Le immagini. Calvino nel lontano 1985 in quel libro straordinario intitolato Lezioni americane, scrive: «Viviamo sotto una pioggia ininterrotta d’ immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza d’imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili». (Calvino, 1993, p. 67) La sorte della maggior parte di queste immagini è che si dissolvono, senza lasciare traccia nella memoria, forse perché sono tante, forse per la velocità con cui si presentano e poi scompaiono. Sembrano non lasciare traccia eppure ci lasciano con una sensazione di disagio e di estraneità.
Tuttavia, il rischio maggiore di questa sovraesposizione alle immagini è di diventare dei ricettori passivi. Sembriamo tutti rassegnati a questo flusso continuo e non riusciamo a sottrarci, anche perché questo canale di comunicazione sembra essere diventato anche quello di comunicazione più immediato e produttivo e quindi ci risulta difficile allontanarcene. Però al tempo stesso, ci sentiamo sommersi da questa sovraesposizione dalla quale non riusciamo a eliminare ciò che per noi è superfluo. Non riusciamo a fare una scelta critica di ciò che ci sommerge. In un modo o nell’altro tutte queste immagini invece di arricchirci, ci impoveriscono e ci turbano. Perché?
Calvino, ci propone questa spiegazione. “Una volta la memoria visiva d’un individuo era limitata al patrimonio delle sue esperienze dirette e a un ridotto repertorio d’immagini riflesse dalla cultura; la possibilità di dar forma a miti personali nasceva dal modo in cui i frammenti di questa memoria si combinavano tra loro in accostamenti inattesi e suggestivi. Oggi siamo bombardati da una tale quantità d’immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo” (Calvino, 1993, p. 103).
Possiamo senz’altro condividere questa riflessione alla quale dobbiamo aggiungere qualche ulteriore elemento che sta diventando molto rilevante ai giorni nostri. Primo fra tutti, la mancanza di parole per rendere nostre quello che vediamo. Non troviamo le parole per raccontare. Quello che ci manca sono le parole per appropriarcene, per dialogarci.
Diversa l’esperienza di Calvino che ci descrive così il suo metodo di scrittura: «Nell’ideazione d’un racconto la prima cosa che mi viene alla mente è un’immagine […]. Appena l’immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio, sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé» (Calvino, 1993, pp. 99-100). Calvino sembra lasciare dello “spazio” dentro di sé per far parlare le sue visioni. Dialoga con loro ed aspetta che mettano in moto il “processo di immaginazione”; poi lascia che si trasformino in parole. Crea storie. E se ne arricchisce. Noi, invece, non riusciamo in generale ad utilizzarle.
Questo grande allarmismo sui danni prodotti da una società che ci tempesta con le sue immagini sembra essere giustificato anche per l’ulteriore danno che ne è derivato e che ha colpito l’umanità nella sua facoltà più caratterizzante e cioè l’uso della parola. Una parola che ha perso la sua “forza conoscitiva”, ha perso di “immediatezza”, una parola «che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze». (Calvino, 1993, p. 66).
Così, assistiamo al dilagare di un linguaggio sempre più approssimativo, scarno, superficiale.
Pertanto, forse potremmo ipotizzare che la difficoltà in cui ci troviamo, è da una parte, nell’essere immersi in una società delle immagini che sembra saturare lo spazio immaginativo e, dall’altra, nell’essere privi di quella dimestichezza con le parole che ha la sua origine nello scarso interesse che si dedica sempre di più al mondo della fantasia, della immaginazione, alla letteratura. E sono questi due elementi insieme che stanno creando un connubio che sempre più impoverisce e merita di essere approfondito perché davvero pericoloso.
Una parola muore
quando è detta
Dice qualcuno −
Io dico che proprio
Quel giorno
Comincia a vivere.
Emily Dickinson (1862)
Le parole.
Nel nostro lavoro, soprattutto con bambini e adolescenti, abbiamo potuto notare che un elemento “facilitante” del lavoro terapeutico che si sta iniziando, è, senza dubbio la capacità del paziente di accedere al proprio mondo fantastico e, che questa capacità, quasi sempre è, anche, correlata alla “lettura”, l’abitudine di leggere del bambino, dell’adolescente o dell’adulto. In altre parole, in base a questa prognosi generica e superficiale che non ha intenti statistici, sembra che le persone che leggono, che amano leggere, di solito presentano nel lavoro terapeutico più agganci e presenteranno, in genere, meno difficoltà nel lavorare con i propri problemi. Non si sta parlando di avere o meno più “cultura” ma del fatto che avere quella padronanza con le parole che si leggono e che si trasformano in immagini e fantasie, facendoci vedere delle storie, sembra creare al contempo un luogo, uno spazio mentale a disposizione per ulteriori riflessioni, fantasie, immaginazioni. Un posticino nel quale le immagini, le emozioni, scekerandosi, sembrano trovare una forma adeguata in modo tale da essere accettata dal suo ideatore. Come in un caleidoscopio. Non si vuole sostenere che la lettura sia la sola responsabile della creazione di questo spazio interiore (e non ci sembra questa la sede per approfondire l’argomento), ma certamente è attraverso la lettura, trovandosi a sviluppare ed elaborare le parole scritte che diventavano immagini o le immagini che diventavano parole, che molte volte abbiamo scoperto e preso consapevolezza di avere uno spazio tutto nostro.
Quindi, il problema nella nostra società non è tanto di non avere immagini, oppure sogni o fantasticherie ma di non trovare il modo di declinare quei sogni e quelle fantasie in “parole” che diano un senso a ciò che ci accade. Detto in altri termini avere accesso al proprio mondo interiore e non sentirsene sommersi. Trovare delle persone che abbiano la capacità di dialogare con i propri fantasmi, con le proprie immagini più o meno inquietanti, però, sembra sempre più difficile. Come anche trovare gente che legge, d’altro canto. E questa perdita, oltre a renderci più ignoranti, ci fa mancare anche lo “spazio” per riflettere, per elaborare. Una stanza di decompressione nella quale far muovere le immagini, le emozioni, le parole. Una stanza tutta per sé, parafrasando Virginia Woolf. Così vediamo molto spesso che il lavoro terapeutico si appiattisce su una quotidianità assordante e frenetica alla quale si fa fatica a dare un senso.
Sembriamo avere, noi uomini del terzo millennio, una grande incapacità di “narrare” la nostra vita. C’è grande incapacità di parlare davvero di sé. Di raccontare ciò che accade a noi e nel mondo che ci circonda. Perché raccontare la propria vita è molto diverso dal postare le foto del ristorante in cui si è stati su Instagramm. Esprimere ciò che si prova, ciò che si sente è molto diverso dal mandare immagini che attestino il nostro presenzialismo. Molto più complesso. Ci mancano le parole ed abbiamo grandi difficoltà a parlare delle nostre emozioni, dei nostri sentimenti. Siamo sempre di più degli analfabeti da questo punto di vista, perché, come sostiene Galimberti, i sentimenti non ci sono per natura, si imparano, e a noi manca l’educazione ai sentimenti o l’educazione sentimentale, come la chiamava Flaubert.
Un tempo le tribù primitive utilizzavano delle storie per educare ai sentimenti, i Greci avevano tutto il mondo dell’Olimpo per declinare sentimenti e passioni, adesso che non possiamo più ricorrere ai miti, avremmo però un repertorio meraviglioso chiamato letteratura, dove si potrebbe imparare cosa è l’amore, il dolore, cosa è la disperazione, il suicidio, cosa è la noia. Più siamo educati ai sentimenti, più siamo abituati a frequentare la parola.
Oggi, invece, il nostro linguaggio è diventato davvero povero, disarticolato. Sembra che le parole vengano lanciate alla rinfusa con indifferenza e noncuranza come se non contassero o fossero morte appena dette, ma, come ci dice Emily Dickinson, quando una parola è detta, o scritta, non ha esaurito la sua funzione, perché proprio in quel momento quella parola inizia a vivere sia nella memoria di chi l’ha ascoltata o letta che in chi l’ha detta.
Sempre più le parole mancano e molto spesso le frasi sono intervallate da espressioni sospensive, utilizzate per cercare le parole che non si trovano, perché a suo tempo non sono state imparate. Galimberti ci ricorda che nel 1976 il linguista Tullio de Mauro aveva fatto una ricerca per vedere quante parole conoscesse un ginnasiale ed emerse che ne conoscesse circa 1.600. Venti anni dopo il risultato fu che nel 1996 i ginnasiali conoscevano dalle 600 alle 700 parole. Non osiamo pensare quale potrebbe essere il risultato oggi.
Sappiamo che possiamo pensare in base al numero delle parole che possediamo. Infatti «come ha evidenziato Heidegger, riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri a cui non corrisponde una parola. Le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare» (Galimberti, 2017).
E se possediamo poche parole pensiamo poco. E questo è un grosso, grossissimo problema del quale paradossalmente sembriamo non rendercene conto tanto che Silvia Ronchey in un recente articolo intitolato Perché siamo tornati analfabeti, riporta con sgomento la proposta di un cattedratico universitario che discutendo la riforma del liceo classico ha affermato «necessaria la lotta alla “logocrazia”, ossia alla prevalenza della parola nell’insegnamento, a favore, invece, dell’uso delle immagini» (Ronchey, 2019). Cosa dobbiamo aspettarci allora se queste sono le proposte?
Ma torniamo al nostro rapporto di uomini comuni con le immagini nella società delle immagini. Siamo sommersi da queste e non abbiamo parole che ci permettano di decifrarle e di renderle nostre. Ma forse c’è ancora un altro elemento di cui dobbiamo tener conto quando parliamo di questo argomento. La meraviglia, il restare ammirati di fronte a qualcosa. La nostra capacità di stupirci davvero.
Ebbrezza è il procedere alla volta del mare
di un’anima cresciuta in terraferma,
oltre le case, oltre i promontori –
nell’eterno, profondo –
Potrà il marinaio capire,
come noi cresciuti tra i monti,
l’ubriachezza divina, della prima lega
lontano dalla terraferma?
Emily Dickinson (1859)
Meravigliarsi. Ubriachezza divina. Stupore assoluto. Questa poesia ed in particolare, quest’ultima strofa mi riaffiora alla mente ogni volta che mi capita di trovarmi in una situazione inusuale che mi provoca quella “ubriachezza” che solo qualcosa di nuovo, di veramente diverso può provocare. O che “vedo” come nuovo. O che vedo davvero. E mi sento contenta di essere ancora quella “montanara” che riesce a sentire la meraviglia allontanandosi dalla terra ferma. Come un bambino. Questa poesia mi sembra racchiuda in maniera semplice ma diretta tutta l’emozione di una vera esperienza nuova, la sensazione della “pienezza” di vivere. Di esserne travolti, di farsi sommergere dalla sua emozione. L’apertura al nuovo è ebrezza e paura al tempo stesso.
Anche nel libro Terra promessa, l’autore descrive così l’emozione dello stupore che la giovane protagonista, una montanara bellunese, che sta scappando dalla sua terra e dalla povertà salendo su una nave verso l’America, prova vedendo il mare aperto per la prima volta. «Il mare! Vicino a lei alcune persone, senza aprire bocca, indicavano le onde alte e spumeggianti che si infrangevano sullo scafo sotto di loro. Gli occhi della Jole si riempirono di blu profondo e il suo respiro si fece affannoso. Con le mani sudate per la commozione strinse ancor più forte i tubi metallici della balaustra. Si sentiva smarrita innanzi alla vastità di quella infinita distesa d’acqua, disorientata, eppure felice come se stesse rinascendo. Quelle onde, il brilluccichio del primo sole sull’acqua, l’orizzonte infinito sembravano prometterle un avvenire diverso, riaccendendo la sua speranza. Si sentì improvvisamente gonfia di vita, piena di un respiro molto più ampio». (Righetti, 2019, p. 40) Immagini che accendono la speranza di chi vede veramente.
La capacità di meravigliarsi, di fare esperienza di quelle emozioni, con quelle emozioni.
La capacità di meravigliarsi è ancora possibile? Visivamente al giorno d’oggi è difficile vedere qualcosa che non si è mai visto prima. Ma davvero il problema è avere visto troppe immagini? non esserci al mondo quasi più niente che non abbiamo visto per foto, al cinema, in televisione? Oppure il problema è di non avere più la capacità di vederle veramente le cose? Non essere più capaci di vivere il momento, il presente?
Spesso, andando a visitare qualche mostra di pittura, ci si imbatte in persone che sono davanti al quadro con il telefonino pronti a inquadrarlo. Il che non è un male in sé, perché c’è la speranza che poi quelle belle immagini saranno viste anche da altre persone che non andranno mai a vedere una mostra e la diffusione di immagini belle non è mai un male, ma viene anche da chiedersi, quella persona sta vedendo veramente quel quadro? Sta facendo davvero esperienza di quella visione? Sta fruendo davvero di quel concentrato di intuito, riflessione e genialità che alcuni quadri ci offrono? Quella sintesi magica che l’arte è capace di offrirci?
Allora il problema non è di avere visto “tutto” ma di non vedere veramente. Noi consumiamo le immagini, i viaggi, i luoghi, ce li mangiamo al fast food del consumismo. Non facciamo esperienza di quello che vediamo. Perché spesso non siamo già più lì mentre scattiamo la foto del quadro che avremmo dovuto vedere. Del quale avevamo la possibilità di fare esperienza e che ci avrebbe offerto tutta la sua ricchezza e la sua “complessità”. Ci vuole attenzione per percepire davvero quello che si ha davanti. Occorre osservare attentamente.
Per fare esperienza dei diversi piani in cui si può guardare un quadro, vorremmo proporre di guardarne uno insieme. Si tratta del quadro di Van Gogh La camera da letto, dipinto ad Arles nell’ottobre 1888 e del quale così scrive al fratello: «Stavolta è semplicemente la mia camera da letto […]. Guardare questo quadro dovrebbe riposare la mente o almeno l’immaginazione» (Van Gogh, 1872-1890).
Guardando questo quadro siamo subito colpiti dallo strano miscuglio di colori e da una complessiva strana armonia. Forse per un momento potremmo provare anche noi un senso di riposo come ci suggerisce l’autore. Ma se non scappiamo via e ci fermiamo ancora ad osservare il quadro, guardandolo più attentamente forse potremo “vedere” che il letto blocca la porta, le imposte sono chiuse, le sedie si bloccano a vicenda ed un senso di inquietudine comincerà a nascere in noi perché in quella stanza non si può entrare e quindi non si può neanche uscire. Quello sembra essere lo spazio mentale del dolore, della solitudine. Tutto serrato, tutto chiuso e bloccato. Osservando attentamente vediamo cose diverse da quelle viste ad una prima impressione.
Ed ora affidiamoci alle “parole” di Paul Auster che nel libro L’invenzione della solitudine così descrive sapientemente l’esperienza del protagonista del suo romanzo di fronte a questo quadro. «Continuando a esaminare il quadro, però, non poté fare a meno di pensare che Van Gogh aveva intrapreso una cosa e poi ne aveva realizzata tutt’altra. In effetti la prima impressione di A. fu un senso di calma, di “riposo”, come lo descrive l’artista. Ma gradatamente, cercando di occupare la stanza rappresentata sulla tela, cominciò a sentirla come una prigione, uno spazio impossibile, l’immagine non tanto di un luogo dove abitare, ma di una mente che è costretta ad abitarlo. (…) Nel quadro incominci a sentire un grido, soffocato tra i mobili e gli oggetti quotidiani, e quando l’hai sentito non cessa più» (Auster, 1982, p. 146)
Impressioni, riflessioni, elaborazioni. Tanti diversi piani di lettura per un solo quadro che si arricchiscono in profondità e ci fanno comprendere quanto ci perdiamo nel guadare le cose di sfuggita.
Considerazioni finali. Sembra chiaro, a questo punto che il problema non siano solo le mille immagini di una società delle immagini. Il problema sono le parole che non abbiamo per descriverle, per farle nostre, per creare storie e memorie che ci appartengano. Così le immagini quando non sfuggono e ci lasciano comunque con una sensazione di spaesamento, si cristallizzano e creano sintomi.
Non creano “immaginazione” ma un blocco della nostra capacità immaginativa. (Foucault, 1994, p. 85) E questa perdita è davvero pericolosa perché avere il mondo della fantasia a disposizione, non è una evasione ma una possibilità, una risorsa per tutti. La fantasia, come attività immaginativa, è, come ci ricorda Jung: «semplicemente l’espressione diretta dell’attività vitale psichica, dell’energia psichica» (Jung C.G., 1921, p. 444). È la vita che vive.
Dovremmo, quindi, riflettere e fare nostra la proposta di Calvino di una «possibile pedagogia dell’immaginazione che abitui a controllare la propria visione interiore senza soffocarla e senza d’ altra parte lasciarla cadere in un confuso, labile fantasticare” per far si che, nella civiltà dell’immagine, non si corra il pericolo di perdere questa facoltà umana fondamentale e cioè, “il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’ allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini». (Calvino, 1993, p. 103)
Rosa Maria Dragone.
Psicologa, Psicoterapeuta, socio analista, con funzioni di training e di docenza del Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA). Lavora presso l’Agenzia Italiana per la cooperazione allo sviluppo.
Bibliografia
Auster P. (1982), L’invenzione della solitudine, Einaudi, Torino, 1997.
Calvino I. (1993), Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano, 2005.
Dickinson E. (1859), Silenzi, Feltrinelli, Milano, 2014
Dickinson E. (1862), Tutte le poesie, Mondadori Meridiani, Milano, 1994
Foucault M. (1994), Il sogno, Raffaello Cortina, Milano, 2003
Galimberti U., D di «Repubblica», 25.02.2017
Jung C.G. (1921), Tipi psicologici, in Opere, vol 6, Boringhieri, Torino, 1981
Righetto M.(2019), La terra promessa, Mondadori, Milano
Ronchey S., in «Repubblica», 12.07.2019
Van Gogh V., Lettere a Theo, Guanda, Parma, 2016.