Permettetemi di pensare e credere che sia oggi difficile trovare un operatore della salute mentale che si occupi di soggetti migranti che non abbia difficoltà rispetto al posto da occupare all’interno dell’apparato terapeutico necessario alla cura di chi soffre. Non che la difficoltà riguardi la sua posizione etica: che sia un educatore o un operatore addetto ai servizi, che sia uno psichiatra o uno psicoanalista, la questione non cambia. Non si può non essere dalla parte del soggetto, non c’è e non può esserci alternativa. Non si può che stare dalla parte del soggetto dell’inconscio, del soggetto desiderante, dalla parte cioè, di chi fa i conti con la propria storia e con il proprio desiderio in rapporto a quello dell’Altro, di chi si è assunto la responsabilità, sovente in maniera inconsapevole, dei propri atti e che, proprio per questa responsabilità, è l’artefice della sua condizione esistenziale. Questo al di là di ogni cultura, del continente dove si è nati, del colore della pelle. Ciò che crea la difficoltà sono, piuttosto, l’odio razziale, la discriminazione culturale e la violenza gratuita e intollerabile che hanno caratterizzato e caratterizzano questo momento storico, culturale e politico della nostra nazione e non solo.
È ciò che magistralmente Jacques Lacan ha definito essere un mondo che è “im-mondo” e che Jacques-Alain Miller nel suo scritto Elogio degli eretici ha definito come quel «mondo che non può più essere pensato come armonioso, come un cosmo, costituito dalla corrispondenza perfetta tra microcosmo e macrocosmo, ma come un mondo eroso dalla distruzione e dall’aumento vertiginoso delle persone deportate, esiliate»1.
Bisogna dunque essere eretici, nel senso indicato da Miller, essere cioè staccati “da qualsiasi conformismo” ma associati “con altri senza uguali” e non cadere nella trappola della sospensione del giudizio, propria di una certa psicoanalisi, perché «le difficoltà iniziano quando l’analista vuole continuare a sospendere il giudizio nelle questioni politiche, che vuol dire continuare a non scegliere». «Proporre la teoria del non scegliere – ci dice ancora Miller – come fosse il punto culminante della posizione analitica, è solo una teoria del doppio gioco. Non scegliere vuol dire non essere eretici. Quelli che non scelgono sono sempre i conservatori, gli ortodossi, i dogmatici, che non hanno bisogno di scegliere perché hanno il potere»2. E noi, che ci occupiamo dell’ascolto di chi soffre non possiamo non sporcarci le mani, non possiamo non stare dalla parte di chi il potere non ce l’ha se non solo quello delle parole. E noi sappiamo bene che «la protezione della minoranza è il criterio della democrazia, quanto, e forse più, che non il governo tramite la maggioranza»3. Ciò che è fuori da qualsiasi logica, e mi riferisco a quella dell’accoglienza, dell’ascolto e del prendersi cura da parte delle istituzioni – che siano queste le Commissioni Territoriali o le Comunità e i loro operatori, ciò che è fuori da qualsiasi logica, dicevo, è che l’orrore dell’esperienza vissuta e raccontata, il terrore dell’essere stati a contatto con quell’esperienza limite per ogni essere umano che è il venire a contatto con la morte, oggi, per assolvere ad un mandato istituzionale, non solo non viene creduta ma, piuttosto, mercificata per interessi politici riproducendo in tal modo ciò che appartiene alla memoria del trauma, la sua riattualizzazione. La rappresentazione dell’osceno, al giorno d’oggi, non incontra neanche il limite della vergogna.
La storia della psicoanalisi ci insegna anche che il rapporto tra verità, storia e politica è stato caratterizzato, fin troppo spesso, da una conflittualità che ha assunto in un recente passato, note che sono andate ben al di là di un confronto dialettico, assumendo toni ed azioni di vera e propria persecutorietà: in un’epoca dove l’ideologia negazionista sembra quasi prendere il sopravvento, ricordo che negli ‘20 e circa per settant’anni la psicoanalisi in Russia fu molto osteggiata, che lì dove la dittatura è stata al potere la libertà di pensiero, la ricerca della verità e la psicoanalisi sono state escluse dalla vita sociale e che nel ‘38, Freud, per poter ottenere il visto d’uscita dall’Austria, dovette sottostare alla condizione di dover sottoscrivere, sotto dettatura delle autorità tedesche e della Gestapo, che era stato trattato «con tutto il rispetto dovuto alla fama di scienziato». Freud in quell’occasione, però, chiese all’ufficiale della Gestapo la possibilità di aggiungere una frase, scrivendo di suo pugno «Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia» mantenendo, in tal modo, alto il valore della verità storica che ancora si andava negando. Ed oggi, che si arriva anche a negare i lager libici e le torture di cui sono fatti oggetto tutti coloro che passano per quei luoghi, credo che chiunque lavori nell’ambito della salute dei migranti debba avvertire l’obbligo etico e morale di denunciare tutto ciò e di non colludere con quanto risulta essere un rigurgito di storia passata, ben radicata nella nostra, testimone di un’arretratezza culturale che non si è, fino ad ora, voluta superare. Dire che l’Italia è un Paese capace di tollerare la diversità, oggi sembra più un motto di spirito che altro. Il governo, che si fa portavoce dell’ignoranza e dell’odio razziale, è oggi quello che gran parte degli Italiani ha voluto e che applaude ogni qual volta si verificano scene da caccia all’uomo e dove quest’ultimo ha, invariabilmente, la pelle nera. Cosicché il lavoro che ci compete e che andiamo ad effettuare, deve tenere conto anche di questo aspetto: al di là del proprio volere, vi è ambivalenza, mistificazione e contraddizione nell’istituzione in cui si opera, dal momento che essa è inserita e fa parte di un assetto istituzionale che risponde ad una logica escludente e, in quanto tale, razzista. L’odio razziale, ciò di cui si parla, è strettamente connesso con l’ignoranza e questo, per saperlo, non dobbiamo certo cercarlo nelle parole di Tahar Ben Jelloun quando ci ricorda che il razzismo nasce dalla paura, dall’ignoranza e dalla bestialità4.
L’ignoranza, in questo caso, non è solo fondata sulla mancanza di nozioni e contenuti culturali, cosa riscontrabile, comunque, nei discorsi che ultimamente sono stati pronunciati con sfrontatezza e senza rispetto alcuno, ma si fonda principalmente sulla incapacità di entrare in contatto con le parti più intime del proprio sé. È l’ignoranza di chi preferisce non sapere della propria estraneità a sé stesso, della propria costituzione soggettiva che è fondata sulla dialettica con l’Altro, una estraneità costitutiva, strutturale, nel soggetto, che risulta irriducibile a qualsiasi comprensione. La clinica psicoanalitica ci insegna, però, che questa ignoranza rimanda ad una posizione soggettiva ben precisa, rimanda alla non disponibilità da parte del soggetto a dialettizzare le proprie istanze personali, il proprio modo di essere, con quelle degli altri, posizione che affonda le proprie radici nella credenza paranoica che vi sia solo una verità, la propria, risultato questo di un sapere acquisito solo a scopo difensivo e finalizzato a fornire un’immagine di sé mistificata e falsa.
La psicoanalisi ci ha dato un’altra chiave di lettura per comprendere l’estraneità del soggetto: esso è straniero perché il suo luogo è, sempre, il luogo dell’Altro. È all’Altro che viene demandata la questione della sua costituzione soggettiva. Il bambino, qualsiasi sia il colore della sua pelle, qualsiasi sia il luogo della sua nascita, qualsiasi sia la cultura all’interno della quale costruirà la propria esistenza, non può che ricevere dall’Altro i significanti che lo costituiranno, non potrà che chiedere all’Altro il posto che occupa nel suo desiderio: il soggetto, cioè senza l’Altro, è destinato alla sua morte psichica. È questo che lo rende estraneo a sé stesso; è il fatto che per “essere” deve passare dalla definizione che l’Altro darà di lui. È ciò che lo rende alienato. E questa è una dimensione strutturale e, in quanto tale, ineliminabile. L’ignoranza razziale si fonda proprio su questa incapacità di riconoscere questa dimensione che Lacan definisce con il termine di extimité 5, una estraneità contemporanea a quanto di più intimo il soggetto possiede e che Freud aveva chiamato Unheimlich6, la cosa più intima che si trova all’esterno, che perturba ciò che si crede pacifico, la beanza in seno alla propria identità con cui il soggetto deve fare i conti.
Sia per Freud che per Lacan, dunque, l’estraneo non è altro che una sorta di residuo d’essere, un residuo pulsionale impossibile da espellere del tutto, che mantiene l’apparato psichico in uno stato di disequilibrio strutturale. E Lacan ha coniato il termine extimité proprio per indicare questo processo.
Ma cosa ha a che fare tutto questo con il trauma? Una delle dimensioni di quella che è ormai diventata una categoria nosografica è la sua riproducibilità, il suo riattualizzarsi con manifestazioni sintomatologiche sempre più acute e destrutturanti che sono, come tutti coloro che lavorano con soggetti traumatizzati sanno bene, le manifestazioni attuali di un processo che si è strutturato in tempi passati. Freud proprio in tal senso ha utilizzato un termine che è al centro della questione del trauma, della sua collocazione temporale e dei suoi effetti ritardati: nachträglich, l’après-coup, il dipoi, il suo effetto retroattivo, nell’accezione lacaniana, che mostra proprio questa struttura temporale del trauma. Dell’azione differita del trauma Freud ne parla fin dal 1895, nel suo Progetto di una psicologia, quando dice che «troviamo sempre che viene rimosso un ricordo il quale è diventato un trauma solamente più tardi»7.
Ed è sicuramente alla psicoanalisi, che del concetto di trauma ha costruito, come dice Roberto Beneduce «una complessa teoria del tempo, della memoria e della verità»8, che si deve fare riferimento dato che ne ha fatto un concetto cardine della sua teoria tanto che essa si fonda proprio sul concetto di trauma. È grazie alla psicoanalisi che oggi sappiamo che il cammino che va dal trauma al sintomo è unidirezionale e che è proprio la via del ritorno che è tagliata. Questa via di ritorno, dal sintomo al trauma, lo sappiamo dalla clinica, è per il soggetto impossibile da cogliere, da ricordare, essendo essa ricostruita dall’analista. Sappiamo anche che il trauma, qualunque esso sia, è essenzialmente connesso a un evento intercorrente che nasce dall’esterno e che si concentra non solo sulla realtà, l’intimità o la qualità dell’evento vissuto, ma anche sulla disposizione personale del soggetto e sulla sua specifica realtà mentale. Il trauma, minaccia l’intero processo di costruzione del senso, dei valori e dell’esistenza del soggetto. Una definizione che ritroviamo nella classica Enciclopedia della psicoanalisi di Laplanche e Pontalis ci dice, infatti, che il trauma è un «evento della vita che è caratterizzato dalla sua intensità, dall’incapacità del soggetto a rispondervi adeguatamente, dalla viva agitazione e dagli effetti patogeni durevoli che esso provoca nell’organizzazione psichica. In termini economici, il trauma è caratterizzato da un afflusso di eccitazioni che è eccessivo rispetto alla tolleranza del soggetto e alla sua capacità di dominare e di elaborare psichicamente queste eccitazioni».9
Sappiamo che Freud, dopo aver proposto una prima concezione del trauma fondata su un evento sessuale reale, la seduzione da parte di un adulto nei confronti di un bambino o di una bambina, rilesse il trauma alla luce del fantasma, dando in tal modo una sempre maggiore rilevanza alle ricostruzioni inconsce e pulsionali di esso, dato che verità e fantasia nell’inconscio si equivalgono. Ma pur nella diversità dei modelli proposti, per la psicoanalisi, è sempre rimasto un punto fondamentale quello della relazione tra la capacità di tollerare la frustrazione da parte del soggetto e la funzione dello scudo protettivo il cui venir meno sta alla base dell’evento traumatico. Questo accento posto sul versante della soggettività del trauma, sulla capacità cioè di tollerare la frustrazione, chiamata anche “resilienza”, pone una questione non di poco conto, entrando nel merito della partecipazione, dell’implicazione soggettiva in ciò di cui soffre. Per intenderci, secondo la psicoanalisi, anche per ciò che riguarda l’effetto che il trauma produce nel soggetto, alla luce delle diverse risposte che si possono avere come effetto dell’esposizione ad eventi traumatici, ebbene, proprio in questa diversità di risposte, la psicoanalisi intravede una partecipazione soggettiva che, in quanto tale, si lega alla dimensione fantasmatica ed al suo godimento.
È questo che ha permesso a Freud di teorizzare che il trauma è sempre l’effetto retroattivo di un evento che ha la sua origine in un tempo antecedente che non ha avuto modo di essere elaborato.
È vero anche che oggi, il trauma, non è solo quello che possiamo supporre nell’inconscio, ma il trauma è quello che nella quotidianità si suppone essere dappertutto e che ritroviamo sotto forma di accadimenti della storia, di fatti contingenti e non previsti. Il trauma, che ci si rifaccia alla psicoanalisi o a qualsiasi altra teoria che ne legga le sue coordinate fenomeniche, comporta sempre un’effrazione, una violenza, un eccesso che assale il soggetto provocandone uno shock. Questo essere colto alla sprovvista che, se ci si riflette bene, è assolutamente coerente con quella rottura dello scudo protettivo all’origine della teoria freudiana del trauma, ha come conseguenza il fatto di spostare il soggetto da parte in causa a vittima di un reale, impossibile da prevedere o da evitare, che con la sua irruzione nel campo del soggetto produce effetti spesso destrutturanti. Ma cosa può causare la rottura dello scudo protettivo se vi sono differenze individuali in risposta all’effrazione traumatica? Quale componente della storia del soggetto può risultare deficitaria tanto da far in modo che il soggetto si trovi in quella condizione di impotenza che, sempre Freud, ha definito con il termine di Hilflosigkeit e che è la conseguenza di un aumento di eccitazione che lascia il soggetto incapace di difendersi? L’aumento di eccitazione noi possiamo riferirlo sia alle istanze pulsionali che alle minacce esterne, agli eventi traumatici della quotidianità. Allora, quello che sembrerebbe evidenziarsi, in questo discorso intorno al trauma è che ciò che viene meno, che fa sì che ci sia rottura dello scudo protettivo è la condizione di impotenza soggettiva dovuta anche all’impossibilità di padroneggiare un determinato evento non avendo le strutture simboliche per farlo, ritrovandosi cioè in una condizione di fragilità nel rapporto con ciò che avrebbe dovuto garantire la propria sicurezza. Questa mancanza di sicurezza, allora, possiamo anche pensarla come l’effetto del venir meno della funzione del legame sociale, cioè del modo con cui il soggetto si relaziona, con il suo desiderio, con l’Altro in quanto a sua volta soggetto desiderante. È all’interno di questa dinamica che è così possibile cogliere quell’effetto traumatico che Freud ha introdotto con la sua lettura all’interno delle primissime relazioni parentali. Il trauma, dunque viene a caratterizzarsi intorno a quell’area che possiamo definire come il “sentirsi lasciato cadere dall’Altro” da parte del bambino, là dove il bambino si aspettava dall’Altro qualcosa. Si aspettava, cioè, di far parte dell’organizzazione libidica dell’Altro, di essere oggetto del desiderio di questi, di essere importante per lui, senza ricoprire, come le prime teorie sulla seduzione e quella successiva del fantasma proposte da Freud avevano ben messo in evidenza, il posto dell’oggetto goduto dall’Altro, di un Altro senza limiti e dal desiderio mortifero. È questa dimensione che caratterizza quella condizione di “impotenza”, l’ Hilflosigkeit freudiana cui si faceva riferimento poco sopra, che comporta la paralisi del soggetto traumatizzato. In questo discorso, apparentemente assai complesso, è possibile rintracciare quegli elementi che la clinica attuale del e sul trauma presentano sotto l’egida del Disturbo da Stress Post Traumatico (anche se in questa clinica ciò che manca è l’accento posto sulla singolarità del soggetto, come le varie edizioni del DSM mettono bene in luce) su cui si incardina tutta la prassi terapeutica, compresa la clinica transculturale che del trauma si è occupata, e non solo, ovviamente, per trattare gli effetti destrutturanti, nei soggetti, di decenni di colonizzazioni, di distruzioni delle matrici simboliche e delle leggi che ne regolavano il funzionamento sociale e politico dei paesi depredati. Quest’ultimo aspetto permette di leggere tutta la problematica sul trauma sotto un altro versante, senza per questo escludere ma anzi integrandosi con il modello psicoanalitico, quello degli effetti che la brutalità della storia coloniale ha prodotto sulla sofferenza di migliaia di esseri umani che si sono trovati a fronteggiare il terrore di una violenza senza limite agita, per il tramite di uomini senza scrupolo, da Paesi il cui unico interesse è stato lo sfruttamento delle risorse territoriali e la mortificazione dei loro abitanti.
Se da un lato è anche possibile pensare all’epoca attuale come un’epoca traumatizzata, la promozione di questo concetto a categoria clinica all’interno della quale far convergere temi ritenuti in precedenza appannaggio di altre modi di leggere le contingenze della quotidianità, la promozione di questo concetto, dicevo, ha comportato, però, una sorta di banalizzazione e di destoricizzazione delle esperienze traumatiche10 facendo perdere la particolarità e l’unicità dell’esperienza vissuta. Ma proprio perché il trauma è un evento spesso subito e si inscrive nel luogo dell’indicibile, in un buco nero del senso, che possiamo dire che di esso non si fa esperienza, non riuscendo mai a comprenderlo del tutto. Del resto, come è possibile comprendere l’esperienza della tortura, quando essa, come ben descrive Michel de Certeau11, mira a porre il soggetto di fronte alla propria fragilità, alla propria intima indecenza, a quella condizione estrema di umiliazione, che così spesso abbiamo sentito nei racconti dei soggetti, uomini e donne, minori ed adulti, senza che questo possa fare alcuna differenza, dalla quale diventa anche impossibile pensare qualsiasi ribellione? L’accento, in questo caso non può non essere messo su quell’aspetto che siamo chiamati ad ascoltare ed a curare, a lenire con l’aiuto delle parole, e che rimanda «all’intenzionalità distruttiva dell’uomo stesso»12. Questa intenzionalità è quella che si ritrova, nella sua drammatica ripetizione, utilizzando anche una lettura della Storia e dei rapporti sociali, che consente di comprendere un fenomeno, in questo caso il trauma, senza l’utilizzo delle categorie diagnostiche che si basano sulla oggettività dell’esperienza traumatica: mi riferisco alla trasmissione intergenerazionale del terrore e della violenza che si tramanda attraverso quelle che possiamo chiamare “memorie incorporate” e che trovano, proprio nel corpo, la possibilità di essere, dolorosamente, narrate. Ed è qui che ritroviamo quella duplice posizione soggettiva, nel dolore che il corpo trasmette e che rievoca, espressa tra la possibilità di cedere all’oblio della violenza subita o, piuttosto, alla necessità di ricordare, di dare un nome ed un senso a quanto vissuto, di circoscrivere il bordo del buco di senso, di rendere dicibile quella violenza senza limite di un Altro non regolato che ha fatto del proprio sadismo, della propria perversione, la marca del proprio esserci. La scelta del ricordo e della cura attraverso le parole, della sua rievocazione drammatica, della riesumazione di volti, frasi, gesti che hanno caratterizzato la violenza e la tortura subita e che hanno marchiato il corpo con la loro consistenza, è un ritorno all’inferno dell’esperienza, è un riattivare la testimonianza che il corpo offre, che l’irrappresentabile è stato rappresentato, che la perversione della violenza ha avuto luogo, testimoniata ancora una volta dalla sofferenza e dall’orrore delle scene che si ripresentano. E qui si pone anche un’altra questione, questione che apre al rapporto tra realtà e verità dell’esperienza traumatica. Possiamo, per esempio interrogarci se già il significante stesso che così facilmente utilizziamo, quello di “trauma” sia sufficiente a dire tutto il possibile del dramma dell’esperienza limite vissuta, dell’estrema sofferenza, della mortificazione del corpo o se, piuttosto, il significante usato, nella sua “insaturicità”, non lasci fuori senso parte dell’esperienza soggettiva, del dramma umano e del suo rapportarsi ad una violenza senza limite. Ancora, se il racconto del trauma sia da ascrivere dal lato della realtà dell’esperienza vissuta o, piuttosto, su quello della verità, fatta di parole attraverso le quali il soggetto ha l’unico modo di rappresentare e storicizzare il proprio esserci. Questa dicotomia entra, per esempio, pesantemente in gioco quando le Commissioni Territoriali sono chiamate a valutare l’attendibilità dei fatti narrati, delle esperienze vissute, sancendo spesso con le loro valutazioni, quello che il “trauma intenzionale”, così ben descritto da Françoise Sironi13, ha già in un tempo neanche tanto passato, imposto. Il trauma intenzionale è un trauma indotto, voluto da esseri umani o da quelle costruzioni ideologiche o credenze che non sono altro che loro espressioni, loro modi di rappresentare una concezione del rapporto con l’Altro basato sulla violenza, lo sfruttamento e l’asservimento. La forza espressa dal trauma, dunque, dice al contempo sia il sistema che la alimenta che la radice umana abitata da una pulsione mortifera che trova, nell’intenzionalità, il suo modo di esprimersi: lo fa attraverso la tortura, la disumanizzazione, la deculturalizzazione con l’obiettivo di produrre una trasformazione ed un mutamento dell’essere. Questa memoria traumatica, che si trasmette di generazione in generazione ed attraverso la storia collettiva dei popoli, rimane incistata e spesso silente, nella vita dei singoli, nelle memorie traumatiche spesso non sapute di chi, in maniera del tutto casuale, talvolta, entra in contatto con accadimenti che ne risvegliano la loro presenza. Cosa si può opporre, allora a questa legge del trauma? E come pensare la sua narrazione, che diventa per ciò stesso, testimonianza, in rapporto a quella dimensione di verità soggettiva cui si faceva cenno prima? Quale cura è possibile degli effetti devastanti dei traumi intenzionali, dall’efferatezza degli esseri umani, dal godimento mortifero che anima coloro che i traumi li infliggono?
Al nostro Servizio di Psicologia dell’ASP Palermo abbiamo dovuto affrontare due questioni diverse: quella dell’intervento al momento dell’arrivo in città delle navi che avevano soccorso in mare giovani africani provenienti dalla Libia, spesso salvati da un naufragio che ad alcuni di loro era costata la vita; l’altra, la questione della loro presa in carico e della loro cura. Questi due momenti, inizialmente distinti – prima ci si è occupati dell’accoglienza all’arrivo al porto di Palermo – sono stati effettuati in concomitanza, nel momento in cui si è costituito l’Ambulatorio per la presa in carico ed il trattamento dei Minori Stranieri Non Accompagnati vittime di abuso e violenza dove lavoro, insieme ad una collega, per poi, in questo ultimo periodo, caratterizzarsi come solo intervento clinico rivolto alla presa in carico dei ragazzi immigrati. Il nostro intervento sulla banchina del porto, all’arrivo delle navi stracolme di uomini, donne e minori spesso non accompagnati provenienti dall’Africa, sfiniti da un viaggio di ore o di giorni su barconi e gommoni fatiscenti, in condizioni disumane – viaggio che ha pur tuttavia posto fine a periodi dove l’orrore dell’indicibile fatto di violenze sessuali, torture e brutalità di ogni tipo vissute nelle carceri o nelle connection houses libiche – il nostro intervento, dicevo, ha dovuto ascoltare voci senza suoni che solo le esperienze traumatiche più terribili riescono a rendere assordanti, osservare sguardi pieni di angoscia per ciò che avevano vissuto ed a cui avevano assistito – la morte spesso di parenti, fratelli, genitori, figli o di semplici compagni di viaggio e di speranze – movimenti rallentati che solo chi vive nel terrore e nell’attesa della brutale e prepotente violenza dell’Altro può rappresentare. Il nostro intervento, in questo scenario di orrore si è estrinsecato in una presenza solidale e comprensiva del dolore altrui, in un ascolto partecipe anche lì dove le parole e i suoni non potevano essere uditi, in una disponibilità a servire loro da ancoraggio e da supporto, capace di rendere reale il prendersi cura anche delle loro necessità elementari. Questa prima fase di intervento, come si può ben capire, ha dovuto anche fare i conti, in noi operatori (psicologi, medici, infermieri, mediatori culturali) con i resti che i racconti ascoltati o le immagini dei loro corpi e dei loro sguardi, cui non potevamo sottrarci, producevano in noi stessi. È un lavoro di elaborazione e di chiarimento, fatto di incontri e di racconti, su ciò che ci succede nell’essere esposti alla tortura raccontata, racconti che non possono non lasciare traccia.
Altra questione si è posta, poco dopo, quando siamo stati incaricati anche di occuparci dell’ascolto e della cura di quanti, giunti in Sicilia, transitavano nel territorio palermitano nelle comunità di prima e seconda accoglienza. Dovevamo farci carico di quell’ambito di esperienza traumatica che Marcelo Vignar, uno psichiatra latino americano vissuto in Francia dopo essere fuggito dal regime dittatoriale del suo Paese, ha descritto con queste parole: è tortura «ogni comportamento intenzionale, qualunque siano i metodi utilizzati, che ha il fine di distruggere il credo e le convinzioni della vittima per privarla della struttura di identità, che la definisce come persona»14.
Ma a partire da quale domanda? E quale cura possibile proporre e, alla luce di quanto detto prima, di quale trauma eravamo chiamati a rispondere e ad ascoltare?
Un’altra questione, inoltre, si poneva nel rispondere al nostro mandato: l’esperienza fatta durante le operazioni di arrivo a Palermo di questi ragazzi e l’evidenza somatica, spesso, ci hanno fatto costatare che, in un’alta percentuale di casi, dovevamo occuparci non soltanto di soggetti anagraficamente minori, ma anche di soggetti che pur dichiarandosi tali non lo erano nel loro Paese di provenienza. Non solo: vi era un’altra questione da dover prendere in considerazione. Questi minori hanno dimostrato, con i loro atti, di essere molto più “adulti” di ciò che il nostro immaginario ci porta a considerare. Sono soggetti, cioè, che nella loro vita, per le contingenze sociali e familiari vissute nel loro Paese e per la loro storia migratoria, hanno dimostrato di essere capaci di soddisfare, spesso da soli, i bisogni alimentari utili per la propria crescita, di mobilitare istanze psichiche ed affettive finalizzate alla messa in atto di strategie in grado di provvedere alla sopravvivenza emotiva, di sopravvivere all’orrore della miseria, dell’abbandono e della violenza intenzionale. Si doveva, dunque, pensare ad una cura che considerasse l’ascolto di soggetti che, con i loro atti, avevano dimostrato ampiamente di essere capaci di farsi carico delle loro necessità personali, che avevano saputo resistere alle contingenze di un Reale senza senso, affrontandolo con quanto di più intimo possedevano, la loro struttura di desiderio. Si doveva, pur tuttavia, considerare anche che questo ascolto, pur cogliendo l’unicità di una responsabilità soggettiva e di una loro capacità di provvedere a se stessi, doveva prevedere la presenza sia di una tutela legale che di una funzione di advocacy, che ne delegittimava, però, almeno parzialmente, il riconoscimento stesso della loro libertà, capacità di scelta e autonomia.
E poi c’era l’aspetto più gravoso: se la tortura ha per finalità quella di annientare il prigioniero, di privarlo della sua identità, di escluderlo dal suo gruppo di appartenenza, dalla sua cultura e dai suoi valori, se lo scopo è devitalizzare la sua vittima, rendendola oggetto di un godimento senza limite di un Altro abitato da un desiderio perverso, sadicamente orientato, come affrontare la questione della cura, della presa in carico di coloro che sono stati privati della dignità e della loro stessa percezione di esseri umani, senza correre il rischio di essere inizialmente annoverati nella serie dei persecutori? La cura del trauma, infatti, deve affrontare il passaggio determinato dal fatto che esso stesso è il risultato di una violenza inferta volontariamente da un altro uomo. E questa violenza se, da una parte, chiede di essere dimenticata, dall’altra il dolore che si ripresenta nell’esistenza quotidiana, negli incubi notturni, nei dolori di cui il corpo si fa portavoce, sono la testimonianza, piuttosto, di una difesa proprio contro questa volontà che su l’orrore cali l’oblio, che il ricordo si cancelli, che magicamente, quella che di ciò che è stata la propria storia, non rimanga nessun ricordo. Questi ragazzi dal passato e dal presente indistinguibili, confusi e contraddittori, con i loro flashback, i pensieri intrusivi, gli incubi durante i quali il passato ritorna e si confonde con il presente, con un’identità devastata e senza capacità di controllo delle proprie emozioni, spesso in balia di comportamenti ed azioni apparentemente immotivate ed “etichettate” come aggressive e violente, tutti effetti dell’esposizione al trauma, presentavano anche un altro delle conseguenze delle esperienze vissute: quella sensazione di possesso, di cui parla Françoise Sironi e che è l’esito del processo “dell’influenza”15 che si riscontra dopo essere stati esposti a sessioni di tortura e che rimane attivo anche dopo che queste siano terminate: la tortura che è spesso accompagnata da frasi che destrutturano il senso di continuità vitale dell’essere umano, rimangono imprese nella memoria della vittima, tanto da crearsi una sorta di dialogo interno che non fa che presentificare e riattualizzare la violenza subita, in una spirale senza uscita. Abbiamo così, cercato, con i nostri interventi, di essere il meno intrusivi possibili, di frapporre all’arbitrio, alla violenza ed al sadismo dell’Altro del trauma, una presenza regolata, mite e quanto più attenta a ricevere da questi ragazzi indicazioni utili per il nostro posizionarci, affinché potessimo cogliere, con le loro indicazioni, fin dove si potevano spingere nel raccontarci le loro esperienze, nel tentativo di contornare quel buco di senso che la violenza dell’Altro scava nell’esistenza umana. E’ un modo per permettere al soggetto di ricostruire un discorso in cui trovare pezzi della propria storia che possano legarsi alla sua condizione attuale e che possano creare un legame sociale senza correre il rischio di essere annientato. E’ una cosiddetta clinica del preliminare del preliminare, dove risulta prioritario tentare di decostruire e delegittimare la presenza dell’Altro persecutore, al fine di riattivare le risorse soggettive presenti prima dell’esposizione all’esperienza traumatica. Ed è un modo di prendere posizione a fianco del soggetto, attaccando in maniera esplicita la colpevolezza del carnefice, esplicitando e ridefinendo le manifestazioni sintomatiche di cui sono portatori le vittime come strategie atte alla loro sopravvivenza. Per far fronte a tutto questo abbiamo trovato utile ed opportuno un lavoro in co-terapia strutturato in piccolo gruppo aperto, al cui interno sono presenti, oltre ad un mediatore culturale, altre figure (psicologi e antropologi). Questo assetto, è risultato utile e protettivo non solo per noi terapeuti, ma è capace di offrire un ascolto diversificato, dove le valenze transferali vengono indirizzate anche su altre figure evitando la canalizzazione di eventuali affetti ed emozioni a valenza persecutoria su un solo terapeuta.
Brevemente vorrei presentarvi, adesso, due frammenti clinici, nella speranza di rendere un po’ più chiaro quanto sopra riportato.
Ousman, è un giovane ragazzo senegalese non ancora maggiorenne, che ci è stato segnalato per una eventuale presa in carico, dalla responsabile di una comunità di secondo livello, per i suoi atti di intolleranza verso le regole comunitarie e per la sua alterna adesione ai progetti “psico-educativi” previsti dai protocolli ministeriali e della comunità. Di lingua madre ed etnia Wolof, di religione musulmana, Ousman è cresciuto fino ai suoi otto anni all’interno del nucleo familiare originario composto dal padre agricoltore, dalla madre casalinga e da altri tre fratelli. Da quell’età, acquisita una maggiore autonomia e per la voglia di trascorrere più tempo con gli amici, è stato affidato dal padre, data la sua difficoltà ad imporsi, al proprio fratello, sposato, con tre figli e di professione muratore. I metodi “educativi e correttivi” messi in atto da questi nei confronti del nipote, sono stati più degli atti di violenza che altro. Ousman è stato malmenato e percosso per ottenere quanto richiestogli, ponendo in essere una sostanziale differenza all’interno della sua nuova famiglia: nei confronti dei figli naturali dello zio non venivano esercitati gli stessi metodi educativi. Accondiscendente nei confronti della decisione paterna, in quelle rare volte che Ousman ha avuto modo di sentirlo, non ha mai fatto cenno a quanto accadeva dallo zio negandosi, in tal modo, la possibilità di un ritorno a casa. Una volta cresciuto e fisicamente in grado di frapporsi al suo educatore questi lo ha invitato andare via, riproponendo la stessa modalità di rifiuto già attuata dal padre e dalla sua famiglia originaria. Così, la sua decisione di lasciare la casa dello zio senza alcuna meta programmata è coincisa anche con l’interruzione dei rapporti con i suoi familiari che, da allora, non ha più sentito. In Libia, dove si è fermato per circa dieci mesi, Ousman è stato in prigione due volte, la seconda dopo aver tentato, senza esito positivo, di raggiungere una prima volta l’Italia con un gommone. Catturato dalla polizia libica, è stato ricondotto in carcere dove ha subito violenze fisiche ed è stato fatto oggetto della tristemente nota “falaka”, la bastonatura della pianta dei piedi che talvolta arriva fino alla demolizione della volta plantare. Il secondo tentativo di raggiungere l’Italia via mare è risultato decisivo, grazie al fatto di essere stati soccorsi, lui e gli altri migranti, da una nave che li ha portati al porto di Messina senza che Ousman avesse alcun progetto relativo alla sua condizione né informazioni sul luogo di destinazione. Una volta assegnato alla prima comunità, Ousman ha presentato tutti i sintomi del cosiddetto Disturbo da Stress Post Traumatico: irascibile, incapace di tollerare qualsiasi richiesta che venisse proferita con un tono un po’ più autoritario, spesso alla ricerca di momenti di isolamento dagli altri, la notte era assalito da incubi che riproponevano le scene della violenza subita e che aveva visto fare agli altri suoi compagni di detenzione. Ma questi suoi comportamenti, contrastavano con i progetti psico-educativi proposti dalla comunità le cui azioni erano, ovviamente, guidate da una concezione dell’integrazione intesa come asservimento a logiche e regole istituzionali che nulla hanno a che fare con l’accoglienza, la conoscenza e lo scambio di valori tra culture diverse finalizzate alla loro interiorizzazione ed al rispetto reciproco. Ousman ha così iniziato il suo giro di comunità, senza che si comprendesse che il puntuale arrivo della polizia e la conseguente decisione del suo trasferimento altrove, ogni qual volta si proponeva un comportamento mal tollerato dagli operatori, non faceva che riattualizzare l’aspetto traumatico e confermare in Ousman, la convinzione di non essere importante per nessuno, di non essere oggetto del desiderio dell’Altro, desiderio fondamentale sia nella strutturazione di una stabile condizione affettiva che per l’assunzione di una consolidata identità. Ma non solo: i trasferimenti di comunità, non hanno tenuto conto, in nessun modo, del valore di domanda e di ricerca di un riferimento identitario forte ed affettivamente presente su cui poter contare, che Ousman, con i suoi agiti, proponeva. Così, abbiamo iniziato a seguirlo dopo che il suo girovagare forzato per comunità lo ha portato a Palermo, cercando di creare un assetto tale da metterlo nelle condizioni di “provare” e di “verificare” quanto noi eravamo dalla sua parte senza chiedergli nulla: nessuna istanza normativa ed educativa rientrava nel setting terapeutico, nessuna richiesta da parte nostra, ma solo la sua voglia e capacità di raccontarsi o di venire a trovarci anche senza dire nulla. Spesso, verificava il nostro “esserci” mandando un messaggio telefonico o una sua foto, o facendo semplicemente uno squillo. Questo bastava a trovare un posto all’interno di un rapporto con soggetti che non erano abitati da un desiderio mortifero nei suoi confronti senza per questo temere di essere abbandonato. Un giorno, nel suo profilo WhatsApp, ha messo una foto dove era riportato il nome di uno di noi scritto sulla sabbia e, successivamente una sorta di disegno con lo stesso nome stilizzato, segno che qualcosa stava cominciando a tenere ed a fungere da argine, anche se ancora solo immaginariamente, alla violenza dell’Altro. Il 14 agosto Ousman ha effettuato la sua tanto attesa audizione alla Commissione Territoriale, Commissione che poco meno di venti giorni fa ha esitato la sua decisione. Non è stato ritenuto credibile e la sua richiesta di protezione internazionale o umanitaria, rigettata. Dopo un’apparente accettazione della decisione, da noi temuta più di qualsiasi eclatante protesta, Ousman ha dichiarato di non voler procedere con il ricorso. L’aver ottenuto la conferma che le sue parole non contavano nulla, non erano portatrici di alcuna verità soggettiva, bastava a confermare cosa lui rappresentava nel desiderio dell’Altro: un semplice oggetto scarto di nessun valore. E’ venuto a trovarci ancora qualche volta, alternando la sua posizione tra un atteggiamento di denegazione per quanto subito («A me non interessa, ci diceva, io posso continuare a vivere senza niente, non ho bisogno di nulla per vivere …») a momenti in cui si abbandonava allo sconforto. Poco meno di due settimane fa, la responsabile della comunità ci ha chiamati avvertendoci che Ousman non aveva fatto rientro in comunità dalla notte. Da allora non abbiamo più avuto sue notizie, se non una sua foto pubblicata attraverso un social network che la responsabile della comunità ci ha fatto vedere e che lo ritrae lontano dalla Sicilia. Quanto meno è ancora vivo, ci siamo detti. Ma Ousman continuerà ad alimentare la presenza di quanti, per decisione dei nostri governi e dell’attuale, in modo particolare, vivono ai margini della vita sociale, ponendo sui pochi il peso della vergogna per quanto accaduto e l’osceno su chi si vanta di aver ridotto il numero dei cosiddetti clandestini in Italia.
Anche per Jennifer, una ragazza nigeriana, giunta in Italia nel luglio 2016 la domanda di presa in carico è stata formulata dalla responsabile della comunità dove si trovava alloggiata. Jennifer però, oltre ad essere una “migrante” di comunità, ne aveva già “attraversate” due, era anche stata ospedalizzata per le sue modalità relazionali definite “disadattive ed aggressive” e sottoposta a ricovero coatto pur risultando, dall’identificazione presso una Questura di una provincia siciliana, minorenne. Per di più, il ricovero aveva comportato la separazione dal figlio partorito appena giunta in Italia: definita non in grado di esercitare le funzioni genitoriali, il piccolo era stato affidato ad un ente comunale preposto all’uopo. Ma a Jennifer ed al bambino, era stato effettuato anche un’altra forma di violenza, a nostro avviso, ben più grave: al figlio era stato attribuito, da parte di “ignoti” nell’ospedale dove aveva partorito, il cognome “Di Dio” non rispondente a nessun cognome legato alla sua famiglia, alla sua etnia e cultura di riferimento, senza averla interpellata, così come una semplice ed “elementare norma di buonsenso” avrebbe dovuto prevedere, senza ledere il suo diritto di madre, non avendo lei mai manifestato l’intenzione di non riconoscere e non tenere con sé il proprio figlio. Jennifer è l’unica figlia nata dal matrimonio della madre con il padre, padre mai conosciuto e del quale non sa se è ancora vivo, ed ha altri due fratelli più piccoli (un maschio ed una femmina) frutto dell’unione della madre con un altro uomo, definito da Jennifer stessa, molto violento. Cresciuta in una famiglia dalle poverissime condizioni economiche, ha frequentato le scuole per circa nove anni, grazie ai pochi guadagni che la madre ricavava dal suo lavoro di ambulante fino al giorno in cui, nel 2104, è stata rapita insieme ad altre ragazze, da un gruppo di uomini mascherati, probabilmente appartenenti alla setta di Boko Haram, e portata in un bosco dove, sono state tenute senza cibo per alcuni giorni con la bocca tappata per non urlare e chiedere aiuto. Jennifer ha assistito all’uccisione con un macete di alcune delle ragazze, mentre altre, lei tra queste, sono state violentate. Riuscita a fuggire insieme ad altre, raggiunta la città di Agadez, in Niger e da qui a Sabha, in Libia, è stata ospitata da una signora dalla quale è poi scappata per non sottostare agli obblighi sessuali cui la costringeva il marito di questa. Dormendo per strada ha incontrato una donna dichiaratasi amica della madre che l’ha portata a casa sua, dove ha trovato altre ragazze costrette a prostituirsi. Jennifer ha raccontato di non aver avuto altra scelta, non sapendo dove andare, e di essersi prostituita per circa sette – otto mesi. Fuggita, è stata arrestata da un gruppo di uomini della milizia libica e portata in una sorta di prigione dove, oltre ad alcune ragazze, vi era anche l’uomo che sarà il padre del suo primo figlio. Nel corso di uno dei conflitti tra bande libiche è riuscita a fuggire e, già in stato di gravidanza, ad imbarcarsi alla volta dell’Italia.
Nel nostro Paese, Jennifer, alla luce di quanto detto ha ricevuto l’ennesima conferma della negazione, per lei, della legittimità all’esistenza ed al non riconoscimento delle sue necessità e che il suo ritenere, per lei, prioritario doversi difendere da un desiderio mortifero e di annullamento del proprio modo di essere da parte dell’Altro, è una certezza. La cura con Jennifer non può che comportare prioritariamente, alla luce di quanto sopra, che un lento lavoro di destrutturazione del desiderio perverso e mortifero dell’Altro da lei conosciuto e del quale è stata in balia e la costruzione di figure tutelanti non abitate da desideri distruttivi di cui potersi fidare e affidare.
*testo presentato nel corso dei Seminari Informativi su “La tratta di esseri umani”, organizzati dal Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Palermo, Unione degli Universitari e dall’associazione Onlus Pellegrino della Terra, dal 17 al 5 Novembre 2018
Sebastiano Vinci
Psicologo – Psicoterapeuta
Psicodrammatista Membro Titolare SIPsA, Psicoanalista membro SLP
Note
- Miller J.-A., Elogio degli eretici, Conferenza tenuta a Torino il 27 maggio 2017, nell’ambito del Congresso nazionale della Scuola lacaniana di psicoanalisi.
- Ibidem.
- Ibidem.
- Jelloun T. B., Il razzismo spiegato a mia figlia, Bompiani, Mi, 1998, pag. 38
- Lacan J. Il seminario. Libro VII. L’Etica della psicoanalisi (1959-60), Einaudi, To, 177
- Freud S., (1895), Progetto di una psicologia, in Opere, Vol.2, Boringhieri, To, 1980, pag 256
- Freud S., (1919) Il Perturbante, in Opere, Vol. 9, Boringhieri, To, 1977, pag. 82
- Beneduce R., Archeologie del trauma, Laterza, Roma Bari, 2010 pag. 46
- Laplanche J., Pontalis J.-B., Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma Bari, 1984 pag. 618
- Beneduce R., op.cit, pag 19
- Certeau de M., Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, To, 2006, pag. 199-201
- Beneduce R, ibidem, pag. 30
- Sironi F., Violenze collettive. Saggio di psicologia geopolitica clinica, Feltrinelli, Mi, 2010, pag. 26
- in Aragona M., Geraci S., Mazzetti M., Quando le ferite sono invisibili, Pendragon, Bo, 2014, pag.57
- Sironi F., Persecutori e vittime: strategie di violenza, Feltrinelli, Mi, 2001, pag 86
Bibliografia
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– Elogio degli eretici, Conferenza tenuta a Torino il 27 maggio 2017, nell’ambito del Congresso nazionale della Scuola lacaniana di psicoanalisi
Sironi F. (1999), Persecutori e vittime: strategie di violenza, Feltrinelli, Milano, 2001
– (2007), Violenze collettive. Saggio di psicologia geopolitica clinica, Feltrinelli, Milano, 2010