Introduzione
In questo articolo si descriverà il trauma non elaborato psichicamente e si dimostrerà quanto possa impattare sulla salute sociale, fisica e mentale dell’individuo, causando forme di autodistruzione. Il trauma può essere associato al concetto di risomatizzazione, di Krystal (1988), che porta l’individuo a perdere l’integrazione di sé, a regredire affettivamente e a inibire le funzioni di auto-cura.
Secondo il concetto di stress aspecifico di Selye (1973), il trauma provoca un sentimento di fallimento che blocca le usuali reazioni di allarme che permettono di reagire in modo funzionale. Dunque, la presenza di uno stress costante ed eccessivo, può provocare nell’individuo una compromissione generalizzata.
Il tema del trauma verrà descritto percorrendo tutti i passaggi di un caso clinico che ho trattato presso il CSM dove ho svolto il mio tirocinio di specializzazione come psicoterapeuta ad orientamento analitico. In particolare, quello che esporrò oggi è stata la mia prima esperienza di psicoterapia come analista in supervisione e nella relazione terapeutica emergono anche una serie di vissuti relativi a questa mia condizione. L’inganno cartesiano del dualismo mente-corpo (1644) ci confonde e ci distrae dalla dimensione clinica della cura della persona nella sua interezza (Baker, 2007). Un approccio olistico alla sofferenza (Vito A, 2014; Lazzari D. 2007), che si contrappone al riduzionismo, prevede l’ascolto e l’accoglimento delle questioni che ogni paziente porta con se. Lo psicologo in ambito ospedaliero deve assumere una funzione di sostegno al malato e alla sua famiglia, utilizzando la cultura della tecnicalità (Solano, 2001). Dunque, non si focalizza più l’attenzione sul mero sintomo, ma si adotta un modello multi-causale, secondo cui per ogni patologia possono essere responsabili diverse cause: biologiche, psicologiche, sociali, stiamo parlando del modello bio-psico-sociale di Engel (1977). In questo caso clinico si intrecciano storia personale e familiare, transgenerazionale e identità femminile, la sofferenza si palesa di fronte ad una terapeuta alle prime armi che è allo stesso tempo spettatrice e curatrice attraverso la liturgia analitica.
Concetto di trauma
Il trauma rappresenta un concetto molto complesso, in quanto può derivare da diverse variabili e possiede una duplice accezione. Il termine deriva dal greco τραῦμα (-ατος) e significa letteralmente «ferita», trova le sue origini nell’ambito medico-chirurgico, con l’intento di indicare una lesione di un organo dovuta ad una causa esterna che provoca dolore. Solo in un secondo momento trova una differente accezione nel mondo psichiatrico e psicologico, riferito all’effetto sconvolgente e disorientante che un evento improvviso e molto negativo può indurre nell’individuo. Il trauma può limitare il funzionamento della persona (Zennaro A. 2011), provocando reazioni incontrollabili, modificando i meccanismi di difesa utili con le difese patologiche (Bessel A. et al. 2004), privando l’individuo degli strumenti con cui solitamente fa fronte alle difficoltà.
Molti sono gli studiosi che l’hanno analizzato per comprendere le conseguenze che questi eventi hanno sul corpo e sulla mente.
Tra i precursori dello studio del trauma psicologico, inteso come evento non assimilabile e disturbante per l’equilibrio mentale, abbiamo Charcot (1897) e Janet (1898).
Charcot, neurologo francese, coniò il termine isteria traumatica, indicando un’associazione tra la paralisi corporea e un forte shock, mettendo in crisi la ferma convinzione che a un sintomo fisico fosse legata sempre e solo una lesione organica.
Janet, filosofo e psichiatra francese, in seguito indica una stretta connessione tra gli eventi della vita passata di un individuo e i sintomi traumatici, rimanendo tuttavia dissociati dalla consapevolezza. La dissociazione dagli eventi passati è possibile grazie alla differenziazione dei livelli funzionali della nostra mente (teoria che divenne modello delle attuali teorie psicotraumatologiche), che separano le esperienze psichiche, provocando inevitabilmente una sintomatologia dissociativa, quella che poi in seguito Freud (1925) definirà come «il materiale rimosso inconscio».
Questi autori concludono il loro pensiero ritenendo che un evento diventa effettivamente traumatico nel momento in cui l’individuo lo elimina dalla coscienza. Dunque, l’evento non potrà più essere controllato attraverso una consapevolezza attiva, ma verrà “regolato” arbitrariamente dall’inconscio.
Lo stress che gli eventi negativi comportano, specialmente se sono frequenti, induce negli individui dei cambiamenti fisioligici. La psiconeuroimmunologia e la neuro-miminomodulazione hanno dimostrato che vi sono delle alterazioni ormonali causate dallo stress che, a loro volta, alterano la sintesi e la liberazione di citochine da parte dei leucociti (Glaser et al., 1999). Tuttavia, queste alterazioni possono dipendere dalle modalità di coping, inteso come capacità di affrontare un evento. L. Temoshok, (1985, 1987) suddivide tre modalità principali: regressiva (totale negazione di responsabilità e auto-svalutazione), trasformativa (assenza di frammentazione, il sintomo si colloca solo ad un aspetto della persona, buona capacità di affrontare lo stress), coping di tipo C (disconoscimento dei propri bisogni e dei propri problemi, per concentrarsi solo su quelli degli altri, scarsa espressione delle proprie emozioni (soprattutto quelle aggressive), con risposta fisiologica maggiore di quella verbale). Analizzando le dimensioni che caratterizzano lo stile di coping di tipo C, si può indicare che predispone e antecede l’individuo ai tumori. Le cause di queste dimensioni si possono ipotizzare attraverso due componenti: quella comportamentale, di ritardo nella ricerca di cure mediche; psicobiologico, nella mancata risoluzione della risposta allo stress attraverso l’attenzione cosciente. Per tutti questi motivi, si ritiene importante prendere in carico il paziente, valutando non solo i sintomi fisici e le loro cause, ma analizzando anche le loro aspettative e le loro risorse per affrontare l’evento traumatico.
Riflessioni su setting di intervento: è possibile una psicoterapia analitica nelle istituzioni?
In ogni percorso terapeutico che si voglia porre in essere vi sono alcuni elementi principali che vanno analizzati e progettati tenendo conto del contesto entro il quale si opera partendo dalla fase iniziale di assegnazione per arrivare all’esito del trattamento stesso. L’oggetto di intervento della psicologia clinica è la relazione individuo-contesto e l’obiettivo è sviluppare le capacità di produzione e scambio del paziente, ma per fare ciò bisogna valutare sia le risorse del contesto in cui si opera, sia del paziente e del contesto in cui si avvia la relazione terapeutica, valutando eventuali eventi critici e strutturando ipotesi strategiche. La funzione dello psicologo, dunque, non si esaurisce nella presa in carico del paziente, ma si estende alla comprensione della relazione tra il committente e il mandato sociale. Quest’ultimo dovrà essere analizzato in modo critico, in quanto inevitabilmente la cornice di riferimento, che deve essere integrata con gli obiettivi e le risorse del contesto (Carli R., Paniccia M.R., 2003).
Con l’avvento della legge 180, del 1978, si è assistito alla realizzazione di una rete di servizi territoriali dove gli psicologi e gli psichiatri forniscono agli utenti un tipo di intervento che comprende l’utilizzo del trattamento psicoterapeutico. Dunque, sin dalla loro creazione all’interno dei servizi territoriali pubblici si attua psicoterapia; nonostante ciò i rapporti tra istituzione e setting psicoterapeutico non sono semplici. Il problema che incontrano le istituzioni che si occupano di salute mentale è il far fronte a un ingente carico di richieste disponendo per lo più di fondi limitati, ciò produce ovviamente difficoltà nel rispondere in maniera efficace alla molteplicità delle richieste di intervento che hanno spesso caratteristiche d’urgenza. L’istituzione quindi diviene sia cornice della relazione terapeutica sia elemento che influenza il lavoro effettuato all’interno di questa stessa; per questo motivo l’istituzione tende ad irrompere nel setting complicando il lavoro clinico. Il contesto ospedaliero è molto complesso ed entra in collusione con la relazione terapeutica, dunque il professionista dovrà guardare oltre la relazione diadica psicologo/paziente e analizzare tutti i contesti relazionali che si costruiscono all’interno dell’istituzione. Ad essere influenzata è specialmente la dimensione temporale del setting che deve adattarsi alla cornice ospedaliera (Grasso M. 2010). All’interno delle istituzioni pubbliche si assiste infatti spesso alla messa in atto di deroghe al setting tradizionale per diversi motivi; capita di non poter mantenere stanze ed orari sia per l’ingente carico di utenza che rende impossibile mantenere a tutti lo stesso appuntamento, sia perché le strutture spesso hanno spazi ristretti per diversi operatori per cui i terapeuti sono costretti a ruotare nelle stanze tenendo conto anche dei turni lavorativi tra colleghi. Tutto ciò viene ulteriormente complicato dall’esigenza di dover rispondere a situazioni d’emergenza (ad esempio l’urgenza di risposta che richiede una telefonata effettuata al 118); tale assetto entra a fare parte inevitabilmente della relazione terapeutica, al cui interno l’istituzione viene a costituirsi come terzo polo, facendo sviluppare nel paziente pensieri, sentimenti, vissuti relativi ad essa; situazione meglio nota come transfert istituzionale. (Menarini, Neroni, 2006)
Definire e strutturare un setting significa creare un campo mentale entro cui si svolge il lavoro psicologico dando la possibilità al paziente di uscire dal proprio caos esistenziale, reinterpretando le vicende personali a partire dai propri bisogni per instaurare un pensiero nuovo. Un luogo in cui ciò che avviene al suo interno possa essere pensato emozionalmente e dotato di senso (Di Blasi M., Lo Verso G. 1995) L’analisi della domanda, costituisce l’atto fondativo del setting, i cui obiettivi sono ancora sconosciuti al paziente che, in un primo momento, accetta l’intervento per necessità e per un atto di fiducia nei confronti dello psicologo. Il setting è quell’ambiente adatto alla cura delle persone poiché passa attraverso la cura della relazione; il concetto di relazione nella psicoterapia è sostanziale, poiché è la relazione che diviene terapeutica.
L’istituzione è come spiegato la cornice esterna del setting analitico; lo contiene.
Ferro (1996) definisce il setting ripartendolo in vari aspetti quali: setting come l’insieme di regole formali; in quest’ottica esso rappresenta l’insieme di regole o di condotte che, poste in essere, prefigurano la situazione psicoanalitica. «Il setting è il frutto di un precipitato di esperienze che si è venuto a configurare e a stabilizzare a partire dalle modalità di lavoro, e anche dalle esigenze personali che Freud aveva via via strutturato come le più adeguate a consentire lo svolgersi della terapia psicoanalitica»1. Questa prima accezione a cui facciamo riferimento comprende la sistematizzazione della stanza, le modalità d’incontro, la regolarità delle sedute, la loro durata e così via: ha quindi una sua fisiologia che riguarda il contratto, le abitudini soggettive, l’onorario, gli annullamenti degli incontri e tutto quello che accade o può accadere tra il paziente e l’analista.
Il setting come assetto mentale dell’analista: «La vita mentale dell’analista ha delle oscillazioni proprie che derivano dal gioco delle sue fantasmatizzazioni ed oscillazioni della mente; la stessa creatività dell’analista è una funzione di tale oscillazione. Non di rado inoltre l’assetto mentale dell’analista, se questi è permeabile agli stati emotivi del suo paziente, varia in funzioni delle identificazioni proiettive che si trova ad accogliere e a trasformare» (Ferro A.,1996 in Di Chiara2, 1983; Brenman-Pick, 19853).
Il setting come rottura del setting: non c’è niente che metta in crisi l’analista quanto sentire poste in discussioni puntuali certezze, molte delle quali sono basate sul puntuale rispetto del setting. Questo modo di pensare ha però troppo spesso fatto perdere di vista come le rotture del setting da parte del paziente abbiano una vivida forza comunicativa, a condizione che ci sia la disponibilità a considerarle sotto questo aspetto (Ferro, 1996, p151).
Nell’accezione classica set e setting sono indistinti e rappresentano il contesto all’interno del quale avviene l’incontro tra due o più persone. Attraverso la ricerca gruppo analitica si è voluto in qualche modo differenziare il setting dal set al fine di focalizzare meglio la dinamica della relazione.
Il termine set fa propriamente riferimento sia alla cornice, al contesto ambientale, fisico, pragmatico in cui si svolge il colloquio, sia all’insieme di regole implicite ed esplicite che caratterizzano il contesto clinico; «Il set è la struttura affettiva temporale che traduce le aspettazioni in ruoli connessi all’identità personale[…] il set terapeutico è un luogo di confine tra la strategia del trattamento e psicoterapeutico e il set del paziente» (Profita, 1997)4. Con il termine set si intende come detto la realtà concreta e materiale dell’incontro; tutto quello che fa riferimento al contesto della consultazione; come il tempo e lo spazio: dove e come il conduttore riceve il paziente: una volta alla settimana, due volte la settimana; sempre nello stesso giorno o orario, oppure in giorni e orari variabili; per quanto tempo, se c’è un onorario oppure se il terapeuta non viene pagato; che tipo di contratto è stato stabilito e quali sono gli obiettivi da raggiungere, concordati con il paziente.
Il set dovrebbe essere per quanto possibile invariato, ciò vuol dire tendere alla stabilità garantita dal luogo, giorno, orario in cui si svolgono gli incontri; la stabilità aiuta a gettare le fondamenta per lo sviluppo di una relazione terapeutica proficua, facendo sentire a proprio agio il soggetto in modo che si fidi di chi ha difronte e sia maggiormente disposto a parlare di sé.
L’invarianza del set non è realizzabile in tutti i contesti; ritornando a far riferimento alle istituzioni pubbliche possiamo renderci conto dei problemi legati alla penuria di operatori e di luoghi adatti dove svolgere i colloqui psicoterapici a fronte di un numero sempre maggiore di richieste d’aiuto.
Il set deve inoltre essere il più neutro possibile poiché il paziente deve potersi “accomodare” con il corpo e con la mente nel luogo in cui avviene il colloquio. Porre all’interno della stanza oggetti o figure che possano infastidire o evocare, più o meno esplicitamente, pensieri, reazioni o comportamenti, farà perdere di vista al conduttore il motivo reale per cui il soggetto ha portano nel colloquio una specifica tematica, piuttosto che un’altra. Dobbiamo infatti tenere sempre a mente che la psicologia clinica è una disciplina estremamente complessa perché influenzata da un numero decisamente vasto di variabili.
Con il termine setting invece si indica la messa in scena, l’azione. Il termine setting come anticipato implica nel suo significato un movimento, un’azione; il setting muta continuamente ad ogni incontro sulla scia di ciò che viene portato all’interno della relazione; esprime quindi il contenuto dell’incontro, il suo senso profondo ed è modificato anche dalle caratteristiche del conduttore e del soggetto. Attraverso la compenetrazione di entrambi gli aspetti nasce e si sviluppa la relazione terapeutica.
Potremo ora prendere in considerazione l’esempio di una psicoterapia relativa ad una paziente presentatasi presso il CSM di Via Boccea nel corso dell’anno 2007/ 2008.
Ingredienti della relazione terapeutica
La relazione terapeutica è il mezzo attraverso cui è possibile conoscere e rendersi conto dell’unicità e diversità delle persone che abbiamo difronte; è questo quindi lo strumento ed il metodo principe di conoscenza-intervento della psicologia clinica; trae ispirazione e origine dal modello relazionale medico-paziente, ma in realtà sviluppa caratteristiche sue proprie tali che la psicologia tende a considerarla una modalità propria ed irripetibile. (Menarini, Neroni, 2006, p 50)
La relazione terapeutica è inoltre la lente che deve essere indossata durante un colloquio clinico, è il filtro che rende possibile la visione dell’altro, che ci fa attori e non spettatori passivi. Sia il conduttore che il soggetto sono allo stesso tempo modificati dalla presenza di questa lente.
La comprensione, la valutazione e l’intervento psicoterapeutico devono mirare ad una trasformazione delle modalità esperite all’interno dei sistemi relazionali umani, tale scopo è perseguibile solo nel momento in cui si crea la possibilità di istituire e utilizzare uno spazio relazionale “altro”, cioè al di fuori dell’agire quotidiano, al fine di ricostruire dinamiche emozionali, cognitive e percettive che l’individuo possa riconoscere come alternative a quelle che lo hanno accompagnato e con le quali ha imparato a identificarsi nella propria vita. I punti cardine che vengono a delinearsi in una relazione terapeutica sono senza dubbio quelli che si generano nei suoi attori. Per quanto riguarda il paziente, il suo apporto alla relazione sarà il frutto del bagaglio personale che porterà con sé, e quindi la sua storia e la sua personalità che verranno attivate nel rapporto attuale con lo specialista. Dal punto di vista del clinico, invece, la relazione sarà determinata dalla risonanza emozionale e dalla riflessione che seguirà le parole del paziente, procedente in un percorso di analisi sempre più complesso. Per ottenere un risultato del genere o meglio, per avvicinarsi a quello che idealmente esso dovrebbe rappresentare, occorre muoversi in una direzione ben precisa, seguendo un percorso chiaro e definito, il setting, nel quale non basta conoscere bene quelli che sono i segnali che porteranno alla destinazione, ma anche unire alle competenze, alle conoscenze di base, all’assunzione di responsabilità. Gli “ingredienti” necessari a strutturare una buona relazione con il paziente ed a stabilire un’alleanza terapeutica sono sia formali: gli elementi della tecnica terapeutica, sia emozionali e relazionali: lo “stare con” il paziente.
Potremmo annoverare tra gli aspetti costitutivi della relazione terapeutica non solo le interpretazioni, chiarificazioni e tutti quegli interventi volti a favorire l’emersione dell’insight e della consapevolezza dei propri processi; ma anche, e soprattutto, l’essere con il paziente, ascoltare, non solo con le orecchie ma anche con la “pancia”, la sua sofferenza, rimanere in silenzio, accogliere il suo pensiero, “essere il paziente”, sentire quello che lui sente, riuscire a comprendere e compenetrarsi in lui; non attraverso una conoscenza di tipo storico-anamnestico, ma cogliendo il suo stile relazionale all’interno della dinamica del contro-transfert. Tali ingredienti, però devono essere sapientemente mescolati per creare una relazione che sia effettivamente terapeutica solo in questo modo essa può ri-organizzare il mondo interno del paziente.
Anche il terapeuta stesso è coinvolto in tale processo; dunque ogni incontro con un paziente porta ad un’ulteriore riorganizzazione di noi stessi.
Nella relazione tra i due poli del colloquio giocano alcune particolari dinamiche definite da Trentini (1995)5 come segue: voyeuristica, autocratica, oracolare, angelistica.
Nel primo aspetto l’intervistatore può cercare di esplorare l’interlocutore, di esaminare il suo intimo, tentando di rimanere sconosciuto all’intervistato. Se tale dinamica spera una certa soglia critica di tollerabilità l’interlocutore potrebbe percepire il colloquio come intrusione indiscreta del proprio mondo generando così spirali di ansia rilevanti.
Nell’aspetto autocratico l’intervistatore tende ad avere un controllo decisamente maggiore rispetto a quello dell’intervistato, tale componente è sempre presente ma potrebbe esserlo in misura quantitativamente differenziata. Di conseguenza il dinamismo autocratico comporta che l’interlocutore tende a sua volta a controllare la situazione, generando nel clinico sensi di colpa per la troppa autorità esercitata, arrivando il controllo del colloquio stesso: rovesciamento dei ruoli, irrigidimento dell’intervistatore.
L’aspetto oracolare -il fare l’oracolo- può essere aumentato in diversi casi (rapporto medico-paziente, consulente-manager, insegnate-allievo ecc.) qualvolta si strutturi qualche pur minima aspettativa taumaturgica e miracolistica superiore alle reali possibilità e capacità dell’attore che si trova a gestire il ruolo di intervistatore
In ultimo l’aspetto angelistico, pur essendo normalmente operante in ogni caso, emerge come scontato ed implicito ogni volta che il ruolo dell’intervistatore è strutturalmente disegnato per aiutare l’interlocutore: scattano allora le norme di disponibilità, le sollecitazioni a rispondere ai bisogni del soggetto. Questa dinamica è di tipo complementare a volte è lo stesso interlocutore che ricerca l’atteggiamento angelistico e che rimane deluso se non lo trova. (Trentini, 1995, pp. 38-40)
L’incontro analitico: assegnazione del caso e nascita di una terapeuta
- 52 anni; arriva al servizio nel novembre del 2006, si rivolge a questo centro per motivi depressivi quali insonnia, pianto, tremori, apatia, incapacità ad affrontare la vita quotidiana, i sintomi si sono aggravati in seguito a un carcinoma mammario. La signora viene assegnata in un primo momento ad uno psichiatra. (“Assegnare”, che brutta parola! Come se le persone fossero pacchi che si assegnano a destinatari ignari). Il medico le prescrive una terapia farmacologica a base di antidepressivo che potrà senz’altro darle giovamento, inoltre la seguirà periodicamente per tutto il tempo necessario di somministrazione della cura.
La signora è coniugata dal 1980 con il marito che conosce sin dalla adolescenza, ha due figlie una di 19 e una di 17. La sua famiglia di origine è composta dal padre di 85 anni, pensionato, due fratelli di cui il maggiore 58 anni affetto da schizofrenia; la madre è deceduta nel corso dell’anno 1982 all’età di 53 anni per carcinoma mammario. La paziente dopo tale evento non ha più rapporti con il padre ed i fratelli.
Lo psichiatra si mette in contatto con la specializzanda psicologa per affidarle il caso clinico in questione. La dottoressa, acquisite tutte le informazioni e precauzioni necessarie si metterà in contatto con la signora per comunicarle la possibilità di usufruire di colloqui psicologico terapeutici.
Diario di bordo: inizia la relazione terapeutica
Dicembre 2007
La paziente viene contattata telefonicamente dalla psicologa, la quale si presenta ed in seguito le comunica l’opportunità di usufruire dei colloqui di sostegno e che sarà lei stessa a seguirla. La paziente si mostra favorevole; viene così concordato un appuntamento.
Il primo incontro con la terapeuta
La signora si presenta al colloquio puntuale, trascurata nell’aspetto fisico e nell’abbigliamento, all’osservazione è evidente un rallentamento psicomotorio, il tono della voce è basso e tremante, il tono dell’umore appare depresso con labilità emotiva.
La psicologa le comunica che sarà lei stessa a seguirla per alcuni colloqui di sostegno psicologico e le chiede poi di parlarle e raccontarle un po’ di lei. La paziente riferisce per prima cosa il suo stato attuale di salute psicofisica: si sente stanca, dice di non farcela ad affrontare la vita di tutti i giorni. Poi racconta della morte della madre avvenuta nel corso dell’anno 1982, a causa di un tumore mammario; poi di seguito della sua asportazione nel corso dell’anno 2002 di un carcinoma mammario.
La madre viene descritta come una figura di riferimento importante, dalla sua morte lei non ha più rapporti con tutto il resto della famiglia, costituita dal padre e da due fratelli dei quali il maggiore affetto da schizofrenia.
La terapeuta prosegue chiedendole di raccontarle se stessa come persona; C. afferma di essere stata fin da bambina sempre moto timida, introversa e malinconica, i rapporti con il marito ed i figli sono definiti come buoni e in particolare parla di loro come figure importanti che la sostengono nel suo star male.
Vengono concordati altri due incontri prima del periodo natalizio per conoscersi meglio e nel mese di gennaio stabiliranno gli obbiettivi di questo lavoro insieme, in quanto vi sono molti motivi di sofferenza che vanno esplorati ed è necessario stabilire quale sia il più importante allo stato attuale da cui iniziare.
Riflessioni:
Nel primo colloquio con un paziente si incontrano per la prima volta i due poli di un solo mondo che sarà poi la futura relazione terapeutica; si cerca di osservare e leggere qual cosa in più della persona con cui si dovrà lavorare e di cui il terapeuta dovrà prendersi cura.
Il primo colloquio non deve essere però considerato come il colloquio d’inizio trattamento; poiché si tratta in questa fase ancora di colloqui diagnostici valutativi. Inoltre, è importante avviare in questa fase dell’intervento un processo di riflessione sulla dimensione dell’invio da parte di terzi per poter riformulare la domanda di aiuto e le aspettative implicite nella richiesta (Grasso M. 2010)
È infatti necessario portare a termine alcuni colloqui valutativi, al termine dei quali, se ritenuto necessario, verrà proposto al paziente di proseguire il percorso iniziato attraverso dei colloqui psicoterapeutici volti al raggiungimento di obiettivi che il terapeuta ha posto in essere dopo aver concordando con il paziente un contratto terapeutico.
La prima cosa che è possibile osservare è che alla domanda della terapeuta di parlare di sé di descriversi la paziente risponde descrivendo la sua famiglia, la madre e la sua malattia; di lei stessa non riferisce quasi niente, come se non riuscisse affatto a percepirsi svincolata da ciò che è il suo contesto di riferimento. La paziente dunque sembra essere consapevole della sua situazione esterna, ossia dell’ambiente che la circonda e degli eventi che le sono capitati, tuttavia si ipotizza che non abbia ancora una buona consapevolezza di sé, mettendo sullo sfondo la propria autocoscienza. Si cerca, dunque di riportare all’attenzione il suo Sé, per iniziare a creare insieme una struttura che possa rappresentarla in modo funzionale (Perconti, 2011)
Colloqui valutativi
La paziente arriva sufficientemente curata, apparentemente più serena della volta precedente. Parlano del Natale; a tale proposito C. racconta che dietro l’indicazione dello psichiatra che la segue per la terapia farmacologica, ha tirato fuori le statuine del presepe che faceva da bambina e lo ha allestito da sola; questo, l’ha portata a pensare alla rottura con la sua famiglia d’origine, padre e fratelli. Emerge poi che è stata lei da sola a farsi carico della madre malata e che dopo la sua morte ha dovuto sostituirla nell’accudimento di suo padre, fino a quando il marito, accortosi delle sue precarie condizioni di salute, ha posto un freno a quella situazione così stressante. La paziente inizialmente dispiaciuta, in un secondo momento si è resa conto che il marito voleva solo tutelarla. La terapeuta cerca di farle comprendere la portata della perdita subita: sua madre, ma soprattutto che tale perdita non è potuta essere elaborata a causa delle responsabilità di cui è stata investita. Inoltre la frattura con la famiglia d’origine le provoca grande dolore che permane vivido in lei, nonostante siano passati molti anni. La rassicura poi dicendole che ha a disposizione questo spazio proprio per poter lavorare su questi aspetti e le rimanda di concentrarsi sulla propria famiglia nucleare poiché ambiente caldo e pieno d’affetto, venutosi a costituire in tale modo anche grazie al suo contributo. Si concorda un prossimo appuntamento.
La paziente arriva al colloquio successivo puntuale, appare più serena ed il viso disteso, sempre trascurata nell’aspetto ma si nota una maggiore attenzione nella cura di sé. Il tono dell’umore pare sempre depresso ma senza labilità emotiva la voce è più ferma e vi è una maggiore disponibilità a parlare, riferisce che questa settimana è stata più serena, l’unico aspetto ansiogeno sono i farmaci, la sua giornata è scandita dalla loro assunzione e questo l’angoscia. Le viene rimandata la buona impressione avuta della terapeuta nel vederla apparentemente più serena. La paziente prosegue poi riferendo di essere contenta, che in questa settimana le è sembrato di star meglio; questi colloqui le fanno molto bene, dice che questa è la prima volta che parla davvero di sé e che affronta i suoi nodi problematici. La psicologa le fa allora presente che questo è anche merito della sua forte motivazione al lavoro psicologico ed a mantenere questo spazio come dedicato a lei e come suo.
La paziente prosegue aggiungendo che il merito è anche della dottoressa, che si trova bene con lei, la vede come una persona calma, accogliente, che sa ascoltare e questo la stimola ad aprirsi.
Il tema trattato nel colloquio è quello della sua sofferenza. La dottoressa le comunica che ci sono vari livelli su cui è possibile lavorare insieme: la sua femminilità, il suo ruolo all’interno della famiglia d’origine, la morte di sua madre, la rottura con il padre e con il fratello ed il suo stato di inadeguatezza rispetto alla sua famiglia nucleare.
La presenza di tanti nuclei problematici rende difficile la singola elaborazione di ognuno di essi, nonostante ciò la sua disponibilità e motivazione al lavoro psicologico sono elementi molto importanti per l’elaborazione di tali vissuti traumatici. Il colloquio viene concluso concordando una serie di colloqui psicoterapeutici volti all’indagine di tutte le problematiche evidenziate precedentemente; viene così stabilito un prossimo appuntamento per il primo lunedì dopo le vacanze di natale.
Riflessioni:
Analizzando questi primi colloqui valutativi si può evidenziare innanzitutto una buona motivazione alla terapia, sono inoltre stati individuati alcuni elementi su cui poter lavorare.
Quanto detto dalla paziente inoltre predispone positivamente per la costruzione di una proficua alleanza terapeutica.
I primi incarichi come psicoterapeuti possono generare grande difficoltà, oltre ad occuparsi della parte diagnostica in maniera accurata, ci sono tante cose a cui è necessario fare attenzione: arginare le eventuali manipolazioni da parte dei pazienti, stabilire e mantenere le regole del setting, essere, prima di tutto, educati e cortesi, poi accoglienti, comunicativi, pronti all’ascolto partecipato, distaccati ma non disinteressati, gestire gli attacchi al ruolo, cercare sempre di rimandare il senso e l’importanza che hanno gli incontri, rinforzare i tentativi da parte dei pazienti di porsi in una prospettiva diversa rispetto alle modalità disfunzionali. Nel caso specifico è molto importante fare attenzione al lutto non elaborato della paziente, in quanto Leon Grinberg (1990) ci ricorda che in ogni esperienza di rottura si produce una doppia perdita: quella dell’oggetto e quella delle parti del Sé in esso depositate attraverso l’identificazione proiettiva. In questo modo secondo l’autore ad ogni lutto oggettuale soggiace un lutto del Sé. Dunque, se non si lavora sulla consapevolezza del sé della paziente, si potrebbe rischiare di rimanere fermi senza sviluppare occasioni di ricostruzione narrativa degli eventi.
Gennaio 2008
La paziente arriva a colloquio puntuale e abbastanza curata nell’aspetto anche se presenta sempre dei segni di trascuratezza del proprio aspetto fisico; appare più distesa, racconta di aver trascorso delle piacevoli vacanze di Natale in compagnia dei parenti e del marito si è sentita coinvolta da loro ed il suo umore è migliorato in particolare riferisce che gli episodi di irritabilità mattutina si sono attenuati. Dice di provare rabbia nel non riuscire a godere delle gioie della vita delle sue figlie e di suo marito è come se qualcosa la fermasse. La dottoressa le chiede se sia sempre stato così o meno, C. riferisce che è qualcosa che accade negli ultimi anni, le domanda ancora se è in grado di immaginare che ciò sia correlato a qualche evento particolare, la signora parla allora della mastectomia, del tumore, della menopausa indotta dai farmaci, dell’ernia, dell’ustione. La Dottoressa cerca di rimandarle come ovviamente tutto ciò abbia leso la sua identità femminile; quelli a cui fa riferimento sono vissuti complessi, dolorosi, difficili da esplorare ed elaborare; nonostante tutto è molto importante che ne parli in questo spazio perché è il luogo in cui fisicamente queste manifestazioni dolorose possono essere verbalizzate. La paziente si mostra favorevole e riferisce di soffrire di una particolare forma di dermatite che coinvolge la pelle di tutto il corpo; questa irritazione si acuisce nei momenti di maggiore sofferenza o rabbia. La dottoressa le fa quindi notare come l’irritazione cutanea sia in stretta relazione con il suo sentirsi irritabile: considerato che non può essere espressa in altro modo, la pelle diviene palcoscenico della sofferenza. È stato importante parlare di questo argomento ed insieme potranno esplorare e visualizzare questa irritazione emotiva. Si concorda successivo appuntamento stesso giorno stessa ora
Riflessioni:
Cominciano pian piano a costituirsi le basi di una relazione terapeutica; ora la paziente si fida della terapeuta, la considera una specialista, ma anche una persona cortese ed accogliente, che sa ascoltare e con cui è possibile parlare di sé, anche dei vissuti più dolorosi come quelli emersi all’interno di questo colloquio. É possibile notare una discrepanza tra emozione e manifestazione degli stati d’animo; questo aspetto genera rabbia e sofferenza nella paziente. Inoltre i vari problemi di salute fisica quali la mastectomia del tumore, la menopausa indotta dai farmaci, l’ernia, l’ustione hanno in primo luogo contribuito negativamente sulla sua salute psicofisica, ma non solo, hanno causato la progressiva perdita di controllo del proprio corpo. La paziente sembra non tenere in alcun modo conto della sua identità femminile: è sempre poco curata nell’aspetto fisico, non si tiene in considerazione come donna. Questa condizione conferma le ipotesi precedenti su una possibile scissione dall’oggetto sé. Inoltre, è interessante considerare quanto il profilo della paziente si avvicini ad uno studio svolto da Becker H, secondo cui donne di età media di 50 anni, che hanno sviluppato un cancro prima dei 48 anni, presentano alcune caratteristiche comuni tra cui: la perdita di una persona emotivamente importante (come ad esempio un genitore), descrivono un clima freddo nella famiglia e una scarsa fiducia nei suoi componenti, inoltre presentavano carichi di responsabilità troppo precoci rispetto la propria età. Hanno, infine degli ideali che possono essere paragonati a donne “forti” che in realtà negano solo il tipico ruolo femminile e le conseguenze a livello corporeo, psichico e sociale.
Colloqui successivi
La paziente telefona per avvisare che per motivi di salute non potrà venire all’appuntamento, si concorda prossimo appuntamento.
La paziente arriva al colloquio puntuale e riferisce di essere stata molto male la settimana precedente a causa dell’influenza, per quanto riguarda il tono dell’umore non ci sono stati problemi, nonostante abbia saltato il colloquio. I contenuti emersi sono legati al vissuto della paziente rispetto al maschile ed al femminile: riferisce di sentirsi intimidita ed in soggezione a confronto con il sesso opposto (ad esempio con lo psichiatra che la segue per la terapia farmacologica), con le donne invece sente di potersi aprire, a questo punto porta nuovamente il vissuto di sofferenza e colpa rispetto alla sua famiglia d’origine; emerge che l’unica figura maschile positiva è quella del coniuge attraverso cui si sente protetta ed accolta e con il quale riesce ad aprirsi. La dottoressa chiede poi informazioni riguardo il problema dermatologico, sembra vada meglio anche se l’infiammazione è più forte nella zona intorno al seno, i vissuti relativi a tale problema non vengono approfonditi
La paziente arriva puntuale all’incontro seguente riferisce di essere stata visitata dal radio-terapeuta per il controllo della terapia antitumorale, in tale occasione emerge, contrariamente a ciò che le avevano comunicato, che dovrà continuare il farmaco fino al controllo successivo in Aprile; questa notizia la agita molto, ma nonostante ciò non riesce a verbalizzare il suo stato emotivo, durante il colloquio si sente mancare chiede di aprire la finestra e bere un bicchiere d’acqua. In seguito a ciò vengono esplorati i suoi vissuti relativi all’intervento, ripercorrendo tutte le tappe fondamentali. Riferisce di aver provato rabbia, dolore e senso di impotenza e di provarli ancora mentre racconta questi eventi; le viene rimandata l’importanza di prendere contatto con questi vissuti dolorosi. Racconta inoltre di non riuscirsi a guardare allo specchio, di vedersi brutta e trascurata ma di non riuscire al contempo a fare nulla per migliorarsi; la terapeuta risponde che tutti questi eventi devono averla segnata profondamente e che non avendo avuto il tempo ed il luogo per elaborare sono tutt’ora presenti; ora ha finalmente la possibilità di farlo mediante questi colloqui.
Febbraio 2008
La paziente arriva puntuale più curata nell’aspetto, per la prima volta si toglie il cappotto. Ad inizio colloquio racconta di aver trascorso una settimana tranquilla, il sonno è stato regolare, il tono dell’umore più stabile. Il tema principale del colloquio è il rapporto con le sue figlie. Lei si sente in colpa per non riuscire a gioire dei loro risultati universitari perché sente che ci sono cose più importanti come la sua malattia, però d’altra parte non vuole neanche dire loro lo stato in cui si trova perché desidera proteggerle dalla sua sofferenza. Durante il colloquio emerge che tali difficoltà sono legate al rapporto con la madre, che lei considera migliore; per lei la figura materna rappresentava tutto: madre, amica, sostegno, mentre non è lo stesso con le sue figlie poiché riconosce di essere troppo chiusa. La dottoressa le rimanda che ognuno agisce secondo la sua personalità ed in base a quello che sente, inoltre la porta a riflettere sul fatto che il rapporto che sua madre ha instaurato con lei, andava bene nel contesto della loro famiglia e non è detto che lo stesso possa adattarsi alla relazione della paziente con le sue figlie. La invita infine a trovare un modo di relazionarsi con le sue figlie che sia in sintonia con i suoi stati emotivi.
La paziente telefona per avvisare che è influenzata. Si concorda prossimo appuntamento.
La paziente arriva puntuale al colloquio, riferisce di essere stata visitata dallo psichiatra che la segue per la terapia farmacologia il quale le ha detto di frequentare il laboratorio di ginnastica dolce presso il centro diurno relativo al CSM. La paziente si è recata presso il centro diurno ma non si è trovata bene, poiché troppo lontano, riferisce inoltre di aver vissuto questa indicazione dello psichiatra come un’imposizione; la soluzione trovata è di frequentare lo stesso laboratorio ma presso il servizio stesso. Racconta poi di vivere male il rapporto con i farmaci e le cure, la dottoressa interviene allora facendole notare come non riesca a sentirsi padrona di se stessa e del suo corpo; la signora conferma questo anche se da un paio di mesi a questa parte dice di stare meglio e di sentirsi più serena.
Anche nel corso del colloquio successivo la paziente riferisce di essere più serena ed aperta; forse qualcosa se pur poco si sta muovendo. Parlano poi del suo inserimento all’interno del progetto riabilitativo elemento rispetto cui la paziente si ritiene soddisfatta, anche se all’inizio è stato vissuto come obbligo. Viene concordato un successivo appuntamento.
Marzo 2008
La paziente racconta che sta facendo la riabilitazione per il braccio lesionato nell’asportazione dei linfonodi, riferisce di sentirsi “handicappata”, imprecisa, le sembra di non vedere alcun miglioramento; avere questi limiti suscita in lei rabbia, prima ha sempre fatto le cose in maniera precisa e non riuscendoci più non porta a termine quello che inizia. Le viene rimandato che confrontarsi con i propri limiti è difficilissimo, soprattutto quando sono stati provocati da qualcosa di estraneo al suo controllo come la malattia e l’operazione subita, ma proprio per questo non deve sentirsi incapace e cercare piuttosto di prendersi cura di se stessa e cercare di combattere le sue difficoltà. La paziente afferma di vedere tutto nero ma la dottoressa le fa notare come insieme potranno cambiare questa sua prospettiva.
Nel colloquio successivo viene ripreso il tema della seduta precedente, quello del confronto con i propri limiti, la paziente asserisce di non riuscire a rapportarsi con questo vissuto di inadeguatezza interna. La terapeuta le domanda allora da dove ipotizza possa derivare ciò, Concetta risponde affermando possa essere correlato al suo sentirsi ed auto definirsi “Bambina ubbidiente”, da questa frase si inizia a parlare del rapporto con la madre Quella della paziente è descritta come una madre perfetta che si sostituisce alla figlia in ogni ambito, tanto da non permetterle di sperimentare se stessa. Questa figura genitoriale interiorizzata è il suo modello interno a confronto del quale si sentirà sempre sempre inadeguata. Il colloquio termina con la richiesta da parte della terapeuta di rifletter su quanto detto a proposito della figura materna.
Si continua a lavorare nel tema dell’accettazione dei propri limiti e del lasciarsi aiutare, la paziente racconta di aver provato a stirare ma di non avercela fatta e di aver avuto per questo motivo una crisi di pianto. Riferisce di provare rabbia verso se stessa che e di sentirsi inutile. Le rimandata la sua propensione alla sfida con sè e come questo non le sia d’aiuto; la sua vita è cambiata radicalmente ed è doveroso accettarlo, ma è altrettanto importante che non testi eccessivamente su di sè questa novità.
Aprile 2008
La paziente comunica che non verrà all’appuntamento. Viene così svolto un colloquio telefonico con la paziente che avvisa la terapeuta di essere bloccata con la schiena, la dottoressa le augura di ristabilirsi al più presto e le dà appuntamento dopo due settimane sempre alla stessa ora.
Maggio 2008
La paziente arriva puntuale e più curata del solito, ha tagliato i capelli, riferisce che nonostante il brutto colpo alla schiena è stato un periodo sereno e che si sente meglio. Si è subito attivata per spostare la fisioterapia al braccio perché sente che è qualcosa che la fa stare meglio. La dottoressa rafforza questo suo momento di positività sottolineando come per la prima volta si sia presa cura di se stessa senza essere spronata da nessuno. La paziente porta a questo punto un contenuto nuovo: il suo bisogno di contrastare i familiari. Sente di doversi imporre con loro, ma poi se ne pente, le viene rimandato che questo è comunque un suo bisogno che va ascoltato e che rappresenta un elemento di novità rispetto al suo senso di inadeguatezza ed ai sentimenti di autosvalutazione. Viene proposto di lavorare su questo tema. La paziente conclude affermando di sentirsi meglio e ne attribuisce il merito alla terapeuta la quale le restituisce di imparare a riconoscere i suoi passi avanti.
Nel colloquio successivo la paziente arriva inaspettatamente in ritardo, è sconvolta racconta con un pianto soffocato che al controllo oncologico le hanno scoperto un addensamento al seno opposto rispetto a quello a è stata operata, ora dovrà rifare esami di accertamento molto dolorosi, è carica di angosce e paure, dice che le è crollato il mondo addosso, come se tutti i controlli fatti ed i farmaci assunti da cinque anni a questa parte non fossero serviti a nulla. La terapeuta le rimanda l’importanza di esprimere tali vissuti ed inoltre la incita a non identificarsi con la sua malattia ma a lottare contro di essa assumendo un ruolo attivo nell’affrontare tali eventi pur rendendosi perfettamente conto della gravità del problema e sentendo la sua difficoltà e sofferenza. Si conclude il colloquio dando la possibilità alla paziente di un altro appuntamento all’interno della stessa settimana, è incerta, non sa se verrà, la dottoressa le dice di non decidere ora e di avvisarla il giorno stesso qualora non si presentasse.
La paziente arriva puntuale e curata, appare serena mi racconta di aver effettuato tutti gli esami necessari, e di averli vissuti in maniera meno angosciante, suo marito è stato con lei, ci sono state crisi di pianto e di insonnia transitoria ma tutto sommato ha affrontato bene questa difficile situazione. La terapeuta le rimanda quanto sia importante che si riconosca l’assunzione di un ruolo più attivo nella gestione della cura di sé ed anche la possibilità di accettare l’aiuto degli altri senza viverlo come una svalutazione per sé. Aspetterà i risultati delle analisi per la settimana prossima.
Giugno 2008
La paziente arriva puntuale e curata, riferisce che i risultati degli esami sono negativi e non dovrà sottoporsi a nessun intervento, racconta inoltre di essere stata più serena, anche se si ritiene una persona troppo fragile ed incline a deprimersi qualsiasi cosa. La terapeuta le rimanda invece come non stiano affatto così le cose, come lei sia una donna forte che ha dovuto sopportare molti dispiaceri e sofferenze e che nonostante questo è riuscita ad andare avanti e a prendersi cura di sé, è semplicemente umana, le emozioni che prova sono legittime. La paziente si ritiene pienamente soddisfatta e serena grazie a questi colloqui afferma che da quando ha iniziato va già molto meglio anche grazie alla sua psicologa molto brava. È necessario anche che riconosca il suo ruolo all’interno di questo spazio e che lavori sul fatto che tende ad essere molto severa con se stessa e che non riesce a riconoscere i passi avanti che fa.
Nel colloquio seguente la paziente riferisce di sentirsi meglio e più leggera e meno cupa e questo si riflette anche a livello posturale finalmente ha la testa alta. Parla delle figlie e del rapporto con loro, cerca di non coinvolgerle nelle sue vicende mediche. Da qui viene riaffrontato il rapporto con la madre che la paziente stessa definisce “fusionale” Questa tematica verrà affrontata anche nei prossimi colloqui
Nel colloquio successivo la paziente comunica che quella sarà l’ultima volta che si vediamo prima delle vacanze estive perché ha deciso di accettare l’invito della suocera a passare il mese di giugno al mare insieme a tutta la famiglia del marito. La terapeuta le rimando che è importante che abbia preso questa decisione di aprirsi e di accettare l’invito della suocera e la invita a fare il punto della situazione dopo otto mesi di trattamento psicologico.
La paziente afferma di sentirsi più serena, sono migliorate le capacità motorie ed affettive, anche la capacità di concentrazione mostra miglioramenti come anche le azioni finalizzate; il tono dell’umore è meno orientato sul versante depresso, permangono, anche se attenuate le difficoltà di nell’addormentarsi ed i risvegli notturni. La paziente parla però anche di sentimenti di rabbia che prova in maniera molto evidente in particolar modo la mattina; si sente irritabile, tale irritabilità è una sensazione fisica che si esprime in comportamenti di rimprovero verso le figlie ed il marito anche per motivi che lei stessa definisce irrilevanti come per esempio la collocazione degli oggetti. È consapevole di come tale comportamento possa essere sgradevole e che una volta messo in atto le provoca risentimenti; nonostante ciò non riesce a controllarsi; la psicologa le comunica che questa rabbia è venuta fuori ora poiché i sintomi depressivi si sono attenuati e attraverso la terapia sta acquistando la capacità di ascoltarsi, ora è importante che la rabbia venga canalizzata in maniera diversa per poi indagarne cause. Prima di congedarsi le propone di tenere un diario di auto osservazione dove appuntare tutti gli eventi che ritiene significativi. Concetta riferisce di non voler fare come suo solito la “brava bambina” che prende un impegno e lo porta avanti per senso del dovere; quindi scriverà sul diario quando ne sentirà la necessità. Questa decisione è molto importante, ha compreso il senso di questi colloqui e sta imparando ad ascoltare le sue esigenze. Si scambiano i saluti dandosi appuntamento per il mese di settembre.
Settembre 2008
La paziente arriva puntuale e curata, si presenta all’osservazione con uno status psichico nella norma, riferisce di aver passato l’estate al mare ed in campagna, i sintomi si sono attenuati sensibilmente: il sonno è più regolare il tono dell’umore non è più francamente depresso la paziente dice di sentirsi più “aperta e leggera”. Questo miglioramento ha giovato anche alle figlie ed al marito modificando le reazione interpersonali, è più in contatto con se stessa e riesce a comunicare con gli altri in maniera efficace e libera.
Nel colloquio seguente comunica con gioia di essere uscita con sua figlia un pomeriggio e di aver fatto con lei un giro per negozi, ha vissuto questo evento con grande entusiasmo, in quanto prima non riusciva nemmeno ad uscire di casa, si sentiva oppressa, manifestava dei sintomi ansiosi, aveva la sensazione che gli oggetti le ruotassero attorno, le sembrava che tutto fosse uguale e tutto grigio. Dopo il colloquio uscirà nuovamente con l’altra figlia; è contenta, le sembra incredibile stare così bene, non sente più quel senso di pesantezza, non vede più tutto così cupo, dorme molto meglio.
La terapeuta restituisce come questi cambiamenti siano importanti e rappresentino l’inizio un processo di cambiamento; è importante quindi procedere in questa direzione riuscendo a godere di queste piccolo gioie.
Nel corso del colloquio seguente la terapeuta comunica che dal momento che gli obbiettivi clinici sono stati raggiunti e che c’è stato un notevole miglioramento della condizione psicologica è possibile pensare ad una conclusione di questo percorso clinico nel corso di un di un periodo di due mesi. La risposta della paziente è senz’altro favorevole e si avvia alla conclusione con buona motivazione.
Ottobre/ Novembre 2008
In questo mese di trattamento la paziente ricostruisce la sua storia di malattia iniziando dall’evento traumatico della malattia della madre; ha molta voglia di parlare e per la prima volta fornisce un racconto chiaro, strutturato e carico di vissuti emotivi. Riferisce di stare molto meglio e di aver trascorso la domenica in gita insieme al marito, appare serena distesa e lucida.
La paziente in questi due mesi si definisce dispiaciuta per la chiusura del trattamento ma nello stesso tempo è molto soddisfatta del percorso fatto; afferma che per la prima volta si è potuta ricavare un suo spazio da salvaguardare; per la prima volta è riuscita ad aprirsi e manifestare la sua sofferenza, racconta di aver potuto finalmente guardarsi allo specchio e di aver pianto davanti ad esso. È stato un momento molto importante. Le viene rimandato che il lavoro fatto insieme le ha permesso di scoprire le sue risorse, di acquistare la capacità di leggere se stessa ed i suoi stati emotivi e di guardare la sua sofferenza.
Il trattamento si conclude ma con queste acquisizioni lei potrà andare avanti nel prendersi cura di sè cosa che ora ha imparato a fare.
Riflessioni conclusive
Sono emersi durante i mesi di corso della psicoterapia, elementi importanti sui cui riflettere.
La realtà della relazione terapeutica e del suo ruolo emergono in vari momenti della terapia.
La paziente afferma a più riprese che il merito del suo star meglio è dovuto anche alla terapeuta, cui riconosce la capacità di essere stata accogliente e comprensiva, tanto da infonderle un sentimento di fiducia che ha potuto in primo luogo rendere scorrevole il dialogo, in secondo facilitare l’emergere di argomenti e tematiche dolorose quali il rapporto con il marito e con le figlie, i contatti con la famiglia d’origine, l’iter di operazioni subite, l’angoscia del possibile ritorno della malattia. La paziente asserisce di trovarsi bene, di sentirsi a suo agio.
Un fattore che potremmo considerare sostanziale per l’alleanza terapeutica è il riconoscimento da parte della paziente che quello in cui si trova è il suo spazio: individuale, personale, dove poter esprimere le proprie sofferenze dove poter dare voce a pensieri ed emozioni difficilmente verbalizzabili in altri contesti a quelli che Freud definiva, lavorando con le pazienti viennesi, i “pensieri indicibili”6.
È importante non perdere mai di vista, che per quanto sia soddisfacente sentirsi responsabili di un cambiamento così positivo, la paziente potrebbe ancora mantenere una struttura di locus esterno (Rotter 1954), che non le permette ancora di attribuire a sé stessa le conseguenze dei suoi progressi.
La terapeuta sottolinea più volte di considerare e rispettare il contesto, il luogo in cui si trovano, intendendo in tal modo sia il l’ambiente fisico dei colloqui, sia il percorso di condivisione che stanno svolgendo insieme.
Le aree di indagine evidenziate dalla terapeuta sono le seguenti: la femminilità, il ruolo all’interno della famiglia d’origine, la morte della madre e la successiva rottura con il padre e con il fratello, lo stato di inadeguatezza rispetto alla famiglia nucleare.
Per quanto riguarda il rapporto con la propria femminilità potremo affermare che nel corso delle prime sedute la paziente mostra, pur rimanendo entro i limiti, una scarsa attenzione alla postura, all’abbigliamento, alla cura del proprio aspetto. Solo nei mesi successivi si comincia a percepire pian piano un sensibile cambiamento concomitante la presa di coscienza, da parte della paziente, dello spazio a lei dedicato; si modifica in tal senso la prospettiva da cui la stessa si percepisce e considera i problemi e le sofferenze esposte.
Imbasciati, nella Lez. XV, (Imbasciati,1990) riguardo la femminilità, sostiene che generalmente la donna ha vissuti corporei differenti da quelli maschili, in cui è centrale il sentimento che riguarda la bellezza o la bruttezza delle proprie fattezze fisiche, nell’animo femminile questo è un’importante regolatore del modo con cui la donna si relaziona agli altri, essa manifesta spesso la preoccupazione che l’esterno del proprio corpo sia gradevole per sconfiggere l’intima paura che l’interno sia guasto7.
Possiamo costatare come l’identità femminile della paziente sia andata gradualmente sgretolandosi nel corso degli anni: prima l’intervento al seno sinistro nel 1992, poi l’intervento al seno destro nel 2002, sempre nello stesso anno una grave ustione alle gambe, una attuale e forte irritazione cutanea messa in relazione con il suo stato di irritabilità; è quindi facile comprendere come la paziente abbia visto sprofondare nella penombra alcune visibili connotazioni della propria femminilità.
La terapeuta richiama più volte come questi vissuti siano complessi, dolorosi, difficili da esplorare ed elaborare, nonostante tutto ribadisce sempre l’importanza che la paziente ne parli in quello spazio perché è il luogo in cui fisicamente i vissuti dolorosi possono essere verbalizzati.
La signora riferisce, vedendosi “brutta” e trascurata, di non riuscire a guardarsi allo specchio ma di non poter, al contempo, fare nulla per cambiare quella realtà, come se non riuscisse a sentirsi “padrona del suo corpo”. La terapeuta sottolinea come ciò sia causato da tutti gli eventi traumatici che l’hanno profondamente segnata e che in quel loro spazio potrà ad essi dare la parola.
La paziente rende proprio tutto quello che le viene rimandato, contribuendo così durante il corso della terapia, a realizzare un cambiamento profondo ponendo attenzione ai proprio mondo interiore. Possiamo provare a tracciare una retta immaginaria compresa tra due punti: Dicembre 2007 e Novembre 2008 che comprenda trasversalmente tutte le problematicità analizzati durante l’anno; attraverso ciò che la paziente riferisce, osserveremo come vadano tutte assumendo colorazioni differenti, distanziandosi dal punto di partenza con il trascorrere dei mesi.
È questo segno tangibile di come l’alleanza terapeutica, unita ad una forte motivazione, sia un’insostituibile strumento per ottenere risultati positivi dall’intervento applicato.
La paziente riferisce durante i colloqui argomenti inerenti il rapporto all’interno della famiglia d’origine; parla della madre asserendo che per lei la figura materna rappresentava “tutto”: madre, amica, sostegno.
Queste riflessioni portano la paziente a confrontarsi con la figura materna; riferisce a tal proposito di considerare quasi perfetto il suo modo di reagire ed interagire con i membri della famiglia d’origine; lei invece, sostiene di non essere “brava” come sua madre, con le figlie ed il marito è sempre nervosa e scostante, riferisce per questo di soffrire molto sentendosi in colpa per non riuscire a partecipare delle piccole gioie familiari, ad esempio i risultati universitari delle figlie, poiché la sua malattia è il fulcro intorno a cui ruotano tutti i pensieri.
La terapeuta cerca di rimandare alla signora l’inesistenza di un modo universalmente giusto di agire, sua madre possedeva il proprio, adatto alla loro famiglia, tale metodo non potrebbe adattarsi alla relazione con le sue figlie; uno degli obiettivi condivisi è a tal proposito quello di cercare di trovare una modalità relazionale per interagire, condividere emozioni e momenti lieti con le figlie. Si ipotizza, infatti, che la paziente possa essere bloccata dal desiderio di voler imitare la madre, procurando in lei una rivalità contro un fantasma in cui non si rivede, secondo il concetto di “valore imitativo” di Girard (1961) e delle percezioni sensoriali.
Nel corso dei mesi di terapia la paziente si impegnerà a tale fine, tanto da riferire in uno dei colloqui successivi di essere uscita con le figlie in due momenti separati per fare compere insieme, di aver provato emozioni positive e di essersi meravigliata di se stessa e dei progressi fatti.
Per ciò che concerne invece la perdita della figura materna e la conseguente rottura con la famiglia d’origine ricordiamo in primis come la perdita di chi ci è più vicino possa essere un evento traumatico e difficile da elaborare. «Normalmente noi viviamo come se mai dovessimo morire, realizzando quel particolare processo psichico che Freud Chiamò “negazione”. Ci accorgiamo dell’esistenza della morte solo quando abbiamo occasione di verificarla in altri[…]. La negazione consiste, dunque, nell’esprimere qualche cosa di spiacevole negandolo, quel processo per cui una percezione o un pensiero sono ammessi alla coscienza in forma negativa» (Di Nola, 2005)8. L’esperienza di un lutto, il perdere una persona cara e così centrale nella vita di ognuno, come la madre, determina l’esplosione di cariche intense e tal volta conflittuali;(Di Nola, 2005 p24) la paziente nel caso specifico a cui viene fatto riferimento decide di interrompere bruscamente i rapporti con il padre ed i fratelli.
A confermare questo atteggiamento sono le teorizzazioni di Engel e Schmale (1967) sul complesso di rinuncia-condanna (giving-up given-up complex) presente in quelle persone che non hanno le appropriate difese e strategie psicologiche per affrontare una perdita. La paziente infatti presenta a livello affettivo un sentimento di impotenza (helplessness) e di disperazione e perdita di ogni speranza (hopelessness). Questo è collegato anche all’attivazione del suo atteggiamento tendente all’isolamento (conservazione/ritiro) opposto al ad un atteggiamento più funzionale (attacco/fuga).
La paziente, in seguito al lutto della madre ha subito una disorganizzazione fisiologica, che non è riuscita a gestire a causa delle aspettative relazionali che aveva. Solo revisionando queste aspettative confrontandole con la realtà si può avviare un processo di sviluppo che permetta alla paziente di eliminare il legame e di chiedere aiuto o impegnarsi in nuove situazioni risanando il lutto.
In questo lavoro ho cercato di analizzare alcuni degli aspetti della psicologia clinica e, nello specifico, la sua declinazione all’interno del servizio pubblico in particolar modo nei Centri di Salute Mentale (CSM).
Ho strutturato il campo di indagine di questo scritto partendo da un’ottica piuttosto generale relativa al colloquio psicologico clinico cercando, per quanto possibile di darne una definizione, collocazione e di descriverne le caratteristiche salienti che lo discriminano da tutte le altre forme di interazione umana. Successivamente il focus di interesse è stato centrato sull’impiego del colloquio clinico all’interno dei servizi pubblici che si occupano della salute mentale; sono stati messi in luce tutti quegli elementi propri della pratica clinica, che in vengono però largamente influenzati e modificati dal contesto e dal luogo di riferimento; quello che consideriamo set istituzionale è un unicum che comprende tutto ciò che riguarda il colloquio ed il luogo in cui si svolge iniziando dalle mura della struttura fisica in cui esso avviene, arrivando in ultima analisi ai soggetti dell’incontro; il set quindi irrompe fortemente nella relazione tra i protagonisti e si compenetra con essa, ne diviene parte costituente.
Nel capitolo III ho riportato quella che è stata la mia esperienza di tirocinio presso il Centro di Salute Mentale di Via Boccea (Roma); il tirocinio ha avuto la durata di sei mesi, nei quali ho avuto la possibilità di toccare con mano per la prima volta la realtà della pratica clinica. Tutte le attività svolte sono state senza dubbio formative, contribuendo in primo luogo alla stesura di questo lavoro, ed in ultimo alla mia formazione di futura psicologa ed hanno contribuito ad aumentare la forte passione per questa tipologia di studi e di lavoro.
Nel IV capitolo è stata affrontata la tematica riguardante la relazione terapeutica, il suo ruolo centrale ed imprescindibile per qualsiasi tipo di intervento clinico e la sua funzione nella psicoterapia. Quando parliamo di relazione terapeutica facciamo riferimento alla condivisione sincera, profonda, scevra da ogni pregiudizio di tutto quello che verrà riferito all’interno della stanza d’analisi; tale condizione comprende sia il paziente che il terapeuta poiché essi sono entrambi attori
del colloquio, entrambi arricchiscono e modificano il loro modo di percepire la realtà poiché essa non è unica, immutabile e lineare bensì complessa, camaleontica.
In fine nell’ultima sezione è stato riportato un caso clinico relativo ad una psicoterapia della durata di un anno che ha avuto come sede il Centro di Salute Mentale di via Boccea.
Di questa psicoterapia sono stati riportati, facendo fede alla loro forma originale: il protocollo di accoglienza del centro (scheda di primo contatto, questionario di accoglienze e Self-report Symptom Inventory-Revised SCL90) ed i in breve colloqui clinici svolti; ho cercato nelle riflessioni conclusive sul caso di fare una breve panoramica delle problematiche affrontate durante i colloqui ponendo attenzione a come queste siano andate assumendo connotazioni diverse con il trascorrere dei mesi.
La psicoterapia sopra descritta, nonostante non sia potuta essere un’esperienza diretta, è ugualmente stata in grado di fornirmi importanti elementi su cui riflettere.
La scelta del tema centrale di questo lavoro è stata fortemente motivata ed incentivata dalla mia esperienza di tirocinio; i mesi di lavoro presso CSM di via Boccea hanno reso possibile l’ingresso nel mondo della psicologia con tutte le sue sfaccettature e contraddizioni, mostrandomi come la realtà del disagio psichico non sia totalmente “bianca o nera”, bensì creata dall’unione di tutte le tonalità del bianco e del nero unite insieme all’interno di un solo individuo.
La paziente a cui viene, nello specifico, fatto riferimento non è: “una depressa”, bensì la signora C.C. portatrice di un disagio di tipo depressivo, acuitosi a causa di una serie di spiacevoli vicissitudini che vanno succedendosi da circa una decina d’anni. La terapia stessa infatti inizia ad assumere un aspetto differente proprio nel momento in cui la paziente riesce a percepire se stessa come disgiunta dalla diagnosi depressiva, iniziando a considerarsi unica ed irripetibile come anche lo spazio a lei dedicato durante i colloqui; faticosamente parla di sé, si descrive prescindendo il marito, le figlie, la madre e la malattia. L’esatto opposto di quello che era avvenuto nel corso del primo incontro.
Le riflessioni successivamente nate in me riguardano in particolar modo l’affascinante complessità dell’operato di uno psicologo: individuare i nuclei problematici, saperli affrontare tenendo conto che, anche solo uno sguardo o poche parole pronunciate in un momento in cui non dovevano essere dette, potrebbero incrinare la relazione costruita.
Come e quanto quindi la forza delle parole possa “ammalare”, e in ugual misura possa “guarire.”
Nelle situazioni estreme, attenersi alle abitudini e alle attività quotidiane può essere molto importante ai fini della sopravvivenza (si veda Kertz, 1995) attività auto-rassicuranti e auto-protettive. I rituali quotidiani e la cura personale sono spesso disturbati, il che ostacola la capacità di frequentare regolarmente le sedute e di avere fiducia nella cornice terapeutica. È stato affermato (Bleger, 1967; Sas, 1993) che le abitudini e i rituali della vita quotidiana sono anche il deposito degli aspetti più primitivi e indifferenziati della personalità. Una delle conseguenze dell’incapacità di praticare tali rituali quotidiani può essere l’attivazione di un meccanismo responsabile del funzionamento psicotico rilevabile in molti traumatizzati gravi. A un livello di gravità minore, un’alterazione nel funzionamento di quest’area può provocare confusione e disorganizzazione. Ne risulta che la cornice o setting diventa spesso l’aspetto principale della terapia. Si tratta di un importante fattore terapeutico nel lavoro con i pazienti traumatizzati (Salonen, 1992), perché la stabilità e la sicurezza impliciti nel setting possono essere interiorizzati e aiutare il paziente a raggiungere un sentimento di sicurezza e di prevedibilità. Includerei in quest’ambito anche la dimensione di base di un incontro con l’ “altro” empatico. Recenti studi sullo sviluppo infantile hanno dimostrato come tale relazione, che comprende anche cure materne sufficientemente buone, crei per il bambino quell’ambiente, definito da Hartmann come «quello che ci si può aspettare nella media», che è necessario per stimolare e liberare l’innata tendenza dei pazienti verso la crescita.
Il transfert dipendente/contenitivo
Questa forma di transfert corrisponde alla cornice terapeutica e crea un’analogia con una relazione genitoriale protettiva, un ambiente di holding (Modell, 1990). Nell’ambito del setting è possibile attualizzare in forma simbolica i conflitti e gli arresti nello sviluppo, il che significa che gli aspetti della personalità danneggiati dalla situazione regressiva provocata dal trauma, per esempio la fiducia di base (Erikson, 1950) possono essere attualizzati nella relazione con il terapeuta. L’altro, in questo stato mentale, viene percepito come pericoloso, incomprensibile o ambedue le cose.
Il transfert iconico/proiettivo
Questo livello si avvicina al concetto classico di transfert: il terapeuta diventa il recettore delle proiezioni di diversi aspetti delle immagini del Sé e delle immagini dell’oggetto del mondo interno del paziente, come il padre punitivo, la madre investita di desideri incestuosi, il paziente come vittima (oppure identificato con l’aggressore). Nel caso di A., in alcuni momenti il terapeuta poteva essere vissuto come il conduttore, paranoico e aggressivo, degli interrogatori in prigione. Il terapeuta può tuttavia rappresentare anche un oggetto capace di amore e di cure, Un aspetto del transfert era la proiezione sul terapeuta della figura di un genitore/marito amoroso e pieno di attenzioni. Questo porta come conseguenza la comparsa di un nuovo inizio, la speranza di una nuova famiglia. In questa situazione, M. visse la perdita del bambino in un modo nuovo. Non avendo potuto a suo tempo compiere una vera e propria elaborazione del lutto, le sedute le permisero di recuperare dei ricordi, prima come flashback, poi sotto forma di memorie vere e proprie e di sogni, che favorivano il lavoro di integrazione. Il trauma della perdita era rivissuto nel contesto della speranza di un nuovo inizio. Il trauma si andava risolvendo, permettendo al processo del lutto di cominciare. L’oggetto perduto doveva in primo luogo essere vissuto come “vivo” nel transfert, perché il lavoro del lutto potesse aver luogo. M. aveva subito il trauma nei primi anni della vita adulta, subito dopo aver formato una famiglia. I problemi, i conflitti, le speranze e le gioie di questo periodo contrassegnarono la relazione transferale. Ciò porta a rivivere il passato in relazione al terapeuta, un passato che era rimasto in forma congelata, dato che il trauma era ricordato soltanto attraverso le sofferenze del corpo, la depressione e gli acting. Perché potesse accadere questo, occorreva, per usare una espressione di Resnik (1995), che il transfert fosse un luogo sicuro, dove i ricordi potessero essere messi in gioco. Per molti pazienti traumatizzati, questa forma di terapia può essere dolorosa, perché significa rivivere e ri-simbolizzare. Ne consegue la necessità che esista un sentimento interiore di fiducia e di stabilità per poter elaborare il lutto degli oggetti perduti. Se manca tale sentimento, diventa prioritario costruirlo, ed è di importanza vitale dedicare molta attenzione al setting. Il processo di simbolizzazione o di mentalizzazione della relazione dei pazienti con le loro esperienze traumatiche è complesso, ed esige che il terapeuta sia capace di creare un clima di fiducia. L’affermazione dell’esperienza psichica (Killingmo, 1995) può essere la modalità di intervento più importante per lunghi periodi. In sostanza, l’affermazione conferma lo stato mentale soggettivo dell’altro. Ciò è di cruciale importanza quando il paziente traumatizzato cerca di negare la realtà psichica per evitare il dolore.
La precocità e il rivivere ripetutamente esperienze di deprivazione materna, nel periodo in cui il bambino vive uno stato di assoluta dipendenza nei confronti della figura che rappresenta il suo primo oggetto d’amore, si traducono in angosce traumatiche, cioè in vissuti emotivi “impensabili” capaci di creare una profonda frattura nella continuità personale del bambino (Craparo G., 2013).
Francesca Andronico
Psicologa Clinica e di Comunità, Esperta in Psicologia Giuridica, Psicoterapeuta-Gruppoanalista
Cecilia Paglia
Psicologa
Miria Di Legge
Psicologa
Note
1 Ferro A., Nella stanza d’analisi Emozioni, racconti, trasformazioni, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996 p.149,150
2 Di Chiara G, Una prospettiva psicoanalitica del dopo Freud: un posto per l’altro, «Rivista di Psicoanalisi», 31 (4), p. 451
3 Brenman-Pick I., Workig-through in the counter-transference, «Int. J. Psyco-Anal.», 66, pp.157-166
4 Profita G, Ruvolo G., Variazioni sul setting il lavoro clinico e sociale con individui, gruppi e organizzazioni, Raffaello Cortia Editore, Milano 1997 p.64
5 Trentini G., Manuale del colloquio e dell’intervista, Utet Libreria, Torino, 1995
6 Freud S., Bruchstuck einer Hysterie-Analyse in Monatsschrift fur psychiatrie und neurologie, vol 18. TR IT Il caso di Dora, frammento di un’analisi di un caso di isteria, in Casi Clinici, Bollati Boringhiri, Torino, 2003
7 Imbasciati A., La donna e la bambina. Psicoanalisi della femminilità, Franco Angeli, Milano, 1990 pp. 134, 135
8 Di Nola A.M., La nera signora antropologia della morte e del lutto, Newton &Compton Editori, Roma,2005, p.11
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