“La bambina è l’idolo della madre che in
cambio le chiede ben poca cosa: la sua vita”
(J.Jalinek)
Il film, nonostante sia un’opera di notevole livello artistico, non cattura facilmente la simpatia degli spettatori, piuttosto li tiene avvinti con un’emotività tesa e drammaticamente ansiosa tanto da richiamare le ipotesi freudiane a proposito della “catarsi”.
Erika, “La pianista” si muove algida e sicura tra le stanze del Conservatorio di Vienna e nei salotti ove musica colta ed educazione borghese le permettono di esibire la sua abilità interpretativa in musiche per pianoforte. Negli spazi deputati alla musica, in cui ella è una stimata docente, la sua alterigia sembra una capacità adulta di consapevolezza della propria bravura, della bellezza inaccessibile e dell’ammirazione che riscuote. Presto si scoprirà che tutto ciò è una maschera e che Erika non interpreta la musica donando vitalità e sentimento alle note, ma esegue con abile tecnica spartiti complessi dietro cui nasconde e forse nega sofferenza e paura che, per mezzo dell’esecuzione musicale che le procura gratificazione, mantiene ignote anche a se stessa e con le quali il suo fragile Io non può entrare in contatto. Il complesso dell’Io (Jung C.G, 1927) crea ad Erika confini d’ identità illusori, le dita affusolate e veloci tracciano, con i suoni, spazi che si confondono nei tempi musicali. «Io non ho sentimenti» dichiara al suo allievo (Walter) identificandosi con quelle parti della sua personalità che ritiene più nobili, più adeguate al vivere all’ interno del suo mondo sociale e che ella più stima di se stessa e che, ritiene, meglio la rappresentino.
I poeti romantici, alcuni dei quali hanno vissuto i traumi della malattia mentale, ben conoscevano l’esperienza del contatto con la realtà del mondo attraverso la loro arte: «[…] quando la parola manca all’ uomo non resta che cantare […]» (Heine), quasi che l’arte potesse costituire una sorta di “spazio-relazionale” sostitutivo della parola derivante dal pensiero mentale organizzato.
Mentre ascolta i suoi allievi suonare Erika mostra una assorbita concentrazione ai suoni e si ha l’impressione che non si accorga dell’esecutore-allievo ma soltanto della musica che riempie la stanza. La musica la separa dall’allievo prima ancora del contatto con lui, ed in tal modo, usando questa difesa mentale, può esprimere i suoi giudizi tecnici ed una sorta di capacità mentalizzante. F. Schiller in un suo scritto parla del “segreto artistico del maestro”1 che consisterebbe: «[…] nel distruggere la materia con la forma». Erika esprime nei confronti degli allievi giudizi severi e temuti, senza incoraggiamenti, giudizi che, all’ interno del mondo musicale viennese, vengono interpretati come degni della sua fama di abile pianista ed insegnante integerrima. Erika ignora la realtà dell’altro-allievo, egli diviene irreale, incorporeo, presta attenzione soltanto alle note. Ad essi ella non comunica niente di sé, e forse li considera un mezzo necessario che le permette di mantenere il suo status sociale borghese di stimata docente all’ interno della società viennese colta e raffinata, ma si rivolge loro, spesso, con rimproveri aggressivi, sfumati di sadismo.
Ella stessa nella sua casa è preda di un rapporto di dipendenza conflittuale con la madre che opera su di lei, sadicamente, violenze a cui Erika debolmente si ribella, ma poi finisce per cedere alle richieste intrusive e vessatorie che questa le rivolge. Arriva persino a chiederle perdono in ginocchio nel tentativo di farsi piccola e di rispondere così al desiderio materno di possedere in toto la sua bambina.
Molti autori nella letteratura psicoanalitica descrivono questo tipo di rapporti familiari, che i pazienti ripropongono nella relazione analitica. Bollas (1987) scrive: «Nello studio dei rapporti umani, ogni qual volta ci accorgiamo che una persona obbliga un’altra persona a “sopportare” una parte indesiderata di sé, parliamo di “identificazione proiettiva”. Credo esista un processo che può essere altrettanto distruttivo dell’identificazione proiettiva nel violare lo spirito di reciprocità. Penso, infatti, ad una procedura intersoggettiva che ne è quasi l’esatto opposto, un processo che propongo di chiamare: “introiezione estrattiva”. L’ introiezione estrattiva avviene quando una persona per un certo periodo di tempo (da pochi secondi, ad alcuni minuti o per tutta la vita) ruba un elemento della vita psichica di un’altra»2.
Erika è ancora giovane e bella, la madre è invecchiata e sciatta. Sembra aver annullato in sé ogni femminilità, vive per la figlia, vive della figlia a cui cerca di impedire, anche con la violenza, ogni libertà e autonomia, ogni vezzo femminile. La madre ricorda la matrigna-strega delle favole che l’invidia per la figliastra ormai giovinetta, bella e felice dell’imminente futuro, induce ad intravedere per sé vecchiaia e morte. La strega è immagine fantastica dell’aspetto terrificante e archetipico del materno, quello che incontriamo ancor oggi in alcune donne che rifiutano di invecchiare e curano in modo maniacale il proprio corpo nel tentativo onnipotente e invidioso di perpetuare la giovinezza e sconfiggere così la morte. Ma il momento della più grande bellezza sta nella sua transitorietà, sostiene Sinopoli, consiste nel momento stesso del passaggio dal percepibile all’impercepibile. La bellezza incanta quando sta per divenire memoria.
Erika vive in casa con la madre ed è sottoposta ad ogni sorta di angheria. La madre non tollera di perdere il controllo su di lei sia pure per un ritardo nel rientrare a casa e per punirla le taglia a brandelli i vestiti, le sottrae dalla borsa un abito nuovo e lo strappa.
La minaccia dello smembramento, della lacerazione è sempre in agguato poiché Erika, per vivere, è costretta a mettere in atto meccanismi di difesa arcaici come la scissione e la frammentazione. Infatti ella, oltre a tener separate realtà domestica e realtà del Conservatorio, nasconde un altro segreto. Frequenta le cabine buie dei pornoshop ed i drive-in con intenti voyeuristici e di soddisfazione erotica masturbatoria. In un drive-in subisce anche l’umiliazione di essere scoperta e aggredita, riesce a fuggire, a rifugiarsi nella parte “bene”, accettata e stimata socialmente della sua vita.
Per R. Stoller la perversione è una forma di odio erotizzata in cui si esprime la scissione del corpo dalla mente che, nel film, culmina nella ferita che con una lametta Erika infligge al suo sesso lasciando che il sangue esca senza fermarlo. Queste scene fanno pensare ad una citazione del regista svedese I. Bergman che nel film Sussurri e grida (1972) descrive una simile sofferenza masochistica vissuta da Karin, una delle sorelle accorse al capezzale di Agnese che sta morendo.
La letteratura psicoanalitica, in merito alla perversione, negli ultimi anni si è ridotta sotto la spinta dei mutamenti sociali e politici che si sono verificati in conseguenza della richiesta di affermazione dei diritti alla libera espressione e di garantito accesso ai diritti di civili e sociali, da parte di individui portatori di “altra” identità sessuale. I mutamenti sociali e politici verso l’espressione di una sessualità più “libera” e nelle sue varie forme, rendono difficile anche usare clinicamente le teorie e le ipotesi formulate, nel recente passato, dai teorici della psicoanalisi e della psicologia analitica. Il capitolo della sessualità andrebbe scientificamente ripensato e riscritto alla luce delle recenti mutazioni sociali che comportano anche cambiamenti nella personalità degli individui. Ad esempio in letteratura clinica, nella stanza di analisi e sui social, troviamo nuove forme di espressione voyeuristica: si legge di giovani uomini che, in ufficio, di nascosto, filmano con il cellulare tra le gambe delle colleghe ed a volte pubblicano i filmati così ottenuti sui social.
Comunque, nel caso di Erika i suoi comportamenti sessuali sembrano degli agiti, delle messe in atto dell’angoscia erotizzata al fine di mantenere intatta l’organizzazione di personalità scissa che non è in grado di separarsi dalla madre. I rapporti di dipendenza fusionale, come quello della pianista e di sua madre, in cui la separazione è impossibile, contengono al loro interno cariche di aggressività e di angoscia da separazione che la madre esprime nei suoi comportamenti sadico-dominanti verso Erika. Ella è terrorizzata dall’ angoscia di perdere la figlia che alimenta la sua vita, ed Erika, che non riesce ad esprimere verso la madre il suo odio per l’oppressione cui è sottoposta, non sa concettualizzare, verbalizzare la sua angoscia, è ferma ad espressioni non verbali, talentuosamente musicali, che appaiono evolute, colte ed accettate socialmente perché scisse dall’ odio che Erika rivolge contro la parte del suo corpo che è più simile alla madre: la vagina. Le due donne però non sono consapevoli di tutto ciò ed avrebbero continuato a vivere nella loro situazione di “folle” equilibrio se non fosse comparso Walter, un giovane uomo, affascinato dall’arte di Erika.
Walter è bello, sportivo, appartiene all’alta borghesia ed insegue Erika fino a diventarne l’allievo pur di poterla frequentare. Lei si dimostra anche con lui rigida, algida e severa mettendo in atto quel controllo che le consente una posizione dominante; rifiuta da lui ogni offerta poiché sa che la perdita del controllo conseguente all’espressione delle emozioni represse, significherebbe la perdita dei suoi fragili confini psichici tenuti insieme dalle note musicali. La maschera di Erika, stimata, ammirata, amata è fatta di impalpabili note musicali, fragili confini spazio-temporali. Al di fuori di questi confini c’è il rapporto sado-masochistico con la madre e gli agiti di una sessualità vissuta in luoghi oscuri, ignoti al mondo luminoso del Conservatorio. Erika, però, è attratta da Walter e così inizia un gioco al massacro. Walter vorrebbe un rapporto amoroso “normale”, ma Erika non può accedere ad un rapporto adulto e neanche adolescenziale. Propone una sessualità fatta di “giochi” che disgustano il ragazzo e lo allontanano.
Un episodio che accade al Conservatorio fa emergere in Erika quegli aspetti affettivi che aveva sempre tenuto fuori da quelle stanze. Walter si dimostra premuroso e sollecito con una allieva particolarmente fragile che deve esibirsi in un saggio. Erika aveva espresso a quell’ allieva giudizi poco lusinghieri sulle sue capacità pianistiche. Mentre la ragazza si esibisce con accanto Walter che le gira le pagine dello spartito, Erika, non vista, infila nella tasca del cappotto della ragazza frammenti di vetro triturati che feriscono gravemente la mano destra di lei. La madre di Erika le ha sempre ordinato: «Non permettere che qualcuno ti superi». Pur di mantenere la sua posizione dominante di grande pianista e di donna attraente ricorre a comportamenti estremi. Odio, invidia, angoscia, gelosia hanno varcato e forse lacerato traumaticamente i sottili confini dell’Io, hanno invaso le stanze alto borghesi del Conservatorio da cui erano stati sempre tenuti fuori. Il meccanismo difensivo della scissione è saltato. I contenuti inconsci dell’aspetto archetipico malefico del materno-strega, che non vuol essere superato dall’ allieva-figlia ha varcato le porte che dovevano restare chiuse. Le porte, come avviene in molte inquadrature del film, sono aperte e poi chiuse e poi sbattute con rabbia, dividono, separano, uniscono e nascondono, sembrano una metafora dei confini della personalità; dividono quando sono chiuse ma poiché è possibile aprirle, mettono in continuità gli stessi ambienti che avevano racchiuso. In un assetto di personalità “normale” il complesso dell’Io dovrebbe avere confini atti a separare ma anche a mettere in comunicazione il mondo interiore con il mondo esterno rimanendo distinti e nella consapevolezza della coscienza. Se questi due mondi impattano, senza distinzioni l’uno nell’ altro e si confondono invasivi e senza distinzioni, l’Io non è più in grado di riconoscersi e distinguersi in quanto identità. Il caos identitario invade Erika, la continuità dell’esistenza e del Sé è saltata e nulla può più essere gestito, né il comportamento, né le relazioni. La maschera si è frammentata ella non è più in grado di gestire la sua presenza nel Conservatorio, non ha più presenza.
Freud si definiva del tutto privo di sensibilità musicale e non ha mai dedicato attenzioni allo studio psicoanalitico dei fenomeni musicali, anche se tra i primi partecipanti alle “riunioni del mercoledì” c’era il musicologo e critico musicale: Max Gral, il padre del “piccolo Hans”.
Jung, il 20 maggio 1950, in una lettera di risposta a Serge Moreux, direttore della rivista musicale francese «Polifonie», così scrive: «La musica ha certamente a che fare con l’ inconscio collettivo, come il dramma del resto; […]. La musica esprime in qualche modo il movimento dei sentimenti (o valori emotivi) che attengono ai processi inconsci. La natura di ciò che avviene nell’ inconscio collettivo è archetipica e gli archetipi hanno sempre una qualità numinosa che esprime se stessa con accento emotivo. La musica esprime in suoni ciò che le fantasie e le visioni esprimono in immagini visive […]. La musica rappresenta il movimento, lo sviluppo e la trasformazione di motivi dell’inconscio collettivo»3. Da queste brevi frasi di Jung credo di poter ipotizzare che la musica permette di organizzare i suoni musicali usandoli per evitare un contatto diretto con le immagini archetipiche che potrebbero risultare disturbanti per il complesso dell’Io (ad esempio: la strega immagine fagocitante dell’archetipo materno). Ai suoni “che attengono ai processi inconsci” e che esprimono in modo preverbale, geniali musicisti associano emozioni sentite, intuite, percepite, “conosciute ma non pensate” (Bollas, 1987)
Le scene finali del film si svolgono nell’ atrio del Conservatorio; in occasione di un importante saggio musicale annuale, in cui avrebbe dovuto sostituire l’allieva ferita, Erika, rimasta da sola, si infligge con un coltello una ferita alla spalla in prossimità del cuore, esce, con passo deciso e altero, sanguinante, nella strada. Le porte del Conservatorio si chiudono per sempre alle sue spalle.
Si può immaginare che il comportamento di Erika nelle scene finali sia indotto da un’ansia di annichilimento generata dal fallimento della dissociazione mentale patologica, meccanismo di difesa diverso da tutti gli altri perché ha il compito di difendere l’integrità del complesso dell’Io. Attraverso questo meccanismo è possibile tenere a bada le conseguenze di esperienze traumatiche altrimenti devastanti, che per Erika, possiamo supporre, sono connesse al rapporto con la madre. Ella doveva comportarsi come un oggetto di soddisfazione per la madre, annullando se stessa.
Le sue ridotte capacità di simbolizzazione non erano in grado di rappresentare cognitivamente gli affetti intensi e caotici che provava immediatamente prima del concerto, saggio annuale del Conservatorio. Walter le era passato accanto e l’aveva salutata con un misto di pietà e derisione. Egli sapeva delle sue preferenze sessuali vergognose, conosceva il rapporto anomalo che la legava alla madre e l’aveva rifiutata. Lei che aveva attraversato un’indicibile sofferenza psicologica e che aveva commesso ogni bassezza pur di difendere dalle ripetute offese la luminosità e bellezza della sua musica.
Masud Khan, alla metà del secolo scorso, faceva parte di un gruppo di analisti della Società Psicoanalitica Britannica, tra cui Winnicott, Anna Freud, ed altri, che riconoscevano l’importanza dell’ambiente reale in cui il bambino cresce nei primi anni di vita per il suo sviluppo, per la genesi e l’insorgenza di deviazioni nello strutturarsi della personalità. Il concetto di trauma elaborato da Freud viene ripreso da Winnicott che considera: «Il trauma […] un crollo nell’area dell’affidabilità dell’ambiente mediamente attendibile» (Winnicott, 1989, p.166). Il pensiero di Winnicott ha molta influenza sulle teorizzazioni di Khan che elabora il concetto di “trauma cumulativo” di cui situa l’insorgenza: «in quel periodo dello sviluppo in cui il bambino ha bisogno e si serve della madre (o del suo sostituto) come scudo protettivo» (Khan, 1964, pp.58-59).
Si può immaginare che la madre non abbia mai costituito per Erika uno scudo protettivo, anzi, sembrerebbe che l’ambiente familiare in cui è cresciuta non sia mai stato “sufficientemente buono” ma piuttosto, sia nell’ infanzia che nell’ adolescenza sia stato “continuativamente traumatico”. Erika, pur nella sottomissione alla madre, ha tentato di opporsi ai danni psichici che questa le infliggeva rifugiandosi nel suo genio musicale e nel congelamento affettivo pur di evitare la sofferenza. La sua identità, in bilico tra razionalità e perversione, non è grado di emozionarsi, ma è bisognosa di essere amata.
Chopin affermava: «il pianoforte è il mio alter ego». Non sempre è possibile comprendere l’esperienza psichica per tradurla in parole. Molti compositori ed interpreti (la storia della musica ce ne offre esempi) hanno affidato alla musica il compito di comunicare il loro “conosciuto non pensato”. In questo modo hanno potuto vivere, garantita dal linguaggio musicale non verbale, la continuità del Sé e dell’esistenza. La musica ha permesso loro di rimanere in contatto con il mondo esterno senza rimanervi immersi, ma attraverso il tramite della loro abilità nell’inventare suoni e di condividerli con il pubblico. Potremmo chiamarle relazioni preverbali con il reale esterno. A tal proposito vorrei citare un altro grande film Lezioni di piano (1993), scritto e diretto da Jane Campion, vincitore di numerosi premi. Vi si narra la vicenda di una donna muta che dalla Scozia affronta un lungo viaggio per sposare un uomo, che non ha mai visto, in Nuova Zelanda. Porta con sé la piccola figlia ed il suo pianoforte. Ella comunica attraverso la figlia che conosce la lingua dei gesti ed attraverso il pianoforte. Il marito si rifiuta di recuperare il pianoforte che è rimasto, all’arrivo, abbandonato sulla spiaggia. Questo rifiuto che, rivela incomprensione e durezza, darà alla vita matrimoniale, ed alle successive vicende illustrate dal film, una determinante e tragica direzione ai rapporti della protagonista (interpretata da Holly Hunter) con quella terra ed i suoi abitanti. Il pianoforte rappresentava il “suo alter ego”, necessario ad assicurarle la continuità dell’esistere e delle relazioni anche in un mondo “straniero”.
Anna Cannavina
Psicologa, psicoterapeuta, socio analista del Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA) con funzioni di training e di docenza
NOTE
1 Schiller F.(1795), Lettere sull’ educazione estetica dell’uomo, Guanti, 1981, p.94
2 Bollas C.(1987), L’ombra dell’oggetto, tr. it. Borla 2004, Roma, p.165
3 Jung C.G. (1950), Letters, Princeton University Press, 1973, vol.1, p.542
4 Bollas C. (1987), op. cit. p.41
BIBLIOGRAFIA
Freud S. (1905), Tre saggi sulla teoria sessuale, tr. it. in Opere, vol.4, Boringhieri, Torino, 1970.
– (1919), Un bambino viene picchiato, (Contributo alla conoscenza delle perversioni sessuali), tr.it. in Opere, vol.9, Boringhieri, , Torino 1977.
Gazzillo F., Silvestri M. (2008), Sua maestà Masud Khan, Raffaello Cortina, Milano, 2008.
Jung C. G. (1928), L’ io e l’inconscio, in Opere vol 7, Boringhieri, Torino, 1983.
– (1934), Considerazioni generali sulla teoria dei complessi, tr. it. in Opere, vol 8, Boringhieri, Torino 1976.
Jelinek E. (1983), La pianista, Einaudi, Torino, 1991.
Stoller R. (1975), Perversione. La forza erotica dell’odio, Feltrinelli, Milano, 1978.