- “L’era biomedatica”
La progressiva e inarrestabile crescita dell’utenza Internet degli ultimi quindici anni insieme alla pervasività raggiunta dai dispositivi digitali nella quotidianità delle persone, è diventata materia di studio, nonché oggetto di dibattiti e riflessioni.
La moltiplicazione ed integrazione dei media è stata accompagnata dall’ attitudine degli utenti nel personalizzare il loro impiego. Sempre più frequentemente le persone sono in grado di muoversi autonomamente all’interno di questo variegato sistema di strumenti mediatici al fine di creare palinsesti personali, autogestiti secondo i propri interessi e bisogni, delineando così i propri consumi mediatici (Censis/Ucsi, 2013). Queste operazione di autoassemblaggio delle fonti nell’ambiente web, in cui l’utente è in grado di orientarsi tra gli strumenti mediatici disponibili, rintracciando i contenuti di proprio interesse, sono favorite da una serie di strumenti in grado di ampliare le funzioni delle persone, potenziandone le facoltà, facilitandone l’espressione e le relazioni.
Viene inaugurata una fase nuova: «l’era biomediatica (Censis/Ucsi, 2013) il cui centro è composto dalle trascrizioni e condivisioni delle biografie personali attraverso i social network, sancendo così il primato dell’io utente […] in cui il contenuto e il disvelamento di sé digitale è la prassi» (Censis/Ucsi, 2013, p. 1).
La miniaturizzazione dei device tecnologici assieme alla proliferazione di connessioni mobili e alla tecnologia del cloud computing (una sorta di archivio informatico) ed alla diffusione di applicazioni smartphone e tablet fanno sì che il soggetto-utente venga posto al centro del sistema mediatico, non solo in virtù della possibilità di costruirsi in maniera autonoma percorsi individuali di fruizione dei contenuti e di accesso alle informazioni, ma anche grazie alla diffusione dei contenuti liberamente generati dall’utente stesso.
Il rapporto Censis/Ucsi (2013) sulla comunicazione in Italia, spiega come «l’interazione tra l’ambiente comunicativo e la vita quotidiana degli abitanti di territori ipertecnologici sta producendo una vera e propria evoluzione della specie», gli utenti under trenta sono considerati i protagonisti di questa evoluzione. Sulla base dei dati raccolti in questo rapporto emerge un quadro sui principali utilizzi dei media che mette in evidenza alcune peculiarità della relazione tra i giovani e le nuove tecnologie: in Italia il 90,4% dei giovani italiani (14-29 anni) si connette a Internet, l’84,4% tutti i giorni; per informarsi utilizzano Facebook (il 71%), Google (65,2%) e Youtube (52,7%); l’utilizzo dei cellulari continua ad aumentare, soprattutto grazie alla diffusione degli smartphone sempre connessi in rete, la cui utenza è arrivata a circa al 41% degli italiani (66% circa l’utenza giovanile tra i 14 e i 29 anni).
In relazione a questi dati, sempre l’indagine Censis/Ucsi (2013) ha rilevato come negli ultimi vent’anni, dal 1992 al 2011, sia aumentata la spesa per computer ed accessori insieme alla spesa per telefoni, servizi e apparecchi telefonici. Allo stesso tempo la vendita di libri e quotidiani ha registrato un flessione che dura tutt’ora a scapito di una crescita dei quotidiani online e dei portali web d’informazione.
Di fronte a questa scenario, la forte diffusione e grande popolarità dei social network, accanto all’imperativo dell’essere sempre connessi, ha spinto molte persone, soprattutto chi ha responsabilità educative, ad interrogarsi spesso con preoccupazione sugli effetti che possono avere sulla mente e sulla condotta dei più giovani.
Davanti ad innovazioni tecnologiche radicali, le reazioni, come spesso capita, hanno formato schieramenti opposti: chi da un lato cavalca l’aspetto eccitante mettendone in luce opportunità e occasioni di crescita personale e sociale; chi dall’altro lato si oppone e illustra i rischi e pericoli di una diffusione tecnologica senza controlli che rischia di ridurre le libertà personali o peggiorare la qualità dei legami interpersonali e familiari (Regalia et al., 2013).
- Generazione digitale
Marc Prensky (2001) circa quindici anni fa coniò il termine di “nativi digitali” per identificare quei ragazzi appartenenti alla prima generazione cresciuta assieme alle nuove tecnologie digitali dove videogames, Internet, computer, riproduttori musicali digitali, telefoni cellulari e applicazioni di messaggistica istantanea sono parte integrante delle loro vite. Attorno a questa sua intuizione, egli costruisce la sua idea di nativo digitale, ovvero un soggetto assolutamente a suo agio con la tecnologia, in opposizione agli immigrati digitali (gli adulti), cioè quelle persone che hanno imparato a utilizzare le tecnologie digitali in età adulta impadronendosene a prezzo di grande fatica.
L’apprendimento e lo sviluppo dei comportamenti tra i nativi e gli immigrati è a sua volta diverso. A partire dagli anni Novanta i giovani sono cresciuti in un ambiente progressivamente digitalizzato in cui i nuovi media caratterizzano quell’universo di mezzi di comunicazione sociale personale che ruota attorno a Internet. Le principali tendenze che caratterizzano le diete mediali giovanili hanno, quindi, permesso di tracciare un “profilo della generazione digitale” (Scaglioni, 2010) in cui si possono riscontrare le specificità della relazione tra i giovani e i media: progressiva disaffezione per le forme di comunicazione alfabetiche, e in particolare per la lettura; una persistente centralità della cultura visuale, in particolare dell’audiovisivo e della tv; la navigazione fra i contenuti, spesso audiovisivi, del web 2.0 e l’utilizzo della rete con funzioni sociali come tratto generazionale specifico: sono questi gli elementi più rilevanti che emergono dall’analisi trasversale dei principali dati di consumo quantitativi della generazione digitale.
Rivoltella (www.diweb.it, 2010) sostiene l’idea di Prensky nel ritenere le tecnologie come strumenti che contribuiscono ad impostare il nostro stile cognitivo, il nostro modo di apprendere e di prestare attenzione alle cose, per esempio: la multimedialità ipertestuale dei media sviluppa abilità di navigazione trans-mediale, molto diverse dalle competenze ad esempio di argomentazione e astrazione sviluppate dalla letto scrittura. Quindi, l’adolescente che interagisce fin da piccolo con ambienti multimediali si sente perfettamente a suo agio, al contrario dell’adulto immigrante la cui interazione si svolge in maniera più faticosa. Il “nativo digitale” è esperto nella pratica del multitasking, cioè è abituato a tenere sotto controllo media diversi (ad esempio, nel medesimo tempo ascolta musica, usa il cellulare e internet e legge un libro) che lo portano a sviluppare consciamente o inconsciamente uno stile di attenzione molto diverso, da chi invece è cresciuto dentro un ambiente alfabetico. Chi è cresciuto al contrario in un ambiente alfabetico è abituato a focalizzare la propria attenzione sostanzialmente sulla pagina scritta o in generale su un oggetto ben specifico. Diversamente, il ragazzino che compie multitasking anziché svolgere un compito cognitivo alla volta, svolge più cose contemporaneamente. Ha la necessità di tenere sotto controllo più aspetti, più elementi del suo campo percettivo, quindi, la sua attenzione non è focalizzata, ma bensì distribuita e proprio perché distribuita è periferica.
Rivoltella tratta anche l’aspetto educativo scolastico, spiegando come l’iperattività dei ragazzi di oggi, interpretata come una malattia, non è in realtà patologica ma semplicemente un ritmo diverso di attenzione messo a dura prova dalla pesantezza di molte lezioni scolastiche che si traduce in incapacità a star fermi in tendenza a muoversi verso altre direzioni. Lo stile cognitivo e di attenzione dei nativi e del non nativo risultano, quindi, differenti: i cosiddetti nativi digitali sono abituati a informarsi molto più spesso sulla rete che sui libri e ad affidarsi molto meno alla propria memoria, in quanto imparano a fare le cose per tentativi piuttosto che seguire istruzioni, perciò in modo meno lineare e sistematico.
Tra le diverse competenze che l’ambiente multimediale sviluppa c’è quella che Gee definisce come work trough learning (www.diweb.it, 2010). Si tratta di tutte quelle forme ed esperienze di apprendimento in cui noi incorriamo mentre stiamo facendo altre cose che sono molto diverse da un apprendimento intenzionale. Quando un ragazzino interagisce con un videogioco, utilizza un telecomando o un computer, sta facendo cose diverse da un apprendimento finalizzato, ma mentre sta facendo tutte queste cose sta apprendendo. Apprendere mentre si fanno altre cose è un caratteristica dell’informale mediale oggi.
- Il paradigma della domestication
Sebbene l’utilizzo e il significato del concetto di “nativo digitale” abbia sollevato alcune perplessità credo sia utile, ora, spostare il discorso sugli aspetti che permettono agli adolescenti di acquisire familiarità con i nuovi media.
Innanzitutto, posiamo tranquillamente sostenere come l’interfacciarsi con strumenti tecnologici sia divenuta una prassi comune per moltissime persone, soprattutto per i più giovani. I media svolgono un ruolo cruciale nel definire il nostro rapporto col mondo, in quanto, come Manzato (2011, p. 2) riporta, diffondono contenuti e valori che plasmano la vita quotidiana, generando schemi di utilizzo e offrendo opportunità di connessione”.
Per comprendere o interpretare le pratiche di consumo mediale da parte delle persone, ma soprattutto degli adolescenti, credo sia opportuno citare il paradigma della domestication sviluppato nell’ambito dei media studies britannici all’inizio degli anni Novanta, il cui obiettivo era quello di approfondire il peso ed il ruolo che le tecnologie dell’informazione e comunicazione (ICT) rivestono nella sfera quotidiana delle persone. Questo paradigma offre la possibilità di ridefinire il ruolo svolto dalle tecnologie comunicative nella vita quotidiana, sia in quanto oggetti, sia in quanto piattaforme per l’elaborazione di contenuti mediali (Qualizza, 2013). Inoltre, viene data rilevanza ai vissuti sociali e simbolici che marcano l’incorporazione delle nuove tecnologie nel contesto della vita quotidiana, volgendo particolare attenzione per le pratiche di consumo delle giovani generazioni. L’ipotesi di fondo è che le tecnologie non vengano semplicemente adottate e utilizzate, ma integrate e rivestite di nuovi significati, in relazione alle attività e agli interessi che caratterizzano la quotidianità degli utenti. Come evidenziato da Qualizza (2013, p. 186): “non sono dunque le funzionalità o caratteristiche insite degli artefatti (computer, tablet, cellulari /smartphone, ecc.), ma i progetti di senso e le finalità di carattere comunicativo che i soggetti cercano di perseguire, a svolgere un ruolo centrale nella relazione tra consumatori e nuove tecnologie”.
Questa analisi opera, soprattutto, nella direzione di un superamento della visione deterministica, cioè quella teoria riduzionista che vede nella tecnologia di una società la guida per lo sviluppo sociale e dei valori culturali. A sostegno di ciò Aroldi (2010) spiega come l’ingresso delle tecnologie dell’informazione e comunicazione nella sfera quotidiana non debba essere concepito come un meccanismo lineare e univoco, ma piuttosto come un processo che implica trasformazioni e adattamenti reciproci tra i dispositivi mediali e gli spazi della vita quotidiana destinati ad accoglierli.
Fin dagli anni Novanta, veniva dato per scontato che lo spazio domestico fosse il luogo in cui avveniva la subordinazione degli oggetti tecnologici alla nostra soggettività, ma come precisato da Aroldi (2010, p. 10) «addomesticare non significa solo introdurre nell’ambiente casalingo nuovi dispositivi tecnologici, rendendoli familiari e di uso quotidiano, ma significa anche modificare tempi e spazi di tale ambiente grazie alla presenza delle tecnologie, aprendoli al di là dei loro confini fisici su nuove soglie simboliche». Infatti, grazie alla mobilità di questi dispositivi addomesticati anche altri spazi non domestici, come i mezzi di trasporto, il luogo di lavoro, e altri luoghi della vita sociale «possono essere abitati in modo nuovo, iscrivendo in essi qualcosa dell’esperienza intima, privata e rassicurante dell’essere a casa» (Aroldi, 2010, p. 10).
3.1 I punti principali
I cardini della teoria della domestication poggiano su tre punti: l’economia morale dell’unità domestica, la doppia articolazione e le dinamiche di assimilazione delle tecnologie.
La conversione di un oggetto estraneo in una presenza abituale avviene tramite un doppio movimento che coinvolge sia le tecnologie che gli attori sociali. In questa operazione si ha un adattamento reciproco attraverso il quale le tecnologie si trasformano man mano che vengono utilizzate, adattandosi al contesto socio-culturale, mentre le culture e le pratiche di consumo si modificano di volta in volta in base alle opportunità e vincoli offerti dalle nuove tecnologie (Qualizza, 2013).
Definito ciò, fin dai primi studi l’unità domestica viene identificata da Silvertsone e Haddon (Qualizza, 2013) come il luogo in cui prende corpo il doppio movimento che caratterizza l’inserimento e integrazione dell’oggetto entro gli spazi della vita quotidiana. Innanzitutto col termine unità domestica ci si riferisce ad un insieme di individui che vivono nella stessa abitazione, ma non necessariamente legati da vincoli familiari, e le relazioni che entro la casa si sviluppano (Manzato, 2011). Ogni unità domestica definisce un ambiente morale (pubblico e privato insieme) ma anche emotivo, cognitivo, estetico, e valutativo, in altre parole un modello di vita. L’aspetto morale dell’unità domestica fa riferimento agli “strumenti culturali con cui una famiglia definisce il proprio senso e il proprio posto nel mondo, trasformando in una dimora abitata, in luogo ricco di valenze simboliche e affettive, quello che altrimenti resterebbe un semplice alloggio come tanti” (Qualizza, 2013, p. 191-192).
All’interno dell’ambito domestico, ma non solo, le tecnologie dell’informazione e comunicazione hanno una duplice valenza: materiale e simbolica. Tuttavia, come descrive Qualizza (2013, p. 193) “le tecnologie comunicative aggiungono un’ulteriore dimensione, quella dei contenuti, che investe il modo in cui vengono elaborati i significati pubblici e privati da queste mediati”. Quindi, la produzione di senso avviene ad un primo livello attraverso la componente materiale delle tecnologie mediali e ad un secondo livello, tramite i contenuti espressi da tali tecnologie, riguardanti programmi TV, generi, componente software, videogame che convogliano significati pubblici all’interno della vita privata dell’unità domestica. L’attribuzione di senso avviene all’interno di una cornice in cui i significati pubblici e privati vengono mutualmente negoziati e le tecnologie comunicative diventano prodotti esse stesse di tale negoziazione di significato.
Il processo della domestication è stato teoricamente articolato, nel corso del suo sviluppo, prima in quattro e poi in sei fasi, indicate da Aroldi (2010) sotto il termine di “carriera d’integrazione” del prodotto entro la vita quotidiana del consumatore. Le sei tappe di questa carriera prevedono (Aroldi, 2010, p. 13-14):
- mercificazione, fase in cui l’ideazione e la produzione delle merci assegna un valore economico e simbolico;
- immaginazione, fase della promozione commerciale attraverso la messa in scena di significati sociali e la costruzione della loro desiderabilità;
- appropriazione, momento in cui il prodotto viene acquistato, posseduto ed entra a far parte dell’unità domestica. Tale fase, solitamente, implica una decisione negoziata con altri membri del nucleo domestico, i quali inscrivono la merce entro l’economia morale dell’unità domestica dotandola di significati.
- oggettivazione, è la fase riguardante la riorganizzazione fisica degli spazi, soprattutto domestici, al fine di favorire un integrazione dell’oggetto e la sua esibizione. Ad ogni nuovo acquisto si rende necessaria una ridefinizione d’uso delle tecnologie già presenti ed una loro eventuale riallocazione. Per esempio, la nuova tv digitale implica una ridefinizione del posto da assegnare alla vecchia televisione analogica o la nuova console game implica un azione verso la vecchia, ecc. Come sottolineato da Qualizza (2013, p. 195-196) “gli artefatti (…) vanno dunque pensati come costellazioni di significati, rette da un sistema coerente di complementarietà simboliche, nel quale si esprime l’universo cognitivo e valoriale dell’unità domestica;
- incorporazione, fase dell’utilizzo concreto delle tecnologie comunicative entro le routine della vita quotidiana che comporta, talvolta, una riorganizzazione dei ritmi familiari in cui si iscrive il tempo del consumo. Oltre all’economia temporale del nucleo famigliare vengono coinvolti anche ruoli gerarchici, relazioni, valori e stili di vita;
- conversione, fase che conclude il percorso di integrazione, in cui avviene l’attribuzione di senso, la co-produzione di significati sociali che vengono utilizzati per l’interazione con gli altri nelle conversazioni quotidiane. I piaceri, i significati e le competenze coltivati nel dominio della vita privata sono resi disponibili nella sfera pubblica, tra amici, colleghi, conoscenti. «Un aspetto che assume particolare rilevanza per gli adolescenti (…) un’attività che funge da indicatore di appartenenza al gruppo dei pari e di competenza nella vita pubblica» (Qualizza, 2013, p. 196).
Silverman,Hirsch e Morley (Qualizza, 2013, p. 196) individuano nella fasi di incorporazione e oggettivazione“la base per il costante lavoro di differenziazione e identificazione all’interno e fra le mura domestiche (…) mediante le quali le tecnologie vengono rielaborate e rivestite di significati dai membri dell’unità domestica, assumendo una collocazione concreta in relazione alle dinamiche spaziali e temporali”. Le fasi di appropriazione e di conversione, invece, definiscono il rapporto tra ciò che sta all’interno e ciò che sta all’esterno dell’unità domestica, la cui frontiera, porosa e transitabile, è continuamente attraversata da oggetti, significati, testi e tecnologie.
3.2 Applicazioni del modello
Il paradigma della domestication ha trovato diverse applicazioni, esplorando altre dimensioni oltre alla tradizionale unità domestica, rilevando come vi siano altre variabili che agiscono nel processo di assimilazione delle nuove tecnologie. Le variabili prese in esame sono: il ruolo dei genitori, il genere, l’età ed il contesto in cui si colloca il fruitore (Qualizza, 2013).
Il gioco dei ruoli che si sviluppa attorno alle tecnologie comunicative ha un peso rilevante, in quanto, l’ingresso di nuovi dispositivi implica una continua ridefinizione di regole d’uso, oltre che di limiti spaziali e temporali, corrispondenti ai valori educativi sostenuti dalla famiglia (Qualizza, 2013). Inoltre, a calcare questa considerazione, Manzato (2011, p. 7) specifica che “le negoziazioni tra genitori e figli sull’uso di Internet o della TV si gioca su un piano che elegge le ICT a strumento per la conduzione della relazione”, trasformandole, quindi, in parte integrante della sfera domestica dotate di ruoli e funzioni proprie.
Un’altra variabile presa in considerazione è sicuramente quella di genere, dove si riscontra una differenza tra i consumi maschili e femminili, i quali sembrano attribuire ineguali significati alle tecnologie comunicative. Generalizzando, gli utenti maschili sembrano più interessati agli aspetti tecnici mentre l’utenza femminile sembra rivolta alla dimensione relazionale (Manzato, 2011). In maniera analoga, anche l’età svolge un ruolo rilevante nel processo di assimilazione delle nuove tecnologie. Dagli anni Novanta a oggi le fasce giovanili, quelle dotate di maggior “tempo libero” rispetto agli adulti, mostrano una competenza avanzata nel gestire le tecnologie dell’informazione e comunicazione, ma “anche le tecnologie utilizzate sembrano correlate ai bisogni psicologici caratteristici di ogni fase della vita, per esempio: l’uso dei social network è percepito dagli adolescenti come strumento di relazione con il gruppo dei pari in risposta a un’esigenza di socialità” (Qualizza, 2013, p. 199).
Infine la rilevanza del contesto in cui si colloca il fruitore permette di delineare la caratteristiche di assimilazione ed uso delle tecnologie comunicative, in quanto, come sostenuto da Manzato (2011, p. 8) “è il contesto a plasmare l’accettazione o il rifiuto, l’abitudine d’uso costante o sporadica, l’importanza attribuita alle ICT, il significato loro accordato”.
I contributi offerti dal paradigma della domestication ha evidenziato come nel processo di assimilazione delle tecnologie comunicative i soggetti svolgano un ruolo attivo, coinvolgendo bisogni e valori ogni volta differenti.
3.3. Prospettive future
A decenni di distanza dalla formulazione del paradigma della domestication, il panorama tecnologico si presenta profondamente trasformato: la potenza dei dispositivi, ma soprattutto la connettività delle piattaforme mobili, quali, tablet, pc e smartphone hanno trasportato il consumo tecnologico all’esterno delle pareti domestiche, verso un utilizzo sempre più individualizzato. L’innovazione tecnologica ha consentito un tipo di consumo non più esclusivamente concentrato dentro la sfera domestica. Si può parlare di una dislocazione dell’unità domestica (Qualizza, 2013) che grazie ai new media rende i confini tra pubblico e privato più flessibili, in quanto, da un lato risente degli effetti che le nuove tecnologie producono sugli spazi e sui tempi d’uso, acquisendo una disponibilità sconfinata, mentre dall’altro lato, l’esperienza di connettività estende la dimensione privata a una potenziale perenne accessibilità. Oltre agli aspetti legati alla connettività ed alla mobilità, le potenzialità tecnologiche riguardano anche quelli legati alla testualità. Si assiste, per l’appunto, ad una proliferazione di testi generati online e attraverso la telefonia mobile, basti pensare alle pagine facebook, ai blog, gli sms (short message service), i tweet. Sebbene la tradizione della domestication tratta solo marginalmente la questione relativa alla testualità, concentrandosi soprattutto sulle pratiche d’uso e di assimilazione, si ritiene fondamentale considerare che l’uso delle tecnologie dell’informazione e comunicazione comprende anche un rapporto dell’utente con i contenuti, non solo e non tanto nei termini delle scelte e delle selezioni operate, ma anche e soprattutto in riferimento all’utilizzo che ne viene fatto (Manzato, 2011).
3.4. Comunicazione fulltime e anywhere
Come già specificato, la diffusione di Internet prima, e quella dei dispositivi mobili successivamente, hanno introdotto importanti cambiamenti nell’esperienza comunicativa delle persone, mutando il contesto spaziale e temporale delle esperienze relazionali e sociali delle generazioni più giovani. Le molteplici modalità di connessioni alla rete, da una postazione fissa o in modalità senza fili, attraverso dispositivi di comunicazione personale come personal computer, smartphone e tablet Pc, hannorafforzatoil processo di domestication dei media, estendendo, spiega Mascheroni (2010, p.46) “le interazioni al di là del contesto di compresenza fisica e generando un ambiente di comunicazione full time e anywhere che precede, accompagna, e prolunga l’incontro faccia a faccia”. A tal proposito Marinelli (2013, p. 25) sostiene: «da realtà fuori di noi, internet e i social media sono diventati una delle risorse più rilevanti sul piano informativo e relazionale».
I comportamenti comunicativi dei giovani hanno cominciato a caratterizzarsi per una prevalenza di interattività e mobilità, dove al consumo televisivo è stato affiancato il protagonismo dei nuovi media, a cominciare dai videogiochi, dal personal computer, da internet, sino ad arrivare ai dispositivi mobili e ai social network. Si potrebbe sostenere che il vivere agganciati in tempo reale e da ogni luogo alla connessione internet e ai social network, sia diventata una pratica consuetudinaria per una parte sempre crescente della popolazione giovanile. Aroldi (2010, p. 42) avverte che «si tratta di situazioni comunicative particolarmente importanti per coloro che si trovano a utilizzare internet durante la fase adolescenziale. I ragazzi online sono, infatti, utenti intensivi di social computing». Questo concetto si riferisce a quelle applicazioni che fanno parte della dimensione di interazione sociale sviluppata in rete, quindi, sono inclusi i social network, chat, blog, file e video sharing. Le applicazioni e i dispositivi come smartphone, iPod, video game console, fanno parte oramai della cultura giovanile, rappresentando “instancabili compagni” nella quotidianità adolescenziale. Infatti, si nota come le capacità di gestione e manipolazione di questi strumenti, da parte dei bambini e degli adolescenti, vengano acquisite in età sempre più precoce, in base ai propri momentanei obiettivi (cartoni animati, gioco, serie tv, ecc.), secondo modalità sempre più individualizzate e autonome (Marinelli, 2013).
Il confine tra online e offline appare, quindi, permeabile, in cui la connettività ubiqua (Mascheroni, 2010), mobile e sempre disponibile permette ai flussi di comunicazione di attraversare e connettere luoghi reali e spazi tecnologici estendendo lo spazio dell’esperienza quotidiana degli utenti. Castells (2002, p.431) utilizza il termine virtualità reale per definire quel «sistema in cui la stessa realtà (ossia, l’esistenza materiale/simbolica delle persone) è interamente catturata, completamente immersa in un ambiente virtuale di immagini, nel mondo della finzione, in cui le apparenza non sono solo sullo schermo attraverso cui l’esperienza viene comunicata, ma divengono esperienza».
3.4. Gli spazi abitati della rete e la rappresentazione di Sé sui social network
Al giorno d’oggi, risulta molto frequente notare adolescenti, ma in generale molte persone, con la testa china su un display di uno smartphone, che come testimoniato anche dall’indagine condotta dalla Società italiana di pediatria (Sip) dal titolo Adolescenti e stili di vita (www.sip.it, 2013), risulta essere lo strumento prediletto di connessione alla rete, preferito ormai ai personal computer e notebook.
La possibilità di connessione alla rete rende questi dispositivi dotati di una valenza simbolica non indifferente, soprattutto perché, come rilevato da Aroldi e Vittadini (2013, p. 37): «Tra le principali attività svolte online vi è la frequentazione dei siti di social network e di altri spazi addetti all’interazione sociale e alla comunicazione personale, one to one o one to many, soprattutto tra pari». Non solo, oltre ai siti di social network, hanno grande successo e utilizzo i sistemi di messaggistica mobile multi-piattaforma come WhatsApp, che consentono lo scambio istantaneo di messaggi con i propri contatti (numeri della rubrica telefonica) senza dover sostenere alcun costo oltre quello della connessione internet.
Citando le parole di Aroldi e Vittadini (2013, p. 39): «siamo di fronte a spazi che consentono identità, relazioni e storicità, luoghi […] che costituiscono la parte abitata della rete». Internet, con l’avvento del web 2.0 e la diffusione dei social network, si configura, così, come uno spazio sociale (Aroldi, Vittadini, 2013). Soprattutto i siti di social network, come spiega Tirocchi (2012, p.28), «sintetizzano pienamente la metafora dell’abitare perché, così come viviamo quotidianamente in luoghi fisici come città, quartieri o case, allo stesso modo abitiamo nel territorio astratto prodotto dalle relazioni sociali».
Le tecnologie comunicative, quindi, non creano e non hanno creato un universo separato dal mondo offline, anzi, permettono agli utenti di sviluppare nuove forme di socialità in rete, in quella che viene definita “networked sociability” (Aroldi, Vittadini, 2013). Sono proprio le relazioni, e le modalità con cui queste vengono perseguite, a determinare la scelta per molti ragazzi di iscriversi ad un determinato social network o di scaricare una particolare applicazione di messaggistica. Si vuole evitare l’esclusione, mantenendo saldo il contatto con la propria rete amicale. Giaccardi (2013), basandosi sulle pratiche di utilizzo della rete da parte dei giovani, suggerisce che alla base di queste pratiche vi siano proprio motivazioni che testimoniano un profondo bisogno di relazione.
Tornando sul tema dei social network, l’indagine sull’uso dei nuovi media tra gli studenti delle scuole superiori lombarde del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca (Gui, 2013) ha evidenziato la pervasività dei siti di social network nella vita quotidiana degli studenti lombardi e come la stragrande maggioranza degli studenti intervistati (89,2%) disponga di un profilo su Facebook. I dati rilevati da questa indagine supportano l’ipotesi, già emersa in precedenti ricerche, che esistano due diversi stili d’uso dei social network: uno, orientato al consolidamento delle relazioni sociali offline, adottando un profilo privato con attenzione alle informazioni condivise; l’altro orientato ad ampliare la rete amicale, mantenendo un profilo pubblico arricchito da varie informazioni personali.
Non vi sono dubbi che questi siti siano divenuti un elemento generalizzato dell’esperienza quotidiana dei ragazzi, in quanto, la scelta che spinge soprattutto le giovani generazioni a iscriversi ai social network, sembrerebbe quella di aggirare l’esclusione sociale e promuovere il senso di appartenenza, comunicando, entrando a far parte di gruppi, condividendo interessi e passioni (Tirocchi, 2012).
Aroldi e Vittadini (2013) considerano questi spazi come i luoghi in cui trova espressione l’identità dell’individuo, ed è proprio sul piano dell’espressività che emergono le specificità più evidenti: in molti siti di social network la presentazione di sé rappresenta una parte essenziale nel vissuto comunicativo, uno spazio dinamico da modificare e personalizzare nel tempo in modo da farlo aderire ai propri stati d’animo e alle mode del momento.
Una volta iscritti ad un sito di social network, infatti, la prima operazione richiesta è proprio quella di costruire un profilo personale che richiede un racconto di sé, che passa attraverso i contenuti base di descrizione del soggetto e si estende ai post condivisi, alla propria rete relazionale e può essere gestito liberamente attraverso quelle operazioni che rientrano nel cosiddetto processo di impression management. Questa gestione dell’impressione sugli altri risponde a molte esigenze dei ragazzi adolescenti, quali: sicurezza, autostima, identità. A tal proposito riporto la definizione di adolescente, offerta dall’Enciclopedia Treccani (www.treccani.it), la quale enuncia: «Non più fanciullo e non ancora adulto, l’adolescente trova generalmente sicurezza nel rapporto di amicizia con un coetaneo dello stesso sesso, o inserendosi in un gruppo. Legati alla crescente autonomia affettiva dalla famiglia sono anche i processi di idealizzazione di figure extra-familiari (modelli) con le quali l’adolescente si identifica». Possiamo identificare i social network, quindi, come uno spazio sociale, cui i ragazzi accedono o rimangono connessi per non sentirsi mai soli, dove le performance identitarie messe in atto avvengono con la consapevolezza che ci sia un audience, un pubblico di riferimento. Come specifica Aroldi (2013, p.43-44): «si tratta di un pubblico tutt’altro che passivo, anzi direttamente coinvolto in una costante attività di sanzione (positiva o negativa) rispetto alle azioni comunicative ed espressive degli individui».
La gestione dell’impressione risulta, quindi, un elemento fondamentale nelle creazione e utilizzo del profilo personale sui siti di social network, tant’è che la presentazione di sé viene considerata tra le attività più importanti: «Self-presentation is one of the major motives driving activity in social network sites. Facebook users can present themselves through explicit declarations, such as their interests or favorite music, but they appear to rely more on implicit cues in posted photos. When people evaluate the personality of a Facebook user, they base their impression mostly on the profile photo» (Tifferet, Vilnai-Yavetz, 2014, p. 388).
Il processo di impression management, veicolato dalla rappresentazione di sé, è una pratica che ogni soggetto mette in atto sul proprio profilo in rete. Per comprendere meglio questo aspetto, risulta utile coinvolgere il pensiero del sociologo canadese Erving Goffman, il quale spiega come l’interazione personale nella vita sociale sia improntata su un modello drammaturgico in cui vi sono spazi di ribalta e di retroscena, cioè spazi pubblici in cui si inscenano una precisa rappresentazione di sé, e spazi privati in cui gli individui non recitano.
Choi e Kim (2013, p. 2) rafforzano questa posizione sostenendo, inoltre, che gli individui desiderano presentare un immagine di sé ideale agli altri: «Self-presentation, based on Goffman’s theory of identity and social performance, is concerned with the process of impression management. Self-presentation theory accounts for the fact that people have a desire to express their identities to others in a social context and explores the concept of presenting an ideal self-image to others».
Per Goffman il self è concepito come un elemento contingente, tutt’altro che stabile, definito dalla situazione, dal palcoscenico su cui si recita, dagli spettatori che assistono allo spettacolo. I segnali inviati dagli individui (dal pubblico) vengono recepiti, da colui che sta “recitando”, come informazioni utili per coordinare il proprio agire. Proprio questa relazione è incoraggiata sui social network, come per esempio Facebook e Instagram, dove la dinamica dei “mi piace”, il cosiddetto like, è utilizzata come principale modalità di reazione a quanto pubblicato sul proprio profilo dai singoli utenti. Aroldi (2013, p. 44) specifica come questa modalità suggerisce «che il consenso o il successo presso la rete di amici costituiscono uno strumento di attribuzione di valore alle proprie azioni comunicative. Immagini, testi, contenuti condivisi, commenti costituiscono quindi la prassi quotidiana di espressione e misurazione del valore della propria identità all’interno di una rete sociale».
Molti ragazzi scattano moltissime foto per poi condividerle sul proprio profilo in rete, cercando, il più delle volte, di far risaltare l’aspetto fisico per ottenere consensi e apprezzamenti dalla propria rete sociale. Proprio la fotografia ha riacquisito maggior vigore, diventando un’operazione fondamentale nelle forme di espressività di tantissimi adolescenti sui social network, soprattutto grazie alla diffusione dei dispositivi mobili, i quali, hanno permesso operazioni di photo editing e photo sharing in cui l’utente esprime la propria creatività, in autonomia o con amici, lontano dallo sguardo dei genitori.
Il fenomeno del Selfie, che secondo la definizione attribuita dall’Oxford Dictionary, indica l’autoritratto fotografico, tipicamente ripreso con uno smartphoneo webcame successivamente caricato su un social network, è nato dalle opportunità offerte dagli stessi dispositivi mobili. Selfie nel 2013 è stata riconosciuta “parola dell’anno” (www.corriere.it), diventando una moda per tantissime persone, contagiando più adolescenti che adulti, maschi e femmine indifferentemente. Sebbene la pratica dell’autoscatto ci sia sempre stata, al giorno d’oggi emergono due nuove dimensioni: la dimensione della rappresentazione e della condivisione dell’immagine. Ovviamente non tutti ricorrono a questa pratica, c’è chi ne fa un uso saltuario o addirittura assente, ma ci sono ragazzi che ne hanno fatta un’ossessione sfoggiando un tratto narcisistico che spingono l’utente davanti alla fotocamera a preoccuparsi della sua apparizione e quindi a scattare a ripetizione fino ad ottenere l’immagine migliore.
Il condividere contenuti, che siano foto, video, notizie o riflessioni personali, diventa una pratica dotata di grande significato sui siti di social network. Roberti (2012, p.179) sottolinea che «per i giovani le dinamiche dell’interazione sociale passano sempre più spesso attraverso la condivisione di gusti e contenuti personali, trasformando lo sharing in un gesto naturale che qualifica il loro modo di stare al mondo». Simili dinamiche assumono un peso ancor maggiore nell’ambito dei processi di maturazione giovanile, ovvero in una fase della vita contraddistinta da percorsi identitari fluidi e reversibili, all’insegna della ricerca di sé e della sperimentazione.
3.5 Il Sé in vetrina, tra fragilità e incertezza.
A sostegno delle considerazioni fatte nel paragrafo precedente, vorrei citare quello che è considerato da Vanni Codeluppi (2007) come un tratto caratteristico della cultura contemporanea: il concetto di “vetrinizzazione sociale”. Sebbene, inizialmente, la logica della vetrinizzazione si riferiva alla funzione dei negozi verso le merci esposte, in modo da attirare l’attenzione dei clienti, oggi narra l’amplificazione esagerata del privato, facilitata soprattutto dalle nuove tecnologie (Internet, webcam, social network, smartphone) con le quali lo spazio in vetrina diventa virtuale e più libero da condizionamenti.
Sui social network la mostra di sé è un obbligo, ma ancor più rischiosa è la mostra di sé senza alcun limite, alla continua ricerca di consensi e affermazioni personali che sottostanno all’ideologia della «trasparenza assoluta, che impone di non lasciare nulla nell’ombra, nemmeno i sentimenti, le emozioni o desideri nascosti» (Qualizza, 2013, p.200). Le tecnologie oggi a disposizione aiutano proprio in questo, a mostrarsi, a partire dalle più diffuse webcam, passando dai blog e diari virtuali nel quale lasciarsi andare senza alcun pudore e rendere pubblico ciò che nella vita di tutti i giorni riusciremmo difficilmente a ostentare.
Il confine tra sfera pubblica e privata diventa, così, labile e perforante in una sovraesposizione dei propri sentimenti e della propria identità. Significative le parole di Bauman, il quale potrebbe aiutare, a mio giudizio, ad inquadrare meglio il rapporto tra gli adolescenti, la creazione di identità e i social network. Ospite alla seconda edizione di «Segnavie. Orientarsi nel mondo che cambia» nel maggio 2011 a Padova (www.segnavie.it), Zygmunt Bauman illustra come l’appartenenza, il sentirsi parte, sia un’esigenza fondamentale dell’essere umano. In passato tale esigenza era espressa con il sentirsi parte di una comunità, oggi invece all’appartenenza è associato un altro concetto, che è quello di network. La differenza, sostiene Bauman, è posta nel fatto che l’appartenenza alla comunità precedeva il processo di identificazione, mentre l’appartenenza ad un network è l’ultima ed estrema conseguenza di questo processo d’identificazione. Questa appartenenza nella società contemporanea bisogna crearsela in autonomia, e si potrebbe supporre che ciò avvenga tramite la presenza in rete, in cui, come sostenuto da Murru (2010, p.100): «l’identità diventa un progetto autoriflessivo, un compito che il soggetto deve svolgere attraverso la creazione e l’espressione di narrazioni biografiche che lo rendono leggibile a sé e agli altri».
In passato la comunità seguiva gli individui con attenzione, vigilando sulle regole, rendeva le persone consapevoli di avere un ruolo, un luogo in cui affermarsi. Il network, invece, implica due sole attività, ovvero la connessione o disconnessione: ci si può connettere ad una rete e con la stessa facilità ci si può disconnettere se non piace più. Gli individui si muovono, così, all’interno di un ambiente sociale caratterizzato dalla fluidità (Marinelli, 2011) in cui i singoli imparano ad affidarsi su forme di appartenenza parziale ad una molteplicità di reti di relazione.
Bauman individua, inoltre, un’altra significativa differenza: la comunità nella vecchia concezione era un luogo sicuro, mentre il network è da considerare un luogo insicuro. Le relazioni online, a suo giudizio, sono relazioni fragili e durano molto poco, questa fragilità genera insicurezza, ansia. In conclusione, sostiene che il successo di Facebook, dei social network in generale, è da ricercare sul modello di esserci, cioè di provare la propria esistenza. Se in passato la certezza assoluta era “Penso quindi sono”, secondo la locuzione latina di Cartesio, oggi questa certezza si potrebbe esprimere: «sono connesso, quindi sono». Bauman infine afferma che la nostra connessione con gli altri risulta incerta e fragile. La paura di rimanere soli condiziona il comportamento e gli interessi delle persone, soprattutto dei più giovani. Infatti, i ragazzi attraverso le due dimensioni fondamentali della connessione e del controllo (Aroldi, 2013) sottolineano come i social network siano funzionali per essere “always on” (sempre connessi) con la propria rete di amici, e per controllare e monitorare le attività e i movimenti della propria rete di conoscenze.
Vincenzo Cascino
Psicologo, Docente e Formatore
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