto nel ruolo del portafoglio, un oggetto gonfio di monete, anche di valuta estera; Nathan veste i panni della madre di Dante, perché è colui che lo aiuta con maggior disponibilità in caso di bisogno; Damiano è nel ruolo del padre, per la sua capacità di prendere decisioni. Nella scena la madre é in ascolto del marito, non interviene e lo asseconda. Dante dice inizialmente di essersi sentito fortunato nell’aver trovato così tanto denaro, ma aggiunge che quando è felice capita sempre qualcosa che interrompe tale stato emotivo. Nei panni del padre, infatti, Dante non crede alle parole del figlio, al fatto che possa aver trovato il portafoglio per strada «forse non dice la verità, lo ha rubato a qualcuno, comunque non si può tenere per sé un oggetto altrui». Dante è ambivalente, così verbalizza di sentire come propria la posizione della madre, adeguandosi al desiderio dell’Altro senza esprimere il proprio. Dante, attraverso la metafora del portafoglio, ha parlato anche di sé, del suo essere stato ripreso in vita, ritrovato ed essere entrato nella famiglia-comunità. Trovare, tenere, rubare, sembra esserci un conflitto fra una parte di Dante che vuole tenere per sé ed una che vuole restituire, ma non riesce ancora a stare da solo con la propria coscienza e necessita di adeguarsi alla legge del Padre, senza averla introiettata.

Un gioco di copertura in cui il conflitto non emerge, pur se inizia a trasparire dalle parole del padre.

 

Dopo poche sedute emergono contenuti erotici che Dante in gruppo ha sempre mascherato, minimizzando la portata dei propri comportamenti: inizia il suo racconto descrivendo quella che definisce la sua attività di “taxista notturno” che consisteva nel dare un passaggio con la propria auto alle prostitute in una città non troppo distante dalla sua residenza, in cambio di “una gratuita toccatina alla gamba”. «Facevo il taxista notturno per non pagare un prezzo, che poi pagavo al rientro, nell’incontro con mio padre», specifica. In seduta, Dante porta lo sguardo giudicante del padre, chiedendo a Nathan, che in precedenza aveva interpretato il ruolo della madre che assecondava il discorso del padre, di assumere il ruolo paterno. Descrive il padre come un uomo dallo sguardo autoritario e sottolinea di aver scelto Nathan perché tra loro si è instaurata “un po’ di confidenza”, che permette di poter rivivere la situazione raccontata senza troppo imbarazzo. Nella scena è presente anche la madre, che dorme e non si accorge della situazione. È Asia, una collega psicologa, ad essere scelta in tale ruolo, perché Dante la sente taciturna nel gruppo, nonostante rivesta la funzione importante di Io Ausiliario. Il padre, durante la scena esprime la sua preoccupazione e non appena sente Dante entrare in casa, si alza dal letto e lo raggiunge, per assicurarsi che stia bene ma anche per comunicargli attraverso lo sguardo, di essere a conoscenza dei comportamenti del figlio e di quanto questi possano essere pericolosi ed inadeguati. Dante sente di essere scoperto dal padre, smascherato in una violazione delle regole familiari e sociali, ma ancora coperto da una presenza materna silenziosa, ma sempre con una funzione determinante.

«È nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé»4.

Successivamente un inatteso elemento di realtà, che viene giocato in gruppo, contribuisce ad una accelerazione del discorso: Dante non deve più sottostare ai vincoli della pericolosità sociale, che il Magistrato ha annullato, ma deve fare i conti con il giudizio clinico dello staff della comunità, per cui si sente “sotto esame”, nuovamente uno sguardo giudicante che lo rimanda ad una situazione familiare.

Dante racconta di essere stato chiamato pochi giorni or sono in ufficio dalla coordinatrice della comunità, per giustificarsi di avances che avrebbe fatto nei confronti di una giovane paziente, comportamento che nega, portando in gruppo il suo sentirsi innocente ed il suo vissuto di essere colpevolizzato per un pregiudizio.

Il racconto dell’episodio in cui Dante viene scoperto dal “padre segugio” che ben conosce la motivazione dei suoi ritardi, da sempre legati al ruolo di taxista che egli riveste per le prostitute della zona in cui risiede viene associato al pregiudizio di una colpa. Una narrazione già messa in gioco in cui oggi è possibile costruire una scena diversa, l’incontro ed il confronto con la figura paterna, l’incontro con il maschile al netto della presenza della madre che viene esclusa dal gioco.

È Antonio, non più Nathan, ad essere scelto da Dante per rivestire i panni del padre, ad indicare il cambiamento, oltre alla scomparsa della parte tutelante della madre, permettendo un dialogo esclusivo con il padre, che lo rimprovera apertamente per “tendenze sessuali a rischio”, evocando incidenti che potrebbero rovinare l’esistenza di Dante. Attraverso il gioco, è possibile osservare come finalmente Dante possa iniziare a raccontarsi ed a raccontare temi sempre tenuti nascosti: il padre come rappresentante di una coscienza superegoica tanto che il gioco si conclude con l’affermazione del protagonista di aver “subìto una sberla morale”.

Che cosa impedisce a Dante di far rientro a casa liberamente, almeno in permesso, dopo cinque anni di permanenza in comunità? Dichiara in gruppo di sentirsi “libero sulla carta ma non all’atto pratico!”, poiché dice sentirsi condizionato dalle possibili domande che le persone del paese potrebbero rivolgergli e dalle risposte da cui potrebbero emergere parti di sé che non vorrebbe rivelare. In Comunità, ha trovato una famiglia accogliente e per lui, dopo tanti anni, è come sentirsi a casa, mentre nel suo paese le persone conoscono ciò che qui, nella nuova casa, non è possibile “scoprire” completamente.

Associa un periodo nel quale si sentiva libero dai giudizi degli altri, mentre lavorava come manutentore-addetto alla pulizia degli spazi esterni presso una casa di riposo. Descrive tale attività come un “lavoro di coppia” poiché era affiancato da un collega: curava il giardino, toglieva le erbacce e si occupava di mantenere gli spazi puliti. Rievoca i “diversi spazi da curare”: le aiuole di cui si prendeva cura, una casetta come ricovero degli attrezzi che definisce “un po’ chiesa, un po’ camera mortuaria” ed una discarica.

La descrizione del luogo, dell’attività e del collega, il carico emotivo con cui racconta tale momento richiamano un desiderio a mettersi in gioco in una parte sinora inedita: Dante racconta che ogni martedì, alla stessa ora, “arriva la discarica”. Immediata l’associazione al gruppo, al setting ed al lavoro che, con tanta fatica, ogni venerdì mattina si fa insieme: «C’è un lavoro da fare tutte le settimane, c’è un prospetto da rispettare», queste le sue parole nel descrivere l’attività. Ma di quale attività stiamo parlando? Del lavoro nel là ed allora della casa di riposo o nel qui ed ora della Comunità?

Dante fa molta fatica a “sollevare il cassonetto” ed afferma che c’è un lavoro “sospeso” e molto complicato. Nella posizione del cassonetto si sente “quasi vuoto”, sporco e rilassato; solo dopo il “lavaggio” afferma di sentirsi bene. Ci si potrebbe domandare se il cassonetto non rappresenti la sua fatica nascosta, la parte più fragile, sofferente e condannata della sua personalità, ma anche il suo desiderio di poter essere pulito e la sua paura di essere scoperto come sporco. Nella posizione dell’aspirapolvere che definisce “pulivapo” è felice di poter svolgere il suo lavoro, di poter “dare una bella lavata al cassonetto”. Nel gioco verbalizza il volersi mettere nella parte dell’immondizia, appiccicato, aderente al cassonetto, mentre rifiuta la possibilità di vedersi nel ruolo del collega, che solo successivamente descrive come il responsabile delle attività di manutenzione della casa di riposo, il suo superiore (forse l’animatore della scena?)

Dante, per la prima volta, prova a mostrare di poter maneggiare lo sporco e mette in luce che la possibilità di pulire necessita di un lavoro costante.

È una scena complessa, con oggetti concreti, di cui non è semplice la trasformazione in quote di pensiero. La sensazione è che Dante stia dicendo al gruppo che è arrivata l’ ora di fare pulizia!

Dopo una seduta in cui esprime nuovamente la sua ambivalenza relativamente al cambiamento e la sua difficoltà nello scegliere la direzione da seguire, ma allo stesso tempo riesce a verbalizzare la necessità della Comunità non come reclusione, ma come cura, accennando alla pericolosità sociale legata a comportamenti impulsivi che ancora non precisa al gruppo, sceglie di non approfittare della proposta della coordinatrice della struttura di un permesso di due giorni a casa.

Per affrontare più apertamente in gruppo la propria sofferenza, Dante sembra aver bisogno di un ulteriore passaggio dall’indicibilità dei sentimenti, mascherati dai motti di spirito, alla libertà di espressione del conflitto, situazione che si presentifica in una scena in cui condotte trasgressive vengono consentite in un contesto non più sacralizzato.

Dante racconta un episodio al quale ha partecipato da ragazzo con il gruppo giovani della parrocchia, nel cui contesto protagonisti e contenuto possono mostrare una “trasgressione lecita e concessa”: uno spettacolo sull’altare, permesso dal parroco; dopo che le prove per la recita avevano avuto luogo in oratorio. Nel giocare la scena, Dante non sente il sacro, «in quel momento conta solo lo spettacolo». Lo spettacolo musicale era una sua proposta e, nel qui ed ora della seduta, egli sceglie di interpretare la canzone “Azzurro”; fatica molto nel contenersi sulla scena, è entrato pienamente nella parte del cantante. Qui si può mettere in mostra liberamente, col permesso dell’autorità, tanto che nella parte del parroco si sente orgoglioso dei suoi ragazzi ed afferma che «Gesù ha detto: la mia casa è aperta a tutti».

È come un canto liberatorio che pare interrompere la sacralità della parola, nella Chiesa allora ed ora nel gruppo, ma che consente a Dante di interpretare un ruolo di protagonista del proprio desiderio, accettando lo sguardo dell’Altro non più soltanto come una funzione giudicante, bensì come opportunità di iniziare a distinguere «tra quello che è e quello che sembra essere»5.

 

In una seduta successiva, infatti, Dante racconta di aver avuto uno scontro verbale con un’altra paziente della Comunità, non partecipante al gruppo, per il fatto di averla guardata. «Se la guardi si arrabbia!». Nel gioco sceglie Daniele nel ruolo della paziente che inizialmente pare accettare il suo sguardo e Paolo a rappresentare il resto del gruppo, descritto come tranquillo e pacifico, in attesa di telefonare alla propria famiglia.

Dante è lì, nel qui ed ora del gioco, e fissa insistentemente Daniele. Nei panni della paziente osservata esplode: «Porco!», verbalizzando di essere riuscito ad esprimere a Dante la sensazione di fastidio che prova. Mentre nella propria parte sente crescere il desiderio di sfida ed il piacere di sentire e vedere. Rifiuta il cambio di ruolo con Paolo, che rappresenta il terzo, il gruppo, lo sguardo esterno, in tal modo esprimendo il suo bisogno di rimanere nella coppia per giocare un gioco perverso conosciuto ma mai verbalizzato, nella doppia posizione di osservatore/osservato.

Ora Dante può rivelare apertamente la propria sofferenza, non più mascherata da motti di spirito e rivendicazioni.

 

Freud, affermando l’esistenza di qualcosa al di là del principio del piacere, sottolinea come vi sia nel soggetto una pulsione a ricominciare continuamente, ad insistere a ripetere esperienze desiderate ma mancate che pongono la questione della “pulsione di morte”. Tale ripetizione è spinta più dalla mancanza che dalla ricerca del piacere, mancanza e vuoto legati ad oggetti edipici perduti nel rapporto con coloro che hanno sostenuto le funzioni materna e paterna.

Allo stesso modo, la ripetizione che propone lo psicodramma analitico, al momento del gioco, rappresenta un tentativo inconscio di recuperare qualcosa che è mancato. Chi si “mette in gioco” inevitabilmente si espone a correre dei rischi, su tutti quello di liberarsi da difese che proteggono dalla paura di frammentarsi di fronte allo sguardo dell’Altro, ma in cambio del rischio, l’immagine messa in scena restituisce al discorso i ricordi trasformandoli in parole.

Dante, grazie all’attivazione dell’area transizionale del gioco, può finalmente uscire dal ritiro post-traumatico, dalla struttura psicopatologica ben definita da J. Steiner come un rifugio della mente, una zona in cui dominano fantasie onnipotenti e narcisistiche nonché relazioni perverse, elementi che sembrano garantire al sé pseudo sicurezza e tutela da emozioni altrimenti intollerabili.

Il discorso del Soggetto può così riprendere dal punto in cui l’alibi del coma gli aveva garantito una posizione di acritica passività di fronte alle pulsioni per iniziare ad assumersi per la propria parte la responsabilità della cura.

Pablo Picasso, Les Demoiselles d Avignon”, 1906-1907

 

ALICE MANGIARINO
Psicologa, Psicoterapeuta

MASSIMO PIETRASANTA
Psichiatra, Psicodrammatista, Didatta S.I.P.s.A

 

Note

  1. De Masi, Lavorare con i pazienti difficili, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, pag. 44
  2. Lemoine, La pulsione scopica, in «Atti dello psicodramma», n.1-1975, Milano. pag.19
  3. B. Croce, Il gioco psicodrammatico come induttore della rêverie, in «Funzione gamma» n. 426-2004, pag.5
  4. Winnicott, Gioco e realtà, trad. it. Armando Roma, 1974, pag. 102
  5. Lemoine, La pulsione scopica, in «Atti dello psicodramma» n.1 (1975), Milano, pag.17

 

Bibliografia

Chasseguet-Smirgel J. (1987), Creatività e perversione, Cortina, Milano

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