«I knew a boy who was swallowed by the sky
by the flashing lights.
I knew a man who got lost in the big dark blue
and he came out alive»
(Patrick Watson, Man like you, Wooden Arms, 2009)
Premessa
Sull’indicibilità del “trauma”
Che cosa si intende per “trauma”? Cosa caratterizza un evento traumatico e qual è il tratto che lo separa da un evento non traumatico? Il termine trauma [dal greco antico τραῦμα, -ατος, “ferita, lesione, danneggiamento”] rimanda ad un fenomeno di dissesto il cui ripristino allo stato originale nella clinica sembra talvolta impraticabile se non irreversibile. Curioso che, in tedesco, per assonanza fonologica, il termine Traum significhi sogno, una delle formazioni dell’inconscio che fa da copertura alla verità del desiderio.
Allora, se si vuol cogliere questa libera associazione in bilico tra dissesto e sogno, il trauma può essere qualcosa che rientra nell’ordine dell’indicibile, qualcosa che non si può nominare; il trauma, quando i pazienti parlano, si nasconde proprio lì dove loro non pensano e in ciò che il loro linguaggio tradisce. Non è insolito, in stanza di psicoterapia e/o di setting istituzionali orientati alla psicoterapia, ascoltare «è accaduto questo e per me è stato un trauma» facendo riferimento ad episodi sicuramente dolorosi ma già parlabili e quindi cedibili all’atto del dire.
Il trauma, invece, è più assimilabile a ciò che tiene in piedi la dialettica tra qualcosa che è stato e qualcosa che si è occultato e quindi che sovverte la linearità perché l’inconscio è tutto fuorché retto.
Fu Freud stesso a rendersi conto, dopo l’abbandono della teoria della seduzione confessato in una lettera del 21 settembre 1897 a Fliess1, che non si potesse parlare di eventi traumatici in modo assoluto; perché vi fosse un trauma in senso stretto, quindi una mancata abreazione dell’esperienza che rimane nello psichismo come un corpo estraneo, dovevano essere presenti determinate condizioni, prima tra tutte quelle interne. È il conflitto psichico interno al soggetto – sostiene Freud- ad impedire allo stesso di integrare nella sua personalità cosciente l’esperienza che gli giunge dall’esterno2.
Tale concetto sovverte tutta una serie di postulati per cui il trauma sia da addursi a cause squisitamente esterne, abdicando al soggetto e alle sue ramificazioni inconsce. Un incendio, un terremoto, una violenza non sono aprioristicamente “fenomeni traumatici”; è piuttosto traumatica la costruzione della rappresentazione interna di quell’incendio, di quel terremoto, di quella violenza per un dato soggetto. Il trauma è qualcosa che si è verificato nella realtà ma che, per il suo tracciato di imprevedibilità e di non senso, sfugge alla possibilità di simbolizzazione del soggetto.
L’accento è da apporre non sull’evento che, data la sua violenza, può costituire valore patogeno, bensì sull’incapacità dell’organismo di tollerare l’evento. Il rapporto che lega la causa al suo effetto si declina così sulla realtà interiore del soggetto, ridimensionando la portata del trauma e diminuendone l’originalità: non può esserci oggettivazione in merito.
Il caso di Federico e Maria
Nell’agosto 2017, Federico e Maria giungono (dopo un anno in altra Cooperativa) presso il Servizio “Tutela Giuridica del Minore”, appaltato ad un ente privato-sociale dal Comune di Roma e di competenza territoriale di un municipio, su mandato del Tribunale per i Minorenni.
Il giudice onorario, nel marzo 2015, aveva disposto, in via urgente, per entrambi un percorso di sostegno alla genitorialità congiunto. La prescrizione di un “onere” (non di un obbligo) per le parti di proseguire tale impegno, con il monitoraggio dei servizi sociali, rappresentava uno strumento, anzi l’unico strumento, a disposizione del giudice per aiutare la coppia a superare la conflittualità, nel rispetto del diritto del minore alla bi-genitorialità per una crescita equilibrata. Il minore è Saverio, ha 17 anni e presenta un ritardo cognitivo medio con compromissione delle facoltà motorie ed una totale mancanza della vista.
L’ordinamento in questione era stato sollecitato dal giudice dopo che, l’estate precedente, Maria aveva tentato di lanciarsi dalla finestra, in presenza del marito, del figlio e dell’operatore domiciliare di quest’ultimo, in evidente stato di agitazione e confusione, atto a seguito del quale si era poi predisposto un Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Maria aveva sempre sostenuto, sin dalla prima interfaccia con gli operatori del 118 e finanche con il giudice stesso, che il suo fosse stato un gesto disperato mosso a dimostrare la propria stanchezza “esistenziale” dinanzi al marito che, durante il suo ricovero ospedaliero, nonostante l’appello di aiuto, si era invece rivolto al proprio avvocato per avviare procedure di separazione (salvo sospendere il suo intento qualche tempo dopo).
Federico e Maria, data la particolare cornice istituzionale di riferimento, vengono seguiti a cadenza quindicinale da circa un anno da due psicoterapeute di formazione psicoanalitica che in co- presenza, di volta in volta, alternano la posizione di conduzione alla posizione di osservazione. La durata di ogni seduta è di circa un’ora.
Negli incontri congiunti non viene ad essere analizzata “la relazione”, bensì “il soggetto”: vengono ad essere così interrogate le questioni individuali correlate all’altro membro della coppia.
Il discorso negato
Colpisce quanto nel corso dei colloqui, in entrambi i genitori non affiori mai la dimensione del legame coniugale bensì si consacri esclusivamente quella del legame genitoriale. Dove si colloca Saverio in seno a questa aporia?
Maria, 20enne conosce Federico 28enne, peruviano traferitosi da poco tempo in Italia, presso una cooperativa dove entrambi lavorano in qualità di operatori sociosanitari. All’incirca otto mesi dopo l’inizio della loro relazione, fortemente osteggiata dalla famiglia di origine di Maria, quest’ultima rimane incinta di due gemelli, un maschio ed una femmina che nascono alla 25esima settimana a seguito di una gravidanza riferita “nella norma”. La piccina muore dopo tre giorni dalla nascita, mentre Saverio riesce a sopravvivere seppur con una serie di gravi complicanze, prima tra tutte una retinopatia da nascita pretermine, che lo sottopongono, sin da subito, ad una serie di operazioni chirurgiche.
Dall’età di un anno ad oggi, Saverio segue una terapia riabilitativa ed è impegnato in modo costante su diverse attività organizzate da un centro specializzato per persone cieche ed ipovedenti.
Maria, aldilà della sua breve parentesi professionale, dopo la nascita di Saverio non ha più lavorato, se non in modo precario ed intermittente come badante, sposando totalmente la propria vita all’educazione e all’accudimento del figlio; Federico, invece, ha sempre mostrato particolare dedizione verso il proprio lavoro – unica fonte di reddito familiare – e si spende massivamente nella gestione del figlio.
Saverio non usa né il significante “mamma” né il significante “papà”: per chiamare i genitori, usa il loro nome con il benestare di Federico e di Maria che, dinanzi ad un paio di tentativi di domanda rivolti al figlio quando quest’ultimo aveva cinque anni sul come mai lo facesse, non avendo ricevendo risposta, avevano liquidato la questione come immodificabile, normalizzandola. «Non pensavamo fosse un problema» – dice Federico un giorno in seduta mentre Maria annuisce.
Sono diversi i movimenti che caratterizzano i discorsi di questi signori.
Senza dubbio, il primo è quello di vedere Saverio quale un puer aeternus destinato a rimanere tale senza considerare, neppure lontanamente, che il passare del tempo possa coinvolgerlo, che l’aggravio della crescita lo implichi. Maria gli prepara il pigiama ogni sera, gli riassetta il letto mentre Federico lo lava e lo veste, sebbene Saverio sia in grado di poter svolgere tali attività in modo del tutto autonomo. La tendenza ad infantilizzare risponde effettivamente a varie questioni perturbanti, prima tra tutte, la volontà per lo più inconsapevole ma tenace, di entrambi i genitori di esorcizzare la portata sessuale che il passaggio attraverso l’adolescenza introduce nell’esistenza del figlio disabile e che si impone come fattore angoscioso con cui fare i conti. Cristallizzare Saverio in un’infanzia senza fine mira a scongiurare l’affacciarsi della pulsionalità, della carica libidica che, ad un certo punto, alcuni suoi gesti acquisiscono. Del resto, se la sessualità è questione macroscopica dell’adolescenza, nel caso della disabilità essa diventa anche più difficilmente raggiungibile soprattutto quando i genitori prediligono atteggiamenti di eccessiva protezione che mantengono la subordinazione passiva del figlio3. Saverio è di fatti un adolescente e si potrebbero verificare diverse difficoltà nel rispondere alla tensione acuita dai desideri sessuali e dalle difficoltà relazionali incontrate nel tentativo di soddisfarli.
Una declinazione che risulta essere particolarmente pericolosa è quella relativa ad un più o meno completo diniego della realtà o comunque ad una minimizzazione drastica del danno. Basti pensare che Federico e Maria hanno comprato un’arpa a Saverio quando questi era poco più che un bambino ostinandosi a impartirgli lezioni private, cosa che il figlio non solo non aveva mai chiesto ma che lo aveva esposto ad una notevole frustrazione dati i limiti circa la praticabilità dello strumento. Anche in questo caso, l’insopportabilità del reale aveva spinto questi genitori negli anni ad allucinare una soddisfazione che mancava, come se lo scarto traumatico tra il figlio atteso e il figlio nato venisse colmato attraverso l’immagine che spazzi via il deficit.
Un altro aspetto che trova allineati in modo orizzontale Federico e Maria è la credenza di quanto Saverio, poiché disabile, sia esonerato dal provare qualsiasi tipo di dolore insito nella realtà del quotidiano. Entrambi i genitori tendono a pensare al proprio figlio come designato ad una vita senza pensieri, placido nella sua condizione di presunto ignorare, rinchiuso in una chimera di ingenuità e di innocenza. Un giorno in seduta Federico problematizza una manifestazione di rabbia che il figlio aveva dimostrato nei confronti della sua storica assistente educativo-culturale poiché questa si era impuntata nel fargli fare un compito e Saverio l’aveva mandata a quel paese. «È sempre stato così tranquillo, cosa gli sta succedendo?» – chiede il padre, come se Saverio non potesse avere accesso alla ribellione e ancor più non si potesse mostrare diverso da come si è costruito nell’immaginario. Probabilmente il ragazzo in quel momento voleva imporre alla sua assistente un’attenzione diversa quasi a essere considerato per quello che egli effettivamente è e non per quello che ci si attende che lui sia, ma ai genitori appare molto strana questa sbavatura d’aderenza al compito. I genitori, disorientati dalla consueta arrendevolezza di Saverio, stigmatizzano come “sintomo” il suo inusuale scatto d’ira, probabilmente spaventati da quel barlume improvviso di soggettività altrimenti eclissato dall’ingombrante presenza della Legge dell’Altro cui conformarsi4.
In tutti questi tre discorsi (l’infantilizzazione, la negazione e la scissione) i risvolti psichici di entrambi i genitori svelano in modo camuffato il discorso traumatico della disabilità laddove per traumatico s’intende proprio ciò che non può essere enunciato, ovvero il rifiuto della diversità, l’esclusione grave di Saverio dal registro dell’umano. Questo pensiero risulta così inaccettabile ed impermeabile che Federico e Maria fanno fatica a riconoscersi sentimenti ambivalenti come tristezza, collera, incertezza e perdita di progettualità. Maud Mannoni, allieva di Lacan, pioniera nel campo della psicoanalisi applicata alla disabilità, sostiene, a tal proposito, che tra la madre e il figlio disabile residua «un sottofondo di morte, di morte negata, travestito quasi sempre da amore sublime»5.
Le scene del quotidiano familiare qui accennate sono la messa in atto da parte di questi genitori di una negazione di un doppio lutto non compiuto probabilmente accompagnati da un senso di colpa altrimenti insopportabile: il primo per la morte della piccola bambina e l’altro per la perdita della speranza che il bambino sopravvissuto sarebbe stato normale.
Un figlio nato due volte
È il pensiero della disabilità intollerabile che viene ad essere rimosso: se da un lato, assume le forme del compulsivo accumulo di attività, dall’altro medicalizza ad oltranza la condizione di diversità fino a ridurlo a lesione di natura organica6.
Federico e Maria infatti sembrano, più che genitori, operatori specializzati in riabilitazione (non dissimile peraltro dalla loro professione reale, di assistenza a persone in difficoltà), in particolar modo il padre: «Tratto Saverio come un utente». Ma quando i genitori diventano “operatori” del proprio figlio e il figlio “utente” dei propri genitori qual è l’esito delle rispettive funzioni?
La condizione che si ottiene è quello di un corpo organico più o meno addomesticato capace di seguire le diverse azioni e procedure ma dove non v’è un soggetto che abbia preso a suo carico lo svolgimento della funzione. Secondo la tematizzazione di Edmund Husserl7, qui ci troviamo dinanzi ad un Körper, una compagine somatica e non dinanzi ad un Leib, un corpo cioè vissuto e mondanizzato. E un corpo desertificato è qualcosa che spaesa in modo sinistro e che risponde alla logica esclusiva dell’aut aut, propria delle dicotomie strutturate per difendersi dall’angoscia.
Il fatto di trattare Saverio esclusivamente nel territorio del ritardo cognitivo e della cecità fa sì che l’attenzione venga ad essere dirottata sulla patologia e non sul soggetto con l’effetto che tutto ciò che avrebbe dovuto operare si scombussola e ci si trova dinanzi a carenze in aree per le quali non esiste una determinazione organica8. Nel ragazzo, ad esempio, risulterebbe seriamente intaccata la dimensione delle relazioni tra pari poiché sempre mediate dal padre e/o dalla madre che accompagnano il figlio in ogni attività, talvolta annullando all’ultimo l’intervento domiciliare dell’educatore, boicottandone il lavoro, anzi talvolta svalutandolo, con grave ricadute sulle dinamiche transferali del figlio.
Questa sclerotizzazione si ritrova poi anche nelle attese sul futuro di Saverio che risultano estremamente povere («Non sappiamo che fine farà dopo che noi non ci saremo più») probabilmente per scansare la delusione in agguato di tutta una serie di attese mancate nella crescita di questo ragazzo; il desiderio che era stato allestito per un figlio “normale” viene ad essere qui detronizzato9.
Angelo Villa, psicoanalista ad orientamento lacaniano, sostiene che se si volesse riprendere la teorizzazione di Otto Rank, circa la nascita quale trauma originario della venuta al mondo del soggetto, essa apparirebbe calzante se riferita alla nascita di un soggetto affetto da disabilità severa, soprattutto per quanto concerne il lato del “normale” più che il lato del “disabile”. Il vero traumatizzato è il genitore che assiste ed è un trauma che non si esaurisce con la nascita ma anzi che lascia perennemente aperta la sua ferita. In merito, scrive: «La dimensione traumatica che l’handicap grave finisce per rendere presente alla coscienza normale non manca di riattivarsi nell’incontro che il disabile sperimenta con persone differenti». E continua: «Il rigetto di cui l’handicappato è fatto oggetto da parte degli individui normali negli ambiti più disparati testimonia del ripetersi, in forma differita, dell’evento proprio alla nascita»10.
La riattualizzazione del trauma della nascita si rinnoverebbe così nella ricusazione della persona affetta da disabilità che palesa in modo crudo un’alterità in cui non ci si possa rispecchiare se non in maniera estraniante. L’effetto sul genitore è devastante e la perpetuazione traumatica è qualcosa che sfugge alla possibilità di simbolizzazione. Allora qui per trauma della nascita si può intendere il difetto strutturale insito nel rapporto tra figlio disabile e genitore ovvero la frattura originaria che questo figlio inscrive nell’Altro genitoriale che lo guarderebbe sin dagli inizi con un’espressione di inconscio rifiuto o di profondo timore. Nel caso della disabilità, il primo incontro tra figli e genitori risulta profondamente disturbato dall’interferenza del fantasma di questi ultimi generalmente devastati dalla notizia della problematica. Il dover fare i conti con un bambino diverso da quello che ci si aspettava influenza lo scambio che caratterizza le prime relazioni; l’inibizione intellettiva che ne risulta figurerebbe quale manovra difensiva che il bambino con disabilità mette in atto per non “sapere” il suo non essere desiderato dall’Altro; al danno del corpo si aggiunge quello della relazione con l’Altro11.
Parte del lavoro con questi signori – ancora in corso – è orientato a compiere il lutto di questa disabilità traumatica e traumatizzante, con lo strascico di rabbia, dolore e anche di umiliazione narcisistica che comporta, trovando l’unico modo di accostarsi al figlio, cioè così come egli è12.
Il processo psicoterapeutico rilegge l’autonomia di Saverio proprio là dove le azioni o i propositi genitoriali riempiono ogni spazio, facendo coincidere l’agire del disabile “riabilitato” con il volere del normale che educa13. Inizialmente scarsamente pensabile una libertà del figlio attraverso la separazione, inizia gradualmente ad affacciarsi la tolleranza della distanza con il figlio e a sforzarsi di riconoscerlo in quanto soggetto a sé che poi è il principio educativo di ogni genitorialità. Giuseppe Pontiggia, scrittore e padre di un ragazzo disabile, nel doloroso libro autobiografico Nati due volte14 parla proprio di come i soggetti affetti da disabilità nascano due volte; se la prima nascita ha reso tutto difficile e appartiene al registro del reale, della casualità tragica, la seconda dipende dai genitori e appartiene al registro del simbolico, del ripristino del proprio figlio alla funzione di soggetto. La mancata rinascita, quella psichica, se non incentivata, degenera in un recinto spettrale dove il figlio è in costante balia dell’Altro asservito alla volontà dell’Altro e non assoggetto al funzionamento simbolico della Legge.
Quando la psicoterapeuta un giorno ha domandato «Avete mai parlato della disabilità di Saverio tra di voi?», sia Federico che Maria sono rimasti stupiti di quanto, in diciassette anni, nessuno dei due avesse sollevato una domanda l’un l’altro e si fossero invece buttati sul fare, sul saturare ogni singolo livello finanche il loro di coppia, esautorando la relazione ad una singola vocazione genitoriale ed isolandosi così da ogni rete amicale e sociale. Questi signori hanno orientato tutta la propria vita attorno al problema della disabilità senza nominarla. Il trauma è qui che risiede. Saverio sembrerebbe così aver occupato la posizione di sintomo della coppia genitoriale.
Conclusioni. Un’apertura
«Noi non sappiamo che dirci. Quando non parliamo di Saverio, non abbiamo argomenti di discussione» – dice Maria in modo anche piuttosto imbarazzato. «Sì, è vero» – le fa eco il marito. Questi due signori si sono scelti su un aggancio sintomatico che nemmeno loro si sono dati il tempo di conoscere, approfondire. Fermo restando che anche le coppie “migliori” sono l’intreccio di sintomi reciproci che possono innestarsi in modo anche funzionale, a volte il nodo non riesce e si disfa15. Federico e Maria non hanno mai tentato di separarsi, a volte arrivando addirittura a godere del fatto di star male assieme. Saverio è divenuto così il collante, il motivo per cui Federico non lascia Maria “perché si sentirebbe responsabile nel lasciarla sola con Saverio” e Maria non osa nemmeno ipotizzarlo “perché poi io che faccio sola con Saverio?” dando luogo ad un copione rigido e ripetitivo.
In Federico e in Maria sono lentamente emersi i racconti del loro essere stati figli e si è potuto così lavorare su quanto le identificazioni con i propri genitori siano entrate in gioco in modo inconscio nella relazione con Saverio. Le domande che Federico e Maria si rivolgono reciprocamente non sono che “domande non soddisfatte durante l’infanzia” ed il fatto di non essere stati a conoscenza di tale ripetizione inconscia spiega “la traumaticità” dei due coniugi atrofizzandone ogni potenzialità.
Se Maria si era sposata con Federico perché «lui aveva un rapporto stretto con la sua famiglia che a me piaceva e che sono arrivata ad invidiare», Federico si era preso a cuore questa ragazza più piccola «abbandonata dal proprio padre e rifiutata dalla propria madre»: i fantasmi del proprio generazionale hanno popolato il loro universo psichico influenzando irrimediabilmente le loro decisioni16. La tendenza a ricreare nella coppia una situazione antica è tanto più forte quanto più è offuscata e l’inconscio sposta i conflitti dei genitori sui figli: prima ancora di nascere, Saverio in quanto primo ed unico figlio sopravvissuto, è stato investito come scacco della coppia fino a ribaltarsi nel suo dissidio, una volta disintegrato il piano immaginario e ceduto il passo all’imperfezione del corpo. Nel concorrere delle istanze su cui si fondano le numerose contraddizioni e asimmetrie dell’unione, la separazione dei fantasmi del figlio dai fantasmi dei genitori risulta essere l’atto di verità dove Federico e Maria possano responsabilizzarsi della propria storia.
È stato proprio in una delle ultime sedute prima della pausa estiva che Maria ha potuto formulare il desiderio di iniziare una psicoterapia individuale (dopo anni di rifiuti e di resistenze), alla radice di una possibile implicazione soggettiva nel trauma della sua maternità ferita. «Ho capito che certe cose, aldilà del rapporto con Federico, riguardano solo me, anche e soprattutto rispetto a mio figlio». Questo iperinvestimento sul figlio, come fosse il centro del proprio mondo, come se la gravidanza, simbolicamente, non fosse mai terminata è qualcosa su cui Maria può iniziare ad interrogarsi; il modo in cui questa madre ha elaborato la disabilità in un modo fantasmatico ha finito per essere comune anche a suo figlio.
Ripartire da questa falla potrebbe svincolare Saverio dal copione di “pinocchietto inautentico” (l’espressione è presa in prestito da Enrico Montobbio), cioè dall’incarico scomodissimo che si è assunto, comandato da una volontà che non è la propria e robotizzato a soddisfare ad oltranza il desiderio dell’Altro pur di non perderne l’amore17.
Daniela Mallardi
Psicologa e Psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico
Note
- Freud S., Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1904), it. (a cura di) Massimello M. A., Bollati Boringhieri, Torino, 1985
- Paris A., Buzzetti G., Il trauma, un’idea archetipica, in «Quaderni di Psicologia Archetipica, Il linguaggio della psiche», Portofranco, L’Aquila, 2012, pp.89-108
- Pagliardini A., Psicoanalisi della disabilità. Conversazione con Franco Lolli, 21 luglio 2016, http://www.psychiatryonline.it/node/6349
- Lolli F., Il disabile “fuorilegge”, in «Lettera, Rivista di clinica e cultura psicoanalitica. Psicoanalisi e legge», (a cura di) Associazione Lacaniana Italiana di Psicoanalisi, Et Al., Milano, n.2-2012, pp.111-116
- Mannoni M., Il bambino ritardato e la madre, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 26
- Villa A., La mano nel cappello, Psicoanalisi ed handicap grave, Stripes, Rho (Mi), 2009, cap. I
- Husserl E., Meditazioni cartesiane, (a cura di) Natalini E., Armando, Roma, 1999
- Monti Civelli E., La socializzazione del bambino non vedente, Franco Angeli, Milano, 1983
- Lolli F., L’ingorgo del corpo. Insufficienza mentale e psicoanalisi, Franco Angeli, Milano, 2004
- Villa A., Handicap e soggettività, in Mente e inconscio nella disabilità intellettiva, (a cura di) Lolli F., Pepegna S., Sacconi F., Franco Angeli, Milano, 2009, pp.11-27
- Lolli F., Il disabile “fuorilegge”, in “Lettera, Rivista di clinica e cultura psicoanalitica. Psicoanalisi e legge”, (a cura di) Associazione Lacaniana Italiana di Psicoanalisi, ibidem
- Rodriguez M. T., Il bambino affetto da insufficienza mentale, in Disabilità mentale e istituzioni. Riflessioni sulla presa in carico, (a cura di) Lolli F., Pepegna S., Sacconi F., Franco Angeli, Milano, 2009, pp. 13-28
- Villa A., La mano nel cappello, Psicoanalisi ed handicap grave, ibidem
- Pontiggia G., Nati due volte, Feltrinelli, Milano, 2002
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- Lemoine G., Lemoine P., Lo psicodramma. Moreno riletto alla luce di Freud e Lacan, Feltrinelli, Milano, 1973, pp.240-245
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