Il “Come fare?” resta a carico dell’analista perché
non c’è una regola fondamentale che glielo dica.
- Soler1
Ogni azione sul setting costituisce
un acting out dell’analista.
Etchegoyen R. H.2
«Alia Tempora Currunt». Parafrasando la famosa locuzione latina3 è questo che mi viene da pensare riflettendo sul tema di questo numero della rivista: un tema ampio, ampissimo come è indubbiamente ampio il riflesso quotidiano che la Rete ha sul nostro quotidiano. Inevitabilmente ne siamo toccati e coinvolti, inutile dire il contrario, e non possiamo fare a meno di trasformare – o trans-formare, meglio, nel senso letterario del “dare una nuova forma attraverso” – le prassi del quotidiano.
La nostra modernità è costretta nella dimensione complessa di un limite spesso vissuto come insopportabile e patologico perché alternativo all’istanza perversa dell’assenza del limite, o meglio della sostituzione del limite della Legge con il proprio limite, mutevole e sempre ampliabile. Al “no” dell’interdizione si contrappone il “perché no…”, cifra di quegli alia (mala?) tempora contemporanei nei quali alla logica della mancanza si contrappone evidente l’illogicità dell’iper, derivazione esagerata del plus e del surplus. Dice Kaes: «Le parole chiave dell’ipermodernità sono iperstimolazione, ipercomunicazione, ipersviluppo, iperconsumo, proliferazione. I loro correlati: regolazioni e deregolamentazioni generalizzate, polverizzazione dei limiti»4. Mi sembra che tutto questo ritorni chiaramente se si pensa alla dimensione iper-tecnologica dell’attualità, dove tra l’altro non esiste più solo una realtà con la quale avere a che fare ma anche altre forme di realtà: virtuale e addirittura aumentata. Si aprono necessariamente questioni importanti e complesse che impattano fortemente la pratica analitica, che evidentemente non può accogliere la richiesta mortifera di saturare e saturarsi ma altresì deve sempre porsi in modo da non divenire mai esaustiva per poter rilanciare la domanda ed aprire alla discrezione di quell’operare come la scultura per via di levare5, senza mai svelarsi e svelare troppo.
Come muoversi pertanto in questo mare così periglioso ed agitato, dove frequenti sembrano levarsi alte le voci di Sirene che rischiano di ammaliare lo sventurato analista, inducendolo nella mortifera tentazione di voler stare sull’attualità con-formandosi e de-formandosi?
In altre parole la questione sembra essere come poter trans-formarsi senza rischiare di perdersi.
Sull’impatto che ha nella pratica quotidiana la tecnologia legata ad Internet, ed in particolare la psicoterapia/psicoanalisi online che pratico ormai da anni con alcuni selezionati pazienti, posso dire di essermi sicuramente costruito un mio pensiero, anche sostenuto da riscontri positivi nei pazienti e da risultati interessanti. Ritengo però che ci sia ancora molta strada da percorrere prima di arrivare ad una comprensione totale delle questioni in gioco nonché alla definizione di un adeguato corpus teorico e tecnico. Anche perché i cambiamenti sono talmente veloci da costringerci ad una riflessione continua, concorrendo così ad alimentare l’idea della formazione permanente.
Avverto forte la sensazione di stare attraversando un tempo fluido, “liquido” per dirla con Bauman6, dove tutto sembra divenire inafferrabile nel suo essere comprensibile, ed illusoriamente compreso, solo in una declinazione al passato che però lo rende immediatamente obsoleto. Ecco allora che non sembra sia possibile far altro che rincorrere un qualcosa che continuamente sfugge, che è sempre un passo avanti a noi. La necessità diventa allora a mio avviso quella di identificare una struttura sottostante sufficientemente solida da essere in grado di sostenere il peso di un futuro sempre più accelerato, ed indubbiamente affascinante. Credo sia questa la “tecnica” necessaria e che provo a ricercare, la tecnica nel senso stretto del suo etimo: τέχνη [téchne], ovvero quell’arte che si esprime nel senso di perizia, del saper fare, del saper operare. Se all’esterno tutto poi si fa liquido, il solido deve necessariamente essere il setting interno dell’analista, dello psicoterapeuta, del professionista. Tutto il resto è variabile, dipende da tanti fattori e da cosa attraversiamo meglio e con maggiore possibilità. Mi tornano in mente le parole di due miei analisti di un tempo passato: “tutto è terapia” e “l’interpretazione si può fare anche sull’uscio della stanza di analisi”, ad indicare nella relazione di transfert la pietra angolare sulla quale si fonda ogni clinica. Se «la psicoanalisi è un’esperienza dialettica», come scriveva Lacan7, nella quale «il soggetto si costituisce, propriamente parlando, attraverso un discorso in cui la sola presenza dell’analista apporta, prima di ogni intervento, la dimensione del dialogo», ecco allora che la risposta alla prima implicita e fondamentale domanda se sia possibile una analisi (o psicoterapia) online non può essere che positiva.
La dimensione quindi è sempre dialettica e come sempre interroga la questione del transfert.
Anche oggi, anche in questa modernità. Come attraversarla? Colette Soler ci fornisce un’indicazione parlando della tecnica e di coloro che «[I primi discepoli, n.d.r.] mancando di un sapere di quando o come fare, hanno cercato di fare-come. […] È questo fare-come-gli-altri e la sua pretesa di supplire alla garanzia là dove manca che Lacan spazza via con un: ‘ordinarie consuetudini’ […] Lasciava forse Freud la porta aperta ad una pratica senza regole? […] la questione giusta è sapere cosa giustifichi queste regole. Il problema non è allora: standard o no, ma piuttosto: valido o no»8.
Se il punto diventa allora discriminare cosa sia valido o non valido ecco allora che «la regola, abbandonata, mantenuta, promossa o modificata, viene valutata a partire dai suoi fondamenti e in funzione delle finalità dell’esperienza»9.
Quindi quale tecnica? O quale teoria alla base di questa tecnica? È la domanda che mi pongo continuamente nell’affrontare il lavoro quotidiano. Tento di formarmi una mia idea, confrontandomi con i colleghi più prossimi e affrontando i lavori che la Comunità accademica propone, nella quale mi sembra ci sia comunque una grande variabilità di pensieri, teorie, riflessioni, pratiche e giustificazioni delle stesse. C’è un po’ tutto e il contrario di tutto. Inevitabilmente il lavoro di studio è molto attivo e ferve l’impegno ad analizzare le trasformazioni in essere, pur con tutte le ritrosie che a volte sembrano esserci nel raccontare alla Comunità le evoluzioni sperimentali che sovente si affrontano nel privato degli studi. Ritengo altresì che sia importante il dialogo aperto ed il confronto. In tal senso questo breve scritto non vuole, e non può farlo a questo punto dello stato dell’arte, fornire indicazioni o soluzioni ma solo alcuni spunti di riflessione, auspicando che il pensiero condiviso porti all’individuazione almeno di punti un po’ più chiari e certi. Questi spunti derivano dalla pratica quotidiana, a volte un po’ annaspante, altre volte più sicura, sempre segnata dalla domanda e dalla ricerca.
***
Quando si parla di Internet e di digitalizzazione il termine sicuramente più usato, a volte abusato, è “rivoluzione”. Questo perché ormai è evidente ad ognuno di noi come gran parte della nostra vita sia attraversata da una consuetudine digitale alla quale non sappiamo più rinunciare. È indubbio che Internet sia ormai entrata prepotentemente nelle nostre vite e le condizioni quasi totalmente. Ogni nostra quotidianità è scandita da un sovente inconsapevole accesso alla rete, dal momento in cui ci alziamo la mattina fino a quando andiamo a dormire la sera, talvolta anche durante il sonno o le ore notturne. È un’entità che ci accompagna costantemente ed alla quale ci rivolgiamo per ogni necessità, che sia consapevole oppure no, oggi addirittura dai tratti antropomorfi quali quelli dei cosiddetti assistenti virtuali, Siri o Alexa che sia. Gli stessi telefoni cellulari, oggi smartphone, hanno sostanzialmente abdicato alla loro funzione primaria, il telefonare appunto, considerata quasi un orpello obsoleto ed anacronistico, per vestirsi di funzioni che spesso hanno a che fare con altri modi di comunicare, videochiamate, conference-call, social e chat, ma che altrettanto spesso fanno soprattutto tutt’altro, quando svariano dalle attività ludiche o ricreative, musica, foto e video per arrivare addirittura ad un utilizzo professionale, con una ricaduta immediata sull’attività lavorativa quotidiana. E tutto passa attraverso Internet, la rete globale, worldwide appunto, che si fa ambiente di vita, sviluppo e interazione. Qualche anno fa un mio paziente di Los Angeles, con il quale facciamo da tempo una psicoterapia via Skype saltò una seduta perché rimase fuori casa a causa di una interruzione improvvisa del servizio internet nel suo quartiere dovuta ad un Van che si era schiantato contro una centralina in strada e l’aveva abbattuta. Alle mie perplessità mi spiegò che il portone di ingresso del suo condominio era gestito da un’app che collegandosi ad Internet riconosceva l’inquilino e apriva il portone. Ovvio che senza l’accesso ad Internet si fosse impossibilitati ad entrare in casa … Qui da noi non siamo ancora arrivati a questi estremi, aggiungerei per fortuna, ma ognuno di noi ha comunque esperienza di un impatto totale delle nuove tecnologie digitali, a base Internet soprattutto, anche sulla nostra vita professionale.
Quando iniziai la mia attività lavorativa, ormai una trentina di anni fa, tutto ruotava intorno al telefono fisso dello studio, con il numero rigorosamente diverso da quello casalingo e privato, spesso dotato di una segreteria telefonica a nastro sul quale era incisa la formula di rito che accoglieva l’interlocutore e lo invitava a lasciare un messaggio perché sarebbe stato richiamato appena possibile. Oggi tutto ciò è archeologia, oltre che impensabile. Spesso e volentieri, come già visto, il primo contatto e la prima richiesta di appuntamento avviene addirittura tramite whatsapp, la famosa chat che ha sostituito gli ormai obsoleti Sms. La telefonata, se c’è, talvolta è successiva ad un primo scambio di notizie in chat: veloce, immediato, meno impegnativo di un contatto vocale che altresì evocherebbe una prossimità maggiore ed una vicinanza più intima. Il numero di cellulare a disposizione dei pazienti è quasi sempre lo stesso che si usa nella vita privata, a meno che non si vogliano utilizzare due numeri e due cellulari, dando magari anche un orario specifico per le chiamate. Il rischio è che, come accade spesso, la chat venga utilizzata dal paziente al bisogno, sull’urgenza, in orari estemporanei come ad allungare indiscriminatamente il tempo della seduta e mantenendo un contatto continuo con il terapeuta, in una reiterata ricerca e verifica del limite e nell’affermazione di una presenza continua. Come ripristinare il limite implicito richiamato nel setting quando lo stesso sembra essere diventato anch’esso estremamente liquido, per non dire diluito o a rischio di evaporazione? Penso ad esempio ai messaggi che molti pazienti ormai inviano tra una seduta e l’altra, con riflessioni, pensieri, dichiarazioni, richieste di consigli, emozioni o fantasie. Sembra quasi che non si possa trattenere a mente il tutto destinandolo all’incontro successivo o si palesi chiara l’insostenibilità dell’attesa, in una sorta di “qui ed ora” continuo, costante rappresentazione di una immediatezza che non può permettere il differimento della soddisfazione, con il bisogno che sovrasta ed annulla il Desiderio. Quale è la posta in gioco? La necessità è quella di avere una risposta immediata, anche qui quasi toccando con mano la presenza rassicurante del terapeuta, oppure di forzare il limite imposto dalla scansione temporale della sequenza delle sedute? Vale senz’altro la pena riflettere anche su tutto questo e chiedersi ad esempio quali figure transferali vengano evocate in questi casi. Certo è che sovente non sembra esserci un forte e solido corpus teorico e tecnico al quale appellarsi per mantenere una posizione chiara e definita. Mi sento di dire, e la letteratura in circolo oggigiorno sembra testimoniarlo così come anche una certa ritrosia con la quale ci si trova a parlare di queste questioni in sedi private o anche in occasioni pubbliche, che si sia tutti in una dimensione di grande sperimentazione e di estrema ricerca per le quali non sempre abbiamo a disposizione una risposta chiara e netta, esaustiva e ponderata sulle prassi da adottare. Anche il materiale al quale si può accedere, scritti e articoli, libri o riviste, suggerisce un quadro estremamente variegato per il quale pare valere tutto ed il contrario di tutto, così come le istituzioni di riferimento sembrano non parlare con un’unica voce e non chiarire posizioni sovente ambivalenti. C’è chi auspica un approccio rigoroso e tradizionalista e chi altresì, cavalcando l’onda della modernità e dell’innovazione tout-court, si lascia andare a sperimentazioni che rischiano di non avere un solido appoggio teorico e metodologico, soddisfacendo forse anche qualcosa che interroga il desiderio stesso dell’analista e assecondandone i tratti narcisistici.
Sugli whatsapp estemporanei dei pazienti ad esempio a volte appare necessario rispondere, altre volte si lascia cadere il messaggio, magari riportandolo successivamente nella dimensione interpretativa della seduta. Per mio conto sento che nella decisione se accogliere o meno il messaggio vale soprattutto il pensiero dell’analista su quello specifico paziente, sui sintomi che porta e sul momento che attraversa nel percorso di cura. Sono altresì convinto che in ogni relazione comunque debba sempre prevalere la dimensione interpretativa per ridare parola a quanto sembra connotarsi più come un agito che altro, proprio a ripristinare il primato dell’atto analitico. Il problema è che talvolta a metterci lo zampino sembra essere anche la tecnologia che fa di tutto per giocarci scherzi che spiazzano e disorientano. Un esempio classico è la “connessione scadente”, e talvolta anche cadente, nel senso che per vari motivi indipendenti dalla volontà dei due attori coinvolti il collegamento diventa frammentato, singhiozzante al punto da rendere impossibile il fluire regolare della seduta, oppure addirittura cade di continuo interrompendola di netto, tagliando la parola e il flusso di pensieri. Certamente la questione delle interruzioni deve essere ben compresa ed interpretata poiché può veicolare molte dimensioni: tratti distruttivi, paranoici e persecutori, stati ansiosi, fantasie di non-connessione tra paziente e analista… Questo solo per citarne alcuni. Non è un caso se non si può proporre a qualunque paziente un lavoro online, ci sono sicuramente molte controindicazioni che devono essere valutate con molta attenzione.
Il cyberspazio diventa pertanto uno spazio attivo perché per quanto gestibile e prevedibile si fa autonomamente interveniente ed incidente nella relazione analitica, portando una dimensione di incontrollabilità che sovrasta e prescinde dalle parti in gioco. Un altro esempio di come la tecnologia irrompa inaspettata ed incontrollata nella relazione terapeutica ha a che fare con un aneddoto che mi è capitato qualche tempo fa. Una notte d’estate, più o meno verso le tre di notte, durante le mie ferie, mi arriva improvvisa una chiamata Skype sempre da un paziente che vedo online che all’epoca si trovava negli Stati Uniti, dove per il fuso orario era pomeriggio. La mia prima reazione, oltre al batticuore per il risveglio così imprevisto, è stata di grande preoccupazione. Ho temuto fosse accaduto qualcosa di grave, non solo perché il paziente non mi aveva chiamato fuori appuntamento ma anche perché stava vivendo una fase di grandi cambiamenti di vita, attraversata con notevole sofferenza. A peggiorare il tutto il fatto che quando istintivamente ho risposto alla chiamata dall’altra parte si sentivano solo rumori di fondo. Per farla breve, al paziente era partita per errore una chiamata della quale non si era neanche reso conto. Questo però l’ho potuto scoprire solo in un secondo tempo. Inutile dire che quella notte non sono riuscito a chiudere occhio, preda di pensieri e di riflessioni sulla situazione del paziente.
In un contesto così fluido, o liquido che dir si voglia, mi sembra necessario che l’analista debba poter far riferimento ad un adeguato setting interno, laddove quello esterno appare sfumato se non addirittura virtuale o, meglio, virtualizzato. Mi faceva notare recentemente un paziente durante una seduta online che in quel momento sentiva chiaramente almeno tre setting diversi: la stanza che lui utilizzava per le sedute e che variava a seconda dei suoi viaggi e dei suoi spostamenti, il mio studio, forse l’unico spazio veramente immutabile ed immutato, e lo spazio virtuale, il cyberspazio appunto, nel quale di fatto avveniva l’incontro, quello strano luogo nel quale la carne ed il sangue del corpo reale vengono trasformati in byte, in una rappresentazione digitalizzata del reale. In questo “caso” specifico, tutto questo acquisiva un senso importante perché la questione che il paziente stava portando ruotava intorno al suo “collocarsi da qualche parte”, nel senso di una difficile ricerca identitaria, e quindi nel prendere corpo da qualche parte, unendo finalmente le fantasie tante volte da lui evocate di avere, o essere, un avatar che gli permettesse di sostenere tutti gli aspetti angosciosi del proprio corpo fisico, vissuto sempre come sottodimensionato, immaturo e inadeguato, con la possibilità di accettarsi nel suo essere de-finito, limitato, mancante. Non è sicuramente questo il contesto per approfondire il caso clinico appena citato, si andrebbe probabilmente fuori tema rispetto ad un discorso più generale ed ampio, ma mi limito a segnalare come l’aspetto errabondo di questa terapia mi sia sempre sembrato una grande metafora della questione sintomatica del paziente. In questo senso non è mai casuale la scelta che porta ad instaurare un certo tipo di setting piuttosto che un altro poiché risponde oltre che alla tecnica anche ad altre dimensioni inconsce inscrivibili nella dialettica del transfert e che come tali entrano attivamente nel lavoro di elaborazione. Appare quindi condivisibile la posizione di coloro che sostengono come la distanza fisica determinata da Skype o da qualsivoglia altro sistema di videochiamata così come una maggiore distanza temporale tra le sedute comporti l’imprescindibile necessità di una maggiore esperienza del terapeuta nel sostenere con capacità il carico di quanto venga messo in gioco. Tornando sul particolare tipo di setting che si instaura nella psicoterapia online riprenderei alcune riflessioni esposte nell’interessante intervento di Giuseppe Fiorentini al convegno SPI «La psicoanalisi all’epoca della rete», svoltosi a Milano il 14 aprile 2018. Anche Fiorentini evidenzia come ci siano “particolari condizioni nelle quali si svolgono le analisi a distanza via Skype dovute al fatto che paziente ed analista si trovano all’interno di un setting ambientale e formale modificato a seguito della virtualità dell’incontro indotta da Internet: quello che [l’autore ha] chiamato “setting digitale”, sottolineando di fatto come lo «strumentario tecnologico e informatico, computer e Rete, di cui ci serviamo possiede un’alta valenza simbolica ed irrompe nello spazio chiuso e confidenziale della seduta»10. È un aspetto che ho già sottolineato precedentemente, poiché se «il setting va anche inteso come il palcoscenico lo scenario, l’ambiente, l’habitat, la struttura spaziale nella quale si svolge il trattamento analitico, e che lo contiene» quindi come «un ambiente che ha anche il significato di un luogo psichico con la funzione di recipiente trasformativo (temenos)», torna di fondamentale importanza la necessità di “un assetto mentale facilitante e accogliente, empatico, che consente lo svolgimento dell’analisi”11, vale a dire il setting interno dell’analista, vera e propria «stanza interna d’ascolto dell’analista […], tesa a mettere a disposizione uno spazio mentale, come una stanza preparata per un ospite, col fine di fare emergere contenuti altrimenti inaccessibili, e di favorire l’attivazione di funzionamenti della mente originati dalla relazione»12.
Analizzando le varie posizioni dei colleghi in merito al lavoro psicoterapeutico e/o psicoanalitico online possiamo vedere come esistano veramente un’infinità di indicazioni più o meno condivisibili, che tentano di assimilarne più che si può le caratteristiche al trattamento analitico tradizionale, o al contrario di differenziarsene il più possibile rimarcando il fatto che debbano essere trattati come due tecniche a sé stanti, parallele e non intersecanti.
Per quante indicazioni stringenti e rigide si possano dare al paziente che accede ad un lavoro via internet esisteranno sempre e comunque delle aree di incontrollabilità che vengono altresì lasciate in mano al paziente stesso. Queste devono essere necessariamente riportate in un contesto interpretativo perché compensano la perdita di quello spazio intermedio che gira intorno alla seduta e che ha a che fare a mio avviso con tutto quanto il paziente intercetta nel suo campo visivo allargando lo sguardo intorno a sé prima, durante e dopo la seduta stessa. Lo studio visto nel suo insieme, i quadri alle pareti, i libri, le finestre e i panorami, la sala d’attesa, il palazzo, le persone che si incontrano arrivando o uscendo, la strada che si fa, il parcheggio sono agganci per fantasie che diventano un patrimonio inesauribile per il lavoro associativo e interpretativo.
Nel mio studio – ho la fortuna di lavorare appena fuori città – ho una finestra che si affaccia su campi e colline e che sovente dà lo spunto ad associazioni. Se poi a quella finestra si affaccia il mio cane a curiosare su quale paziente sia arrivato o a segnalarci con un abbaio la fine del tempo della seduta, beh allora è evidente come si attivino sempre di più fantasie, pensieri, associazioni. Sul fatto che la presenza del mio cane sia una concessione ad una mia necessità non ho granché da dire se non ricordare il buon vecchio Jofi, il cane di Freud che quasi sempre presenziava alle sedute, diventando un catalizzatore ed un attivatore di importanti fantasie inconsce. Ovviamente tutto questo si perde nel lavoro online: la webcam è fissa, concentrata sul mezzobusto di entrambi, o sulla nuca del paziente quando qualcuno propone di simulare la posizione sul lettino. Anche se l’inquadratura lascia intravedere qualche aspetto dell’ambiente c’è una parzializzazione dello sguardo ed una limitazione dello stesso che può attivare frustrazione o tratti ansiosi. Tutto questo va tenuto in considerazione e interpretato, senza dubbio; così come vanno interpretati i cambiamenti di setting che il paziente introduce. Hai voglia a raccomandare di cercare di usare sempre la stessa stanza e la stessa posizione, fatalmente tutto verrà stravolto, lasciando sicuramente spaesati e spiazzati ma permettendo allo stesso tempo di incontrare un elemento di novità, arricchente se può essere portato aldilà dell’agito con una parola di interpretazione. Ricordo la sorpresa che ho provato allorquando mi sono trovato a rispondere alla chiamata di inizio seduta via Skype da parte di un paziente fotografo che girava il mondo per lavoro e al posto del suo viso e di una attesa camera di albergo ho visto inquadrata una strada di Boston e i suoi grattacieli. Una scena piuttosto singolare: il paziente era in ritardo e invece di avvisarmi che avrebbe posticipato l’inizio della seduta ha preferito iniziarla comunque, con questo collegamento itinerante durante il quale l’ho accompagnato di fatto fino al suo albergo, con lui che mi mostrava le attrattive della città compreso un curioso cimitero inglese, probabilmente di stile vittoriano, situato proprio nel mezzo di grattacieli altissimi e moderni. Inutile dire che questa entrée così singolare e dirompente abbia costituito l’incipit di tutta la seduta. È indubbio quindi che sia necessaria una grande flessibilità da parte dell’analista nel cogliere e nell’accogliere quanto di trasformativo e di sconvolgente ci possa essere all’interno di una relazione così particolare.
Una relazione nella quale l’altro grande assente è indubbiamente il corpo: del paziente ma anche dell’analista. È vero che nella dimensione tradizionale l’analista si sottrae allo sguardo del paziente ponendosi alle sue spalle quand’egli è sul lettino, ma c’è una fisicità ed una corporeità di un prima e di un dopo che invece nella dimensione online si perde del tutto, con un primato dell’immagine e dell’incorporeo che non può non essere tenuto in debita considerazione. È il primato dell’effigie, primato audio-visivo rispetto alla ricchezza sensoriale di un incontro in presenza, con una presenza che di fatto è “pseudo presenza”13 poiché “senza la presenza libidica del corpo, la teleanalisi [termine usato da Fiorentini, n.d.r.] privilegia la semiologia soprattutto della voce e la parola assume su di sé ogni contatto ed interazione rimpiazzando la presenza”14.
È fuori di dubbio che il tema si ponga con grande forza nella discussione e che non sia più differibile. Lo testimonia anche l’impegno sempre più intenso di molti colleghi volto a identificare prima e sistematizzare poi la dimensione di una relazione che si caratterizza estremamente mutevole e in costante divenire, forse anche troppo velocemente, al punto che si rischia di restare sempre indietro e di farsi obsoleti già nel momento in cui ci si può illudere di averne compreso qualcosa. In questo senso condivido l’invito alla cautela che sempre Fiorentini esprime nell’enunciare il rischio di banalizzazione di una pratica che invece può portare ad un grande arricchimento, fosse altro per il suo essere innovativa e profondamente spiazzante nel porre e riproporre domande ed interrogativi a ribaltare un saper fare che rischia talvolta di essere fermo e stantio. È evidente come la questione sia molto complessa e come quanto ho potuto fin qui esporre possa essere solo un minimo spunto di riflessione per chi voglia approfondire l’argomento. Ci sarebbero, e ci sono, tanti e tanti altri temi che mi sovvengono e che sarebbe necessario affrontare, ma per brevità di scrittura devono essere lasciati ad altri contesti e ad altre trattazioni. Auspico che questo si possa fare sempre di più anche in contesti istituzionali ed in giornate studio nelle quali confrontarsi e condividere le diverse posizioni, anche accedendo ad un contraddittorio sempre vitale e fecondo. Come detto tanti temi, tanti lavori e tante posizioni, talvolta coincidenti, sovente contrapposte. In rete è facile trovare molti lavori spesso anche molto differenti per approccio teorico e per posizioni prese e chi fosse interessato all’approfondimento può fare una ricerca e formarsi una propria opinione. Per quanto mi riguarda, in un contesto così mutevole e spesso non totalmente gestibile, sento sempre più imprescindibile e come punto fermo la necessità per l’analista di mantenere un setting interno consolidato, questa sì vera pietra angolare, perché quella cyber-room sia di fatto la stanza mentale dell’analista, garanzia di accoglimento della domanda di aiuto e di cura che il paziente ci continua a rappresentare, oggi come nel passato, e continuerà a rappresentarci in futuro, sia pure con tutte le trasformazioni che il progresso e la tecnologia arriveranno a proporci e a interrogarci. In una continua, affascinante ricerca.
Paolo Romagnoli
Psicologo, Psicoterapeuta, Psicodrammatsita, Membro Titolare S.I.Ps.A.
NOTE
- Soler C. (1984), Standard non standard, in J. Lacan et al., Il mito individuale del nevrotico, a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio, Roma 1986, p. 170.
- Etchegoyen R. H., I fondamenti della tecnica psicoanalitica, Astrolabio, Roma 1986 p.589
- La frase «Mala tempora currunt sed peiora parantur» (Corrono brutti tempi ma se ne preparano di peggiori) è normalmente attribuita a Marco Tullio Cicerone, 106-43 a.c.
- Kaes R., Il malessere, ed. Borla, Roma, 2013, p.111
- Freud, Psicoterapia, in Opere, Vol. IV, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pag. 432.
- Bauman Z., Modernità liquida, Laterza Editori, Bari 2003
- Lacan J., Scritti, vol.1, p.209, Einaudi Torino 1966
- Soler (1984), Ibidem
- Soler C. (1984), Ibidem
- Fiorentini G., Il setting digitale, negli Atti del convegno: «La psicoanalisi all’epoca della rete», Milano, 14 aprile 2018 (disponibile online)
- Fiorentini G., Ibidem
- Fiorentini G., Ibidem
- Fiorentini G., Ibidem
- Fiorentini G., Ibidem