Non c’è desiderio separato dal corpo
Massimo Recalcati*
Introduzione
L’articolo che segue, partendo dal fenomeno recentemente definito dall’economista Shosana Zubof “Capitalismo di sorveglianza” 1 ed allargando lo sguardo alla relazione tra immagine e realtà nell’uso dei social network, focalizza l’attenzione sul ruolo della Scuola nella costituzione di spazi e tempi di socializzazione e di espressione più spontanei e soggettivi rispetto ai condizionamenti operanti attraverso i simboli e le immagini dell’era digitale. Esso pone l’attenzione sulla necessità che le istituzioni educative riconsiderino il senso della propria missione, e, conseguentemente, le loro modalità di organizzazione in relazione al fine per cui esistono, ponendo al centro dell’attività formativa il corpo e la parola nella loro presenza concreta e desiderante, in relazione dialettica con quella che Jacques Lacan definisce “l’azione letale del significante”.
Il titolo dell’articolo, rinviando alla istituzione in ambito giuridico del diritto alla libertà dei sudditi nei confronti del potere senza limiti del sovrano nell’ancien regime, allude ad un più generale diritto all’espressione del Wunsh soggettivo, minacciato, nella ipermoderna società capitalistico/digitale, da un potere non immediatamente visibile, eppure estremamente pervasivo nella volontà di dominio celata alle spalle dell’istanza mercantilistica. Punto d’intersezione tra il fenomeno del “Capitalismo di sorveglianza” apparso nell’epoca presente, “l’estensione progressiva dei dispositivi disciplinari” caratteristica dell’epoca classica e lo “splendore” della forza punitiva del sovrano, tratto distintivo dell’azione penale nell’età medievale secondo Michel Foucault, può considerarsi l’istanza manipolativa che il potere esercita sui corpi o sulle anime2 in una ideale contrapposizione tra “potere-su”, desertificatore di qualsiasi soggettività nella scissione reificante della relazione d’alterità, e “potere-di”, espressione di un agire autotelico, unitario e creativo, possibile quando le istituzioni umane liberano il centro metaforico della loro tenuta sociale, provando, come suggerisce Massimo Recalcati, a far circolare i “discorsi” 3.
Habeas Corpus, habeas data
Tempo fa, discorrendo con un amico, lamentavo un lieve dolore al ginocchio sinistro che m’infastidiva da mesi. Non senza sorpresa, dopo alcuni giorni, mi ritrovai investito da una specie di persecuzione soft, attuata attraverso il telefono cellulare. Continui messaggi riguardanti cure ortopediche, consigli di acquisto farmacologici, promesse di miracolose guarigioni.
Qualcosa di simile mi era capitata quando avevo provato ad effettuare ricerche di prodotti d’acquisto attraverso la rete telematica, ma non avrei mai pensato che una semplice chiacchierata potesse essere, mio malgrado, registrata attraverso l’iPhone4.
Insomma, d’un tratto mi resi conto di essere schedato e, contemporaneamente, “massaggiato” da uno di quegli strumenti del comunicare che, dai tempi di Marshall McLuhan5 si sono moltiplicati e diffusi in maniera ben più capillare del televisore o della radio, assumendo funzioni di vera e propria protesi dell’identità personale.
In realtà, se penso all’iPhone, non posso fare a meno di constatare come mi riesca difficile farne a meno ed, anzi, come non possa svolgere buona parte delle attività quotidiane senza averlo a portata di mano: memoria aggiuntiva, mezzo di ricerca professionale o per il tempo libero, strumento di contatto sociale. Insomma, quasi una parte di me, sempre disponibile ed efficiente. Eppure il presentimento che, al di là del benefico supporto alla vita quotidiana, l’iPhone fosse una presenza minacciosa nella mia vita, non mi ha mai abbandonato. Tant’è che, quando, a sera, lo spengo, provo sollievo: finalmente nessuno può raggiungermi6. Per qualche ora posso sottrarmi al contatto con il mondo, le sue richieste, la sua frenesia.
O, almeno, questo credevo.
Invece non è così! A causa del dolore al ginocchio, ho improvvisamente preso coscienza di come il “contatto”7 non sia mai sospeso. Di più, ho compreso come l’imperativo “comunica!”, vada ben oltre le necessità quotidiane e che, mio malgrado, l’iPhone mi spia, anche se è spento. Allo stesso modo il computer, il tablet e chissà quali altri marchingegni, tradendomi nel cuore della mia intimità, trasferiscono, non so bene a chi, informazioni che mi riguardano, trasformandomi in “dato”. Peggio, scomponendo, attraverso anonimi algoritmi, la mia identità in classificazioni di dati da vendere a sconosciuti agenti commerciali o politici.
Dunque, io sono merce da usare a scopi economici o per altri oscuri fini.
Attraverso la furtiva sottrazione e manipolazione di parti della mia identità, si realizza una violazione della riservatezza, rinnovata lesione del diritto all’habeas corpus, sancito in età medievale dalla Magna Charta Libertatum8. In proposito Michel Foucault, nel saggio Sorvegliare e punire, nascita della prigione mostra con dovizia di particolari come all’epoca dell’ancien regime, grosso modo fino al sec. XVIII9, il potere del sovrano era esercitato in maniera assoluta nei confronti dei sudditi e come, a quell’epoca, le istruttorie giudiziarie, in caso di accusa di reato, venivano celebrate sommariamente ed in segreto, in assenza del corpo dell’imputato. Allo stesso modo, si potrebbe dire che, per quel che riguarda la ipermoderna società del “Capitalismo di sorveglianza”, il potere, identificabile con le grandi multinazionali spesso alleate con le istituzioni politiche, è esercitato all’insaputa dei nuovi sudditi, sebbene il suo esercizio non riguardi istruttorie giudiziarie bensì classificazioni e manipolazioni di informazioni digitali a fini commerciali e politici.
Tuttavia, di là dell’esperienza personale, quel che mi preme evidenziare, è l’osservazione quotidiana, in ambito scolastico, di adolescenti (e non solo) spesso del tutto inconsapevoli dei meccanismi con cui il dominio dell’odierno “Capitalismo di sorveglianza” tenda a chiudere nel circuito contatto/massaggio/mercificazione ogni possibilità di umanizzazione delle relazioni intersoggettive. Oggi la scuola, luogo di formazione delle giovani generazioni e, allo stesso tempo, specchio delle trasformazioni che investono la società, sembra annichilita nella sua funzione educativa a fronte del condizionamento operante anche per mezzo degli strumenti del capitalismo digitale. Tale condizionamento tende a stravolgere il senso dell’istituzione scolastica, trasformandola, quasi, in strumento asservito a logiche consumistiche o performative. Per questo essa, se vuol continuare a svolgere il suo ruolo educativo sottraendosi alla perversione dei fini a cui va incontro in un momento di svolta epocale, non può non porsi seri interrogativi circa la possibilità di costituire occasioni che fungano da antidoto all’ottundimento di ogni elemento di consapevolezza critica nei confronti di un immaginario digitale che conduce all’evaporazione del corpo desiderante. Un immaginario dove la “punizione” ha il sapore, contemporaneamente dolce e amaro, dell’offerta illimitata di gadget e dell’espropriazione del corpo proprio mediante la presa sull’anima10. Del resto, è sotto gli occhi di tutti, non solo di coloro che assumono funzione educativa, il fenomeno di continuo “contatto senza corpo” introdotto dai social media. Schiere di fanciulli, di adolescenti, ma anche di adulti, seduti l’uno accanto all’altro, chini sull’iPhone, completamente disinteressati e muti rispetto all’altro presente di fronte a loro11. Studenti distratti dalla costante presenza del telefono cellulare ed apparentemente sempre più lontani da qualsiasi volontà di ricerca e approfondimento personali. Famiglie sommerse da oggetti inutili, simboli fuggevoli di un “consumismo di status” fondato sul conformistico binomio inclusione/esclusione, più che sul valore d’uso o di scambio delle merci di marxiana memoria ed ancor meno su un progetto di vita che risponda ad una vera vocazione12.
Eppure non mancano segnali di insoddisfazione, sintomi di muta sofferenza o manifestazioni di un inespresso desiderio di “altra cosa”13. Come vedremo più oltre, oggi molti adolescenti manifestano in vari modi le loro difficoltà o il loro desiderio, chiedendo, più o meno implicitamente, che l’adulto eserciti funzione di ascolto, regolazione, supporto, stimolo alla creatività ed alla possibilità di ricerca soggettiva. Se da un lato, infatti, nel complesso mondo della scuola odierna, si assiste con sempre maggiore frequenza all’emergere di sintomi di malessere, se il fenomeno del cyberbullismo sembra dilagare, dall’altro lato non mancano esempi di originalità e creatività, richieste di dialogo, confronto e accoglienza, espresse nei confronti degli adulti.
Cyberbullismo, immagine e corpo
Durante lo scorso anno scolastico ho ricevuto nel mio ufficio un signore attempato accompagnato dalla maggiore delle sue figlie, una giovane donna sui trent’anni. Avevano urgenza di parlarmi di quel accadeva all’altra figlia, studentessa liceale. Quest’ultima, che chiamerò M., più volte era stata fatta oggetto di scherno da parte di un suo coetaneo e di alcuni “amici” attraverso la rete telematica. L’ultimo episodio era stato la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, per cui padre e figlie avevano deciso di denunziare gli accadimenti al sottoscritto ed alla polizia postale. Lo studente presunto bullo mediatico, che chiamerò A., aveva diffuso attraverso whatsapp immagini del marito della sorella maggiore della studentessa, uno stimato medico, accompagnate da frasi offensive sul suo aspetto fisico, in particolare sulla sua pinguedine.
Padre e figlia mi mostrarono immagini, foto e frasi diffuse in rete da A., dipinto come leader di un “branco” di adolescenti, simile a quelli che compaiono frequentemente nei notiziari televisivi, chiedendomi di intervenire con azioni punitive, poichè la recente normativa scolastica prevede sanzioni per atti di cyberbullismo14.
In effetti norme e regolamenti scolastici prevedono, in caso comportamenti etichettabili con il termine cyberbullismo, la convocazione di organi disciplinari che hanno il compito di infliggere sanzioni. La Scuola, dunque, ha il dovere di vigilare sui comportamenti degli studenti e di intervenire punendo i colpevoli di atti considerati devianti.
Può bastare? Credo di no. Un’istituzione educativa ha altri compiti da svolgere oltre la vigilanza, l’applicazione di regole, l’asettica trasmissione del sapere e non può prescindere dal porsi in posizione di osservazione ed ascolto nei confronti di quanto accade a ciascuno studente, cercando una via di comprensione oltre il visibile, oltre l’apparenza, al di là dell’applicazione di codici e regole astrattamente sanciti. Per questo, dopo aver ascoltato i familiari di M., decisi di prendere tempo, evitando di lasciarmi agire dalla operatività procedurale prevista dalla codificazione istituzionale. Ma, se è vero che la scuola, in quanto realtà istituzionale, è regolata da funzioni, riferimenti simbolici, procedure dettate da leggi e pratiche consolidate, se è vero che occorre, appunto, “far funzionare” il sistema, è anche vero che, quando nel meccanismo del quotidiano automaton15, costituito dal mero compito di trasmissione del sapere irrompe una lacerazione del senso consolidato o normativamente statuito, occorre provare a modificare il punto di vista sugli accadimenti. L’evento eccentrico va, allora, letto non tanto come rottura dell’equilibrio del sistema di regole sancito, da ripristinare nella sua integrità disciplinare secondo una logica giuridica16, quanto come sintomo di un malessere inespresso.
Nell’epoca della proliferazione delle immagini portata all’estremo fino a scambiare il mondo virtuale con la realtà17 è il caso, per coloro che si autorizzano ad esercitare funzione educativa, di sospendere il giudizio sugli accadimenti e ascoltare “in presenza” i protagonisti. Ove per presenza intendo l’integrazione della parola con il vissuto, del senso predefinito con il significato particolare, dell’immagine trasparente con l’opacità del corpo sintomatico18.
Dopo tutto il diritto all’habeas corpus, più sopra richiamato, prevedeva che chiunque potesse presentarsi con il suo corpo e con la sua parola davanti ad un giudice, liberato dalla gogna di un potere assoluto. Potere che un tempo era quello del signore o del re, oggi quello di un codice sociale19 operante algoritmicamente come procedura dell’agire comunicativo, al di reali possibilità dialettiche.
Nel nostro tempo, dunque, in cui la comunicazione si fa sempre più eterea, dove la relazione interpersonale è spesso dominata dalla “chiacchiera” e dalla “curiosità”20, è necessario istituire un rinnovato “habeas corpus” che riguardi non solo e non tanto la sfera dei reati o delle infrazioni, quanto il recupero del corpo con la sua presenza desiderante, con la sua possibilità di esprimere e mettere in parola vissuti che dicano qualcosa della verità del soggetto. In tutto ciò, la scuola, luogo di apprendimento ma anche di crescita personale e di socializzazione, ha il dovere di provare a comprendere le ragioni implicite dei gesti, ponendosi in posizione critica rispetto al rapporto tra opacità e trasparenza. Non si tratta di agognare all’irragiungibile mito di un corpo liberato dall’azione letale del significante, quanto di tentare di istituire una dialettica tra soggetto e codice sociale, dove l’educazione si fa arte e, proprio per questo, non teme l’allusione all’indicibile reale.
Tornando ad A. ed alle sue disavventure iperreali, proiettate nel cyberspazio dei social network, il percorso di ascolto è proseguito, anche grazie all’ausilio di docenti impegnati nell’accoglienza del disagio i quali, con passione e tenacia, hanno contribuito a costruire una spazio scolastico di accoglienza delle esigenze soggettive, al di là dei meri compiti di trasmissione di un sapere precostituito. I colloqui seguiti alla denuncia nei confronti di A. degli “atti cyberbullismo”, hanno lentamente lasciato emergere una verità ben diversa da quella apparsa inizialmente. Il giovane si è manifestato in tutta la sua fragilità: aveva da poco terminato una drastica dieta effettuata per risolvere problemi di obesità, e questo gli causava sofferenza e isolamento.
Così, andando oltre la prima impressione, oltre la trasparenza della prima lettura dell’atto aggressivo, un po’ per volta, è emerso come tale atto avesse a che fare col rapporto con il corpo proprio di A., in una difficile fase di crescita, com’è quella adolescenziale, in cui l’aggressività esibita può prendere il posto di vissuti di fragilità ed insicurezza.
L’immagine dell’adolescente bullo, diffusa e amplificata attraverso la rete telematica, allora, anziché dire qualcosa di colui che l’ha prodotta, si è fatta schermo di una sofferenza intima, di un non detto celato, mascherando e capovolgendo il senso di un vissuto confuso nel miraggio speculare della comunicazione digitale. Tra le altre cose, va rilevata l’assenza della figura paterna. Ai vari appuntamenti fissati per cercare di comprendere la condizione di A., non si è mai presentato il padre, poiché la madre gli nascondeva ogni cosa circa il comportamento del figlio. Un figlio coperto, difeso fino all’estremo, non libero di poter manifestare, prima di tutto a se stesso, il proprio disagio, di avere una parola soggettiva, nel bene e nel male, in lotta con la propria immagine ancora presa dal corpo materno.
Come ho accennato in precedenza, oggi sono molto frequenti nella scuola i casi di disagio giovanile manifestato attraverso l’immaginario dei social network, il quale spesso funge da maschera difensiva di difficoltà che affondano le radici in problemi legati alla relazione con sé e con l’altro e, allo stesso tempo, da amplificatore di agiti disfunzionali che non trovano adeguato contenimento. Per questo essa, in quanto istituzione educativa, deve darsi il compito di aprire il campo ad una generatività che eviti la sclerotizzazione dell’automaton e consenta una dialettica orientata al nuovo, alla speranza futura 21. Una dialettica tra passato e presente, tra chi presume di sapere e chi deve cercare il suo desiderio particolare oltre i miraggi ingannevoli dell’immaginario digitale ed al di là di un principio di prestazione che va di pari passo con un diffuso maternalismo sociale22 il quale fa da contraltare all’evaporazione della funzione paterna e cortocircuita con il godimento soffocante del “Discorso del capitalista”23 irrompendo nella sfera educativa ed invertendone il senso. Sempre più spesso, infatti, in ambito scolastico, si assiste a situazioni in cui i giovani divengono strumento di godimento maternalistico dei genitori nella quotidiana corsa competitiva fondata sul principio di prestazione e, al contempo, oggetto di eccessive attenzioni tese a colmare presunti bisogni a cui non si può dire “no”.
L’urgenza di riappropriarsi del suo senso originario, da parte della scuola, allora, è fondata sulla necessità di costituirsi come antidoto alla insensata ed immaginaria corsa competitiva dell’epoca ipermoderna24 nella quale le istanze delle giovani generazioni rischiano di essere annichilite da strumenti di assopimento sociale, pervasivamente introdotti nella sfera soggettiva e per mezzo dei quali le relazioni umane risultano artificialmente trasferite in un universo digitale ove simboli e immagini rinviano più che altro a se stessi e l’apparire diviene legge dell’essere.
Come, allora, un’istituzione, quando il suo compito si dice educativo, può provare a confrontarsi con i corpi vivi di soggetti per evitare che essi siano risucchiati nel circuito sintagmatico dell’interscambiabilità25, dell’uno vale l’altro poichè tutti sono merce, in un’escalation di volontà di potenza che pervade la civiltà della tecnica? Innanzitutto agendo, come afferma Freud a proposito della cura analitica26, per via di levare e non per via di porre. L’educatore, più che trasmettere pezzi di sapere preformato, deve lasciare emergere, come uno scultore, la soggettività dell’educante, consapevole del mistero che ogni soggetto, in quanto assoluta alterità, porta con sé. In tal senso l’istituzione scolastica deve porsi in un’ottica di ricerca delle modalità che consentano a ciascuno di trovare la propria originalità, sforzandosi di costituire una circolarità comunicativa che sappia prestare attenzione all’opacità del “non ancora espresso”. Ma per far questo è necessario che essa non rinunci ad avere un corpo ed un verbo che si fa carne, che sappia confrontarsi con l’esperienza viva dei soggetti a cui va incontro e con la possibilità di una elaborazione personale di tale esperienza. La scuola, insomma, deve porsi, nel suo operare quotidiano, come proposta alternativa al proliferare delle immagini circolanti in spazi virtuali ove la parola perde peso, ove “amico” e “mi piace” significano epidermica adesione ad un vuoto di contenuti, ove l’ansia di esserci per esser visti nasconde l’angoscia di non esserci.
Istituzione scolastica e vuoto centrale
La scuola, dunque, può e deve contribuire a lasciar emergere “la forza del desiderio” e offrire alle giovani generazioni la possibilità di scoprire nuovi mondi, provando a rompere i rigidi steccati dell’automatismo difensivo che spesso la paralizzano, in maniera da far girare quel che Jacques Lacan individua come i “discorsi” della Civiltà ipermoderna. Se essa prova a mettere in moto una circolarità discorsiva scegliendo di costituire un “vuoto centrale” inteso come luogo non definitivamente occupato dalla “voce del padrone”27 è possibile che si materializzino sorprese inaudite, vere possibilità di un metaforico ritorno a quel contenitore di sogni quale, richiamando un’immagine mitica di trasformazione istituzionale, fu il Marco Cavallo di epoca basagliana, portatore di vita in una istituzione totale come quella del manicomio28. Un cavallo di Troia destinato a sconvolgere la ferrea legge del “sorvegliare e punire”, dell’Istituzione totale, dei muri, delle barriere, dei sintagmi senza paradigmi o, per dirla ancora con Massimo Recalcati, dell’“Uomo senza inconscio”29.
In tal senso si è mosso il Liceo “Tarantino” di Gravina in Puglia negli ultimi anni mettendo in campo esperienze di “Scuola oltre i muri”. Riporto di seguito un evento, tra i tanti, che ha visto l’installarsi di quel “vuoto centrale”30 in cui i desideri particolari hanno trovato una cornice di contenimento e animazione, e, allo stesso tempo, una possibilità di rielaborazione della parola soggettiva tra sospensione dell’automaton e ricerca di radicamento nel sapere.
Tav. A Marco Cavallo
Nel 1972 l’artista Vittorio Basaglia, cugino dello psichiatra Franco, direttore dell’ospedale psichiatrico di Trieste, ideò e progettò un cavallo di legno e cartapesta di dimensioni monumentali, simbolo della fine dell’isolamento dei malati mentali, contenitore di istanze di libertà e umanità. La realizzazione fu affidata ai laboratori artistici già presenti all’interno dell’ospedale psichiatrico. I pazienti vennero coinvolti nella realizzazione dei contenuti artistici e immaginifici da inserire nell’opera. Scelsero il colore azzurro, simbolo della gioia di vivere e decisero che la pancia del cavallo dovesse contenere i loro desideri sogni e istanze. La difficoltà logistica di non poter trasportare fuori dall’ospedale psichiatrico il cavallo, date le sue dimensioni, causò profonda frustrazione nei pazienti, per l’evidente paragone con il loro stato di reclusione forzata. L’impasse venne risolta lanciando il cavallo contro una delle porte, causando la rottura delle vetrate e di un architrave, ma permettendo l’uscita dell’installazione e la rottura del muro reale e simbolico che divideva l’interno con l’esterno. (Foto e commento tratti da Wikipedia).
Il progetto “Nessun parli”: un esperienza di vuoto centrale a scuola
Nel mese di Novembre del 2017 il Ministero dell’Istruzione bandì un concorso intitolato “Nessun parli”31. Si trattava di organizzare manifestazioni artistiche di ogni genere: musicali, pittoriche, teatrali, poetiche, coreutiche, in cui protagonista fosse non la parola senza corpo della ripetizione mnemonica, bensì la parola “piena” dell’espressione soggettiva.
Considerando interessante la “provocazione” messa in atto dal Ministero dell’Istruzione, una volta tanto non fossilizzato su pratiche burocratiche, con alcuni docenti fu presa la decisione di partecipare al concorso, partendo dall’autonoma iniziativa degli studenti, a cui si lasciò ampia libertà di costruire momenti originali di espressività, liberando il centro metaforico dell’organizzazione scolastica per lasciar spazio al possibile, all’evento che, accadendo, rinnova. Nessuno sapeva esattamente cosa sarebbe successo (gli studenti avrebbero aderito alla “provocazione”? L’ordine scolastico sarebbe stato stravolto gettando l’istituto nel caos?), tuttavia si decise di rischiare, nella consapevolezza che l’atto educativo non può che fondarsi sul rischio e, allo stesso tempo, sulla testimonianza di desiderio, unica possibilità di vero insegnamento. Ebbene, il “contagio” si realizzò. L’intera comunità scolastica si mobilitò. Di più. Furono coinvolti artisti esterni all’Istituto i quali collaborarono con gli studenti alla creazione di opere originali, rappresentate, anche attraverso strumenti digitali32. In quei giorni di scambio e di creatività individuale e collettiva, la differenza tra giovani e adulti, tra scuola e città scomparve: il discorso dell’università, il discorso del padrone ed il discorso dell’analista trovarono un punto di equilibrio, grazie alla loro circolazione. La liberazione dalla “voce del padrone”, dall’ automaton del codice disciplinare, potè dar luogo a quel “vuoto centrale” che Massimo Recalcati auspica si realizzi affinché una istituzione possa definirsi sana e generativa. Sul palcoscenico diffuso dell’arte e dell’espressività, finalmente, ricomparve il corpo liberato dalla prigione della ripetizione, dell’irrigimentazione, della scotomizzazione del sapere dal vivere.
Conclusioni
Naturalmente la rivoluzione di un solo giorno non basta. Lo spirito carnascialesco, infatti, nella sua eccezionalità, non fa che riaffermare il dominio dell’automaton.
Occorre, invece, un riorientamento del senso dell’educazione che possa includere nella pratica didattica il corpo desiderante, presente nella sua opacità problematica ma ricca di possibilità, differente rispetto alla trasparenza immaginaria del conformismo dominante nell’era digitale.
Occorre che la scuola si definisca come luogo di elaborazione del sapere, tramandato mediante l’attraversamento dialettico dell’esperienza personale, ma anche come spazio istituzionale in cui l’esigenza della norma sociale sia associata alla legge del desiderio, ove la spinta all’originalità dei singoli non scada nel caos dei narcisismi particolari o nella rigidità senza senso di un potere fine a se stesso.
In tale direzione muove i suoi passi il liceo “Tarantino” di Gravina in Puglia, attraverso azioni di riorientamento e riorganizzazione dei tempi e degli spazi scolastici i quali includono azioni di formazione dei docenti all’ascolto ed all’osservazione, modalità educative ispirate alla didattica ludica33 e cooperativa, istituzione di figure di riferimento e di intervento per la prevenzione del disagio, attività di orientamento al sé ed alla scelta, incremento di spazi e tempi dedicati alla libera espressione degli studenti e delle studentesse in correlazione con approfondimenti riguardanti differenti campi del sapere, incentivazione alla partecipazione ed alla libera iniziativa progettuale dei docenti, dialogo con soggetti del territorio finalizzati a creare innovazione e scambio di idee e di esperienze, nell’intento di creare quella circolarità discorsiva che, ponendo al centro l’assenza, invita a dar voce alla presenza.
Berardo Guglielmi, Dirigente Scolastico
Il Progetto “Nessun Parli”. Musica e arte oltre la parola.
Documenti
Quello che abbiamo vissuto in questi giorni
svela un’emozione universale
che ha attraversato la spazio, volteggiato, danzato tra noi ragazzi:
l’emozione data dalla condivisione dell’arte e della musica.
(studenti del Liceo Tarantino, Gravina in Puglia)
In quei giorni del novembre 2017 gli studenti cominciarono a lavorare liberamente: nacquero dipinti, opere musicali, gesti coreutici, atti unici teatrali, installazioni elettroniche. Accaddero cose importanti per l’arte e la comunicazione, ma anche per la didattica. La comunicazione si manifestò in varie forme: anzitutto c’era il laboratorio, uno spazio aperto in cui chiunque potesse esser presente e inventare. In realtà si parla anche disponendo gli spazi. Poi c’erano gli schemi vuoti, specie di canovacci, che si animavano via via a seconda delle situazioni e sulla base dei quali alcuni cantavano, altri suonavano, altri ancora dipingevano, recitavano, danzavano34.
L’esercizio dell’inventiva e del gioco, nel suo senso più profondo di relazione con sé e con l’altro, di sperimentazione e conoscenza, di seria accettazione della norma sociale, trovò le sue mille vie mostrando come la didattica non deve necessariamente adottare modalità comunicative unidirezionali, ma può declinarsi in varie forme.
Al termine dell’esperienza ci fu chi si pose l’interrogativo: come ha potuto l’insegnamento divenire una faccenda dove i diretti interessati sono considerati, per lo più, solo come uditori passivi?
È da questo interrogativo che occorre ripartire per aprire nuove possibilità di ricerca educativa.
Tav. B1 Ottoni
Lo splendore del suono fa rivivere la straordinaria tradizione delle big band
Tav B2 Chopin
Le note blu del Romanticismo rinviano al mistero dell’Universo
Tav.B3 Orienteoccidente
Quando i poli s’incontrano può darsi il miracolo del perfetto equilibrio, come in Mozart
Tav B4 Improvvisazione
Il colore si materializza sulla tela senza preparazione, quasi pittura en plain air alla maniera degli impressionisti
Tav. B5 Escher Bach
Le forme della musica creano un’eterna ghirlanda tra le invenzioni di Bach e i labirinti di Escher
Tav. B6 E lucevan le stelle
L’amore vive sull’orlo dell’abisso, il desiderio cerca la stella perduta, canta il Cavaradossi pucciniano.