Con gli anni arriva la saggezza e aveva aspettato, fiducioso,
che questa saggezza gli desse quello che più desiderava:
la capacità di guidare la direzione dei ricordi per non cadere
nelle trappole che questi spesso gli tendevano».
Luis Sèpulveda, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, 1993
Sul Tempo si è detto molto. L’elemento Tempo è stato declinato in tutti i modi possibili in quanto è uno dei fondamenti della cura e la psicoanalisi, già dalle sue origini, si è molto interrogata sul significato e sulla relazione interveniente nella cura e per la cura. Lacan ne ha fatto un caposaldo del suo lavoro, dai primi scritti giovanili sul tempo logico fino all’ultimo seminario, La topologie et le temps del 1978-1979, di una tale complessità che, si dice, lo stesso Jacques Alain Miller faticasse a seguire.
Il Tempo: storico, cronologico, che esplica il progresso del percorso, del e nel sogno, della e nella malattia; e ancora: tempo della cura, tempo della durata e della seduta, dell’interpretazione, o meglio nell’interpretazione, che per Lacan diventa alla fin fine questione di scansione, punteggiatura, ritmo, tagli. In sintesi: “tempi logici”.
Da psicodrammatisti poi abbiamo sempre a che fare con il tempo, nel taglio, nel ritmo della seduta, nella cadenza, nel gioco.
Tante declinazioni che aprono ad altrettanti ambiti di ricerca teorica, tutti estremamente interessanti e complessi al punto che diventano a mio avviso difficilmente inquadrabili in un breve scritto.
Per questo vorrei affrontare una particolare accezione del Tempo, che spesso e volentieri è decisamente poco affrontata, quasi fosse un tabù: la “vecchiaia”, un tempo della vita spesso trascurato e ancora più sovente vissuto solo ed esclusivamente come un declino, un lento scivolamento verso il fine vita. Segnalando la grande ricchezza che invece si può recuperare in questa importante fase della vita, vorrei sinteticamente lavorarla nella duplice ottica di ciò che riguarda sia l’analista che il paziente. Anticipo che già come per la questione della malattia dell’analista anche la “sua” vecchiaia diventa un argomento scottante, quasi da negare, come se l’analista fosse per definizione, e costituzione, di fatto eterno. Siamo in una fase storica e in una regione geografica, l’Europa e l’Occidente in genere, nella quale la percentuali di anziani e di vecchi è aumentata, fortunatamente per le aspettative di vita, ed è destinata ad aumentare sempre di più. Tutti gli studi demografici (fonte Eurostat) indicano che nell’Unione Europea la quota degli ultraottantenni è quasi raddoppiata tra il 2001 e il 2020, la loro quota è quasi del 6 % nel 2020, mentre era del 3.4 % nel 2001, e diminuiscono i giovani sotto i 20 anni, il 20 % nel 2020 rispetto al 23 % nel 2001 1. È evidente quindi che le mutazioni nel ciclo della vita costringano a tenere conto di questa profonda trasformazione sociale che ha un impatto non indifferente sulla nostra pratica quotidiana, che ne risulta condizionata ed interessata dai due già citati punti di vista: dal versante dell’analista, che se in buone condizioni di salute, tende a lavorare anche in età avanzata; dal versante di colui che porta una domanda di cura, poiché arrivano sempre più frequentemente uomini e donne di oltre sessanta ed anche settanta anni.
Il Tempo: storico, cronologico, che esplica il progresso del percorso, del e nel sogno, della e nella malattia; e ancora: tempo della cura, tempo della durata e della seduta, dell’interpretazione, o meglio nell’interpretazione, che per Lacan diventa alla fin fine questione di scansione, punteggiatura, ritmo, tagli. In sintesi: “tempi logici”.
Da psicodrammatisti poi abbiamo sempre a che fare con il tempo, nel taglio, nel ritmo della seduta, nella cadenza, nel gioco.
Tante declinazioni che aprono ad altrettanti ambiti di ricerca teorica, tutti estremamente interessanti e complessi al punto che diventano a mio avviso difficilmente inquadrabili in un breve scritto.
Per questo vorrei affrontare una particolare accezione del Tempo, che spesso e volentieri è decisamente poco affrontata, quasi fosse un tabù: la “vecchiaia”, un tempo della vita spesso trascurato e ancora più sovente vissuto solo ed esclusivamente come un declino, un lento scivolamento verso il fine vita. Segnalando la grande ricchezza che invece si può recuperare in questa importante fase della vita, vorrei sinteticamente lavorarla nella duplice ottica di ciò che riguarda sia l’analista che il paziente. Anticipo che già come per la questione della malattia dell’analista anche la “sua” vecchiaia diventa un argomento scottante, quasi da negare, come se l’analista fosse per definizione, e costituzione, di fatto eterno. Siamo in una fase storica e in una regione geografica, l’Europa e l’Occidente in genere, nella quale la percentuali di anziani e di vecchi è aumentata, fortunatamente per le aspettative di vita, ed è destinata ad aumentare sempre di più. Tutti gli studi demografici (fonte Eurostat) indicano che nell’Unione Europea la quota degli ultraottantenni è quasi raddoppiata tra il 2001 e il 2020, la loro quota è quasi del 6 % nel 2020, mentre era del 3.4 % nel 2001, e diminuiscono i giovani sotto i 20 anni, il 20 % nel 2020 rispetto al 23 % nel 2001 1. È evidente quindi che le mutazioni nel ciclo della vita costringano a tenere conto di questa profonda trasformazione sociale che ha un impatto non indifferente sulla nostra pratica quotidiana, che ne risulta condizionata ed interessata dai due già citati punti di vista: dal versante dell’analista, che se in buone condizioni di salute, tende a lavorare anche in età avanzata; dal versante di colui che porta una domanda di cura, poiché arrivano sempre più frequentemente uomini e donne di oltre sessanta ed anche settanta anni.
L’analista “anziano”
«… Nulla come il tempo ha bisogno del tempo.
E da questa mia grata, gradito dono offerto alla senilità
vedo diminuire la distanza che intercorre fra me e lei»
Biancamaria Frabotta, Nessuno veda nessuno, 2022
Recentemente ho partecipato via Zoom ad una assemblea dell’associazione alla quale appartengo nella quale si doveva eleggere il nuovo Direttivo. Una volta conclusasi l’elezione, dopo l’applauso di rito ai neo eletti, una collega ha chiosato sorridente con la frase «Largo ai giovani…». Effettivamente l’età media dei neo eletti era piuttosto bassa, almeno per i parametri storici ai quali siamo abituati. Beh, in quel momento, guardando il mosaico di facce nella schermata del computer, mi sono reso conto immediatamente e con un certo rammarico che, ahimè, ormai non mi potevo più di certo annoverare tra le fila dei cosiddetti “giovani”, anzi. La barba bianca così come i capelli, le rughe, gli occhiali da lettura perennemente appoggiati sulla punta del naso e senza i quali non si vede neanche più lo schermo del computer, mi hanno drammaticamente segnalato lo scorrere del tempo e di come questo sia rappresentato inevitabilmente dall’immagine del corpo fisico, restituitami impietosa dalla finestrella di Zoom nella quale mi potevo ri-vedere in un confronto continuo con gli altri colleghi. Questa caratteristica di Zoom e delle altre piattaforme di videoconferenza è di certo interessante: è evidente che parlando ed interagendo di persona non ci si può ri-vedere ma si rimane ancorati all’immagine interna che ognuno ha di sé. In queste situazioni di comunicazione virtuale si attiva invece uno specchio continuo e costante che fatalmente opera una fascinazione sul soggetto, e come ogni specchio è causa di scostamenti perturbanti, poiché capita sovente di non riconoscersi.
Lo racconta anche Freud nell’episodio citato nella nota in calce a Il Perturbante
«Ero seduto, solo, nello scompartimento del vagone-letto quando per una scossa più violenta del treno la porta che dava sulla toeletta attigua si aprì e un signore piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in testa, entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato direzione nel venir via dal gabinetto che si trovava tra i due scompartimenti, e che fosse entrato da me per errore; saltai su per spiegarglielo ma mi accorsi subito, con grande sgomento, che l’intruso era la mia stessa immagine riflessa dallo specchio fissato sulla porta di comunicazione. Ricordo tuttora che l’apparizione non mi piacque affatto. – Anziché spaventarci alla vista del nostro sosia, quindi, semplicemente non lo avevamo riconosciuto.»
In questo senso quindi il punto sembra proprio essere il riconoscimento, o meglio il non riconoscimento. Se nello scritto Freud legava l’episodio alla questione del sosia, qui possiamo prendere lo spunto per seguire la traccia del riconoscimento e del riconoscimento di tratti di sé.
In particolare: quando ci si riconosce “anziani”?
Difficile a dirsi. Siamo sempre giovani, immutabilmente giovani, abbiamo la percezione di una vigoria e di una lucidità eterne, che sfuggono agli inclementi dettami del tempo e della caducità.
Siamo forti, capaci, attenti, pieni di esperienza ma al contempo colmi di nuovi progetti e iniziative, in una sorta di mascherata ma lucida onnipotenza. Il tempo ed i suoi effetti sembrano non riguardarci. Se siamo in buona salute, mai e poi mai pensiamo assolutamente a lasciare l’attività, alla quale abbiamo senz’altro dedicato anni di passione, impegno, studio e dedizione. Fra l’altro ci confrontiamo, talvolta crogiolandocene rassicurati, con l’immagine abituale e un po’ stereotipata dell’analista “anziano” visto come una sorta di vecchio saggio, rassicurante e sapiente, affidabile ed esperto, come se la psicoanalisi fosse un mestiere da vecchi e di vecchi (Anfilocchi, 2020).
Nonostante tutto, prima o poi dobbiamo fare i conti con la realtà dei fatti: il tempo è passato, l’analista come tutti non è esente dal deterioramento fisico e psichico, e diventano necessarie e irrinunciabili alcune considerazioni.
Un punto nodale è ad esempio fino a che età sia consigliato all’analista prendere nuovi pazienti in analisi, soprattutto se si considera la durata sovente molto lunga del percorso analitico. Alcuni pazienti, più o meno consapevolmente, si pongono la questione se l’analista possa accompagnarli fino al termine della loro analisi e, sia pure augurandogli ogni bene, fanno i conti con questa dimensione del rischio di perdita, che alimenta fantasie neanche troppo inconsce di abbandono e riporta nel campo analitico l’angoscia di morte.
È un elemento che va sicuramente considerato ed analizzato, soprattutto nelle sue dimensioni transferali, ma vale la pena chiedersi se dopo una certa età non sia il caso di evitare a priori di accettare nuovi analizzanti. Certo non è semplice individuare un’età limite oltre la quale si sconsiglia di iniziare nuove analisi. 70, 75, 80 anni? Sicuramente non invecchiamo tutti allo stesso modo e sovente gli ottanta anni dell’uno non sono i settanta dell’altro. Allo stesso modo non tutti siamo dotati di una corretta percezione di noi stessi che ci permetta di capire con chiarezza quando sia il momento di interrompere o almeno di trasformare la nostra attività. Si potrebbe ad esempio andare nella direzione di privilegiare l’attività didattica o di supervisione, o nell’iniziare soprattutto non tanto analisi vere e proprie, che comportano una durata indubbiamente più lunga, quanto psicoterapie, sostanzialmente più brevi.
Questo permetterebbe all’analista di prolungare l’attività professionale senza altresì determinare conseguenze importanti nella relazione con il paziente. Resta il dubbio su quanti analisti in realtà vogliano abdicare ad una posizione che comporterebbe un’accettazione esplicita di un limite. Possiamo dire che sicuramente Freud non ha dato il buon esempio in tal senso, continuando a lavorare fin quasi alla fine dei suoi giorni, malgrado la sofferenza che gli era causata dalla malattia. È estremamente interessante e stimolante il carteggio epistolare con Lou Salomé, all’interno del quale si apre una profonda riflessione sul tema della fine della vita, prendendo l’avvio dall’asciutta considerazione freudiana che tratteggia l’impossibilità per l’uomo, e l’analista, di pensare la propria morte: «non c’è nessuno che in fondo creda alla propria morte, […] nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità» (Freud, 1915, p. 137). Nonostante ciò, Freud aveva ben chiaro lo scorrere del tempo tant’è che confessava anche «quanto buon carattere e umorismo occorrono per tollerare il terribile avanzare dell’età!». Sarebbe interessante entrare in una disamina dell’epistolario ma non è certo questo l’ambito adatto. Mi limito a segnalare l’evidenza storica di un lavoro di Freud protratto nel tempo fin quasi alla fine ultima della sua esistenza, e questo nonostante l’attualità della ricerca vada invece verso una riflessione sulla gestione della fine della professione. Per chi fosse interessato all’argomento dell’ultimo periodo di vita di Freud, trattato non solo dal punto di vista dell’elaborazione teorica ma anche in una dimensione storica, vorrei citare come spunto iniziale di ricerca e riflessione il bel contributo di Gabriella Vandi dal titolo La vecchiaia e l’orizzonte. L’ultima stagione di Freud, all’interno del libro Vecchiaia e Psicoanalisi (vedi bibliografia). Per inciso, interessanti letture che raccontano la vecchiaia di Freud sono senz’altro Vita e opere di Sigmund Freud, di Ernest Jones, ed. Il Saggiatore, così come Freud in vita e in morte. Biografia scritta dal suo medico, di Max Schur, ed. Bollati Boringhieri. Riprendendo la considerazione di partenza su come gestire gli ultimi anni di professione, Marta Badoni ricorda le indicazioni previste da alcune Società psicoanalitiche per provare a tracciare le linee guida da seguire. In estrema sintesi, si parla del suggerimento della stesura di una sorta di testamento professionale, della creazione di uno specifico comitato, dell’invito per ogni analista ad indicare colleghi di fiducia che si possano attivare in caso di impossibilità a proseguire la professione (Badoni, 2020, p. 71). In ogni caso si tratta di un argomento scottante che necessita di una riflessione comune e di una posizione condivisa. Sarebbe auspicabile a mio avviso che si potesse costituire un gruppo di lavoro che portasse avanti questa riflessione. Anche perché parlando con amici e colleghi, ovviamente sempre in camera caritatis come è giusto sottolineare visto che non è un argomento di cui si parla volentieri, è emersa più comune di quanto si immagini l’esperienza della perdita dell’analista anziano durante un’analisi, una supervisione o durante il percorso di formazione. Tutti concordavamo su quanto fosse dirompente e distruttiva un’esperienza simile, tant’è che le conseguenze di tale evento si sono poi riverberate profondamente nelle analisi successive. È quindi indubbiamente vero quello che sottolinea Robutti quando afferma che l’eventuale interruzione lascia il paziente «in una solitudine che non assomiglia a nessun’altra» (Robutti, 2009) proprio perché «perdendo l’analista ogni paziente perde infatti e inevitabilmente parti del Sé depositate nell’analista nel corso del lavoro analitico» (Badoni, 2020, p. 70). Oltre a ciò, al di là di questo e dell’irruzione dell’angoscia di morte, ricorda sempre Marta Badoni, l’analista è custode del setting e l’oggi dell’accoglimento della domanda è possibile solo nella certezza di un domani (Badoni, 2020, p. 68). È il senso del procedere dell’analisi, altrimenti impossibile se se ne perde la disponibilità.
Nonostante alcuni analisti temano più il decadimento cognitivo che quello fisico, la perdita della memoria, la demenza, la questione del “pensionamento” diventa come detto un argomento che non si può proprio trattare. Per provare a spiegarne il motivo, la Badoni cita Danielle Quinodoz, autrice che si è dedicata con grande impegno all’argomento, che ipotizza che di fatto gli analisti sembrino dimenticarsi della loro età anagrafica effettiva proprio perché lavorando nel transfert assumono l’età che i pazienti di volta in volta attribuiscono loro. Questo porterebbe a continuare la professione anche in età avanzata anche perché «il rischio […] è che “vecchi” siano sempre e solo gli altri. Si tratta […] di un incrocio a rischio che vede il tempo dell’inconscio, nel transfert, scontrarsi col tempo reale della vita» (Badoni, 2020, p. 74). Condivido a pieno questa considerazione, anche per l’esperienza diretta con analisti anziani e molto anziani: il rischio sembra proprio essere quello di venire sopraffatti da un sentimento di onnipotenza che colloca per certi versi “al di fuori del tempo”, in una sorta di immutabile eternità, come se a forza di lavorare con l’inconscio se ne assumesse nel corpo la sua stessa a-temporalità. Ecco allora che diventa complicato rientrare nel tempo reale della vita, che costringe a fare i conti con modificazioni identitarie complesse e talvolta laceranti. Non si tratta solo di abbandonare la professione ma di lasciare anche un’identità, personale certo ma anche sociale e culturale. Ritengo non sia secondaria anche la questione economica.
Accettare il tempo reale della vita significa in buona sostanza anche accettare che l’eterno domani inscritto nel rimando alla seduta successiva possa perdere i suoi connotati di eternità per acquisire quelli di un oggi, finalmente raggiunto e anche accolto con benevolenza.
Si vis vitam, para mortem», ricorda Freud (Freud, 1915, p. 148) parafrasando un vecchio motto latino: se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte. È necessario farlo per tempo. Forse anche le Istituzioni alle quali apparteniamo e che fanno da sfondo familiare dovrebbero favorire la possibilità di questo passaggio.
Lo racconta anche Freud nell’episodio citato nella nota in calce a Il Perturbante
«Ero seduto, solo, nello scompartimento del vagone-letto quando per una scossa più violenta del treno la porta che dava sulla toeletta attigua si aprì e un signore piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in testa, entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato direzione nel venir via dal gabinetto che si trovava tra i due scompartimenti, e che fosse entrato da me per errore; saltai su per spiegarglielo ma mi accorsi subito, con grande sgomento, che l’intruso era la mia stessa immagine riflessa dallo specchio fissato sulla porta di comunicazione. Ricordo tuttora che l’apparizione non mi piacque affatto. – Anziché spaventarci alla vista del nostro sosia, quindi, semplicemente non lo avevamo riconosciuto.»
In questo senso quindi il punto sembra proprio essere il riconoscimento, o meglio il non riconoscimento. Se nello scritto Freud legava l’episodio alla questione del sosia, qui possiamo prendere lo spunto per seguire la traccia del riconoscimento e del riconoscimento di tratti di sé.
In particolare: quando ci si riconosce “anziani”?
Difficile a dirsi. Siamo sempre giovani, immutabilmente giovani, abbiamo la percezione di una vigoria e di una lucidità eterne, che sfuggono agli inclementi dettami del tempo e della caducità.
Siamo forti, capaci, attenti, pieni di esperienza ma al contempo colmi di nuovi progetti e iniziative, in una sorta di mascherata ma lucida onnipotenza. Il tempo ed i suoi effetti sembrano non riguardarci. Se siamo in buona salute, mai e poi mai pensiamo assolutamente a lasciare l’attività, alla quale abbiamo senz’altro dedicato anni di passione, impegno, studio e dedizione. Fra l’altro ci confrontiamo, talvolta crogiolandocene rassicurati, con l’immagine abituale e un po’ stereotipata dell’analista “anziano” visto come una sorta di vecchio saggio, rassicurante e sapiente, affidabile ed esperto, come se la psicoanalisi fosse un mestiere da vecchi e di vecchi (Anfilocchi, 2020).
Nonostante tutto, prima o poi dobbiamo fare i conti con la realtà dei fatti: il tempo è passato, l’analista come tutti non è esente dal deterioramento fisico e psichico, e diventano necessarie e irrinunciabili alcune considerazioni.
Un punto nodale è ad esempio fino a che età sia consigliato all’analista prendere nuovi pazienti in analisi, soprattutto se si considera la durata sovente molto lunga del percorso analitico. Alcuni pazienti, più o meno consapevolmente, si pongono la questione se l’analista possa accompagnarli fino al termine della loro analisi e, sia pure augurandogli ogni bene, fanno i conti con questa dimensione del rischio di perdita, che alimenta fantasie neanche troppo inconsce di abbandono e riporta nel campo analitico l’angoscia di morte.
È un elemento che va sicuramente considerato ed analizzato, soprattutto nelle sue dimensioni transferali, ma vale la pena chiedersi se dopo una certa età non sia il caso di evitare a priori di accettare nuovi analizzanti. Certo non è semplice individuare un’età limite oltre la quale si sconsiglia di iniziare nuove analisi. 70, 75, 80 anni? Sicuramente non invecchiamo tutti allo stesso modo e sovente gli ottanta anni dell’uno non sono i settanta dell’altro. Allo stesso modo non tutti siamo dotati di una corretta percezione di noi stessi che ci permetta di capire con chiarezza quando sia il momento di interrompere o almeno di trasformare la nostra attività. Si potrebbe ad esempio andare nella direzione di privilegiare l’attività didattica o di supervisione, o nell’iniziare soprattutto non tanto analisi vere e proprie, che comportano una durata indubbiamente più lunga, quanto psicoterapie, sostanzialmente più brevi.
Questo permetterebbe all’analista di prolungare l’attività professionale senza altresì determinare conseguenze importanti nella relazione con il paziente. Resta il dubbio su quanti analisti in realtà vogliano abdicare ad una posizione che comporterebbe un’accettazione esplicita di un limite. Possiamo dire che sicuramente Freud non ha dato il buon esempio in tal senso, continuando a lavorare fin quasi alla fine dei suoi giorni, malgrado la sofferenza che gli era causata dalla malattia. È estremamente interessante e stimolante il carteggio epistolare con Lou Salomé, all’interno del quale si apre una profonda riflessione sul tema della fine della vita, prendendo l’avvio dall’asciutta considerazione freudiana che tratteggia l’impossibilità per l’uomo, e l’analista, di pensare la propria morte: «non c’è nessuno che in fondo creda alla propria morte, […] nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità» (Freud, 1915, p. 137). Nonostante ciò, Freud aveva ben chiaro lo scorrere del tempo tant’è che confessava anche «quanto buon carattere e umorismo occorrono per tollerare il terribile avanzare dell’età!». Sarebbe interessante entrare in una disamina dell’epistolario ma non è certo questo l’ambito adatto. Mi limito a segnalare l’evidenza storica di un lavoro di Freud protratto nel tempo fin quasi alla fine ultima della sua esistenza, e questo nonostante l’attualità della ricerca vada invece verso una riflessione sulla gestione della fine della professione. Per chi fosse interessato all’argomento dell’ultimo periodo di vita di Freud, trattato non solo dal punto di vista dell’elaborazione teorica ma anche in una dimensione storica, vorrei citare come spunto iniziale di ricerca e riflessione il bel contributo di Gabriella Vandi dal titolo La vecchiaia e l’orizzonte. L’ultima stagione di Freud, all’interno del libro Vecchiaia e Psicoanalisi (vedi bibliografia). Per inciso, interessanti letture che raccontano la vecchiaia di Freud sono senz’altro Vita e opere di Sigmund Freud, di Ernest Jones, ed. Il Saggiatore, così come Freud in vita e in morte. Biografia scritta dal suo medico, di Max Schur, ed. Bollati Boringhieri. Riprendendo la considerazione di partenza su come gestire gli ultimi anni di professione, Marta Badoni ricorda le indicazioni previste da alcune Società psicoanalitiche per provare a tracciare le linee guida da seguire. In estrema sintesi, si parla del suggerimento della stesura di una sorta di testamento professionale, della creazione di uno specifico comitato, dell’invito per ogni analista ad indicare colleghi di fiducia che si possano attivare in caso di impossibilità a proseguire la professione (Badoni, 2020, p. 71). In ogni caso si tratta di un argomento scottante che necessita di una riflessione comune e di una posizione condivisa. Sarebbe auspicabile a mio avviso che si potesse costituire un gruppo di lavoro che portasse avanti questa riflessione. Anche perché parlando con amici e colleghi, ovviamente sempre in camera caritatis come è giusto sottolineare visto che non è un argomento di cui si parla volentieri, è emersa più comune di quanto si immagini l’esperienza della perdita dell’analista anziano durante un’analisi, una supervisione o durante il percorso di formazione. Tutti concordavamo su quanto fosse dirompente e distruttiva un’esperienza simile, tant’è che le conseguenze di tale evento si sono poi riverberate profondamente nelle analisi successive. È quindi indubbiamente vero quello che sottolinea Robutti quando afferma che l’eventuale interruzione lascia il paziente «in una solitudine che non assomiglia a nessun’altra» (Robutti, 2009) proprio perché «perdendo l’analista ogni paziente perde infatti e inevitabilmente parti del Sé depositate nell’analista nel corso del lavoro analitico» (Badoni, 2020, p. 70). Oltre a ciò, al di là di questo e dell’irruzione dell’angoscia di morte, ricorda sempre Marta Badoni, l’analista è custode del setting e l’oggi dell’accoglimento della domanda è possibile solo nella certezza di un domani (Badoni, 2020, p. 68). È il senso del procedere dell’analisi, altrimenti impossibile se se ne perde la disponibilità.
Nonostante alcuni analisti temano più il decadimento cognitivo che quello fisico, la perdita della memoria, la demenza, la questione del “pensionamento” diventa come detto un argomento che non si può proprio trattare. Per provare a spiegarne il motivo, la Badoni cita Danielle Quinodoz, autrice che si è dedicata con grande impegno all’argomento, che ipotizza che di fatto gli analisti sembrino dimenticarsi della loro età anagrafica effettiva proprio perché lavorando nel transfert assumono l’età che i pazienti di volta in volta attribuiscono loro. Questo porterebbe a continuare la professione anche in età avanzata anche perché «il rischio […] è che “vecchi” siano sempre e solo gli altri. Si tratta […] di un incrocio a rischio che vede il tempo dell’inconscio, nel transfert, scontrarsi col tempo reale della vita» (Badoni, 2020, p. 74). Condivido a pieno questa considerazione, anche per l’esperienza diretta con analisti anziani e molto anziani: il rischio sembra proprio essere quello di venire sopraffatti da un sentimento di onnipotenza che colloca per certi versi “al di fuori del tempo”, in una sorta di immutabile eternità, come se a forza di lavorare con l’inconscio se ne assumesse nel corpo la sua stessa a-temporalità. Ecco allora che diventa complicato rientrare nel tempo reale della vita, che costringe a fare i conti con modificazioni identitarie complesse e talvolta laceranti. Non si tratta solo di abbandonare la professione ma di lasciare anche un’identità, personale certo ma anche sociale e culturale. Ritengo non sia secondaria anche la questione economica.
Accettare il tempo reale della vita significa in buona sostanza anche accettare che l’eterno domani inscritto nel rimando alla seduta successiva possa perdere i suoi connotati di eternità per acquisire quelli di un oggi, finalmente raggiunto e anche accolto con benevolenza.
Si vis vitam, para mortem», ricorda Freud (Freud, 1915, p. 148) parafrasando un vecchio motto latino: se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte. È necessario farlo per tempo. Forse anche le Istituzioni alle quali apparteniamo e che fanno da sfondo familiare dovrebbero favorire la possibilità di questo passaggio.
Il Paziente “anziano”
«Non si è mai pronti alla catastrofe finale.
Anche se si è cercato di prefigurarla tante volte.
Non si è mai rassegnati a credere che siano gli ultimi giorni».
Maria Luisa Algini, Il tempo dell’orizzonte corto, 2011.
Come detto il mondo invecchia. Ce ne siamo accorti nella nostra quotidianità, ce lo confermano in modo chiaro ed evidente tutte le ricerche statistiche. Il mondo, soprattutto nel versante occidentale, invecchia e aggiungo “fortunatamente”, perché questo indica una migliorata qualità della vita e una crescita dell’aspettativa di vita. Tutto questo sposta in avanti anche l’età dei pazienti che quotidianamente ci contattano. Oggi non è più troppo isolato ed episodico il caso di pazienti che formulano una domanda di cura dopo i sessant’anni se non addirittura più tardi. Spesso le motivazioni sono le più disparate: importanti modificazioni di vita, nelle relazioni interpersonali, nell’attività professionale, nella salute diventano l’elemento che determina la volontà di intraprendere un percorso di terapia. A volte questa domanda, ancorché abbozzata e poco chiara, sostenuta soprattutto da un’urgenza sintomatica, si trasforma in una vera e propria domanda di analisi. Questo riporta all’annosa questione dell’analizzabilità del paziente anziano. Freud sosteneva che non fosse possibile perché con il protrarsi dell’età, addirittura indicava come spartiacque i 50 anni di età, sarebbe venuta meno l’elasticità dei processi mentali da cui dipende il trattamento. Ovviamente segnare i 50 anni di età come data limite per l’analizzabilità oggi diventa decisamente anacronistico e soprattutto non sostenuto dalla ricerca e dalle neuroscienze, che invece certificano come le capacità cognitive siano elevate anche in età avanzata. In realtà sono molti gli autori che non condividono l’indicazione freudiana, soprattutto in questi ultimi anni.
In ogni caso già nel 1919 Karl Abraham in La prognosi di trattamenti psicoanalitici in età avanzata riferisce di aver conseguito ottimi successi con pazienti anziani, addirittura tra i migliori da lui ottenuti in generale. Anche Hanna Segal in un articolo del 1958 racconta in modo esaustivo la sua esperienza di psicoterapia con un paziente anziano, evidenziando come la stessa non sia sostanzialmente differente dalla psicoterapia psicoanalitica che si possa svolgere in altre età della vita, aggiungendo anche che è proprio grazie al lavoro analitico che si possono affrontare ed elaborare l’angoscia di morte e tutto ciò che può essere collegato alla decadenza senile ed alle trasformazioni della vita, alle perdite e ai lutti. A proposito dell’angoscia di morte, la Segal introduce una distinzione tra inconscia e cosciente, distinzione ripresa poi da Danielle Quinodoz: «Si tratta di un’angoscia (inconscia, n.d.r.) legata a sentimenti persecutori di colpa che rende difficile il lavoro dell’invecchiare. A volte, infatti, vediamo dei vecchi inaspriti che inconsciamente vivono il loro invecchiamento e la loro morte come una rivincita che prenderanno, a loro spese, gli oggetti interni verso i quali si sono mostrati aggressivi. Credono allora di essere perseguitati da questi ultimi e ne diffidano: a poco a poco, arrivano a diffidare di tutti coloro che li circondano, e questo rende sempre più difficile vivere accanto a loro […]. Avrebbero a volte bisogno dell’aiuto di un terapeuta per integrare i sentimenti inconsci di odio e di amore che provano per le figure importanti della loro vita […]. Vivrebbero allora l’approssimarsi della morte in un’atmosfera meno persecutoria». Il lavoro della Segal è stato poi abbondantemente ripreso da Franco De Masi a sostegno della possibilità di lavoro con i pazienti anziani (De Masi, 2002). Secondo De Masi i motivi che possono spingere un anziano ad iniziate una terapia possono essere vari: «una ricaduta della malattia originaria, ad esempio, la ripresa di una sindrome depressiva di una certa gravità, […] un trauma emotivo in età relativamente tarda, un lutto o una separazione; tra questi lutti c’è anche la fine dell’attività lavorativa […]. Altri pazienti affrontano con sofferenza la propria vecchiaia, in particolare non sono in grado di accettare le trasformazioni fisiche che l’accompagnano o i limiti che impone» (De Masi, 2020, p. 97). Consapevoli che questo sia un elenco limitato ed esemplificativo, certo non esaustivo, mi sembra sia necessario considerare anche come elemento di perdita e di limite la trasformazione che subisce la sessualità nella vita dell’anziano, intesa in tutte le sue possibili declinazioni. Anche qui si tratta di elaborare un lutto rispetto ad un passato sicuramente più appagante e gratificante e di permettersi di accogliere il limite che l’età e il decadimento del corpo necessariamente comportano. Lo descrive benissimo Maria Luisa Algini in un toccante passo de Il tempo dell’orizzonte corto, sia pure legandolo alla tragica esperienza della malattia terminale: «Il corpo, in altro modo. Prima un’intimità segnata dalla potenza del corpo. Adesso dal suo decadere. Una volta l’intimità della passione. L’esperienza sempre stupefacente delle potenzialità dell’incontro d’amore e di ciò che il corpo può provare. Le mille variazioni di una musica che conosce invenzioni mai pensate. Adesso l’intimità con il corpo dell’altro che soffre» (Algini, 2011, p. 47) La questione della trasformazione o addirittura della perdita della vita sessuale è stata senza dubbio uno dei punti sul quale si sono annodate le psicoterapie che nella pratica quotidiana ho portato avanti con pazienti avanti nell’età o addirittura anziani. Spesso la perdita della sessualità viene vissuta come elemento emblematico dello scivolamento verso la morte, con grande angoscia intravista anticipata e sempre più prossima. «La vicinanza con la morte è terrificante per tutti gli esseri umani, a qualsiasi età, ma con l’invecchiamento non si tratta solo del timore di perdere la vita, ma del fatto che la vita si caratterizza sempre di più per il venire meno dell’aspetto progettuale e per l’avanzata del sentimento di perdita» (De Mijolla, 2020, p. 136).
È senz’altro vero che invecchiare significa perdere: bellezza, vigoria, forza, possibilità, tempo, futuro, e ancora lavoro e affetti. Evidentemente non si tratta di affrontare in maniera distaccata tutto questo, ma la psicoterapia psicoanalitica deve poter permettere al paziente anziano l’accettazione che questo sia parte di un necessario percorso di vita, di una regola di natura che guida ogni essere vivente. Un altro tempo di vita, che testimoni comunque il proseguimento del proprio viaggio. Morire ovviamente non piace a nessuno, ma invecchiare significa indubbiamente vivere e continuare a farlo, sia pure con la consapevolezza che non sarà per sempre. Come si può notare parlo di psicoterapia psicoanalitica del paziente anziano e non di psicoanalisi perché mi sento di condividere il suggerimento di Franco De Masi, vale a dire quello di propendere per la prima in virtù di una sostanziale distinzione: «la psicoterapia si avvale di un numero di sedute settimanali più ridotto e della posizione vis-a-vis tra paziente ed analista. Una psicoterapia può essere utile quando la sofferenza è limitata o ha avuto origine da un evento traumatico. Si tratta in questo caso di aiutare la persona a superare quel momento delicato della vita. Diversa è l’indicazione per il trattamento analitico vero e proprio […] Il suo scopo non si limita al superamento di una crisi esistenziale, ma affronta un malessere che ha origini più profonde, strutturali e che richiede una ricostruzione della personalità […]» (De Masi, 2020, p. 96). È senz’altro vero che oggi come oggi sia anche possibile affrontare una analisi in vecchiaia, ma credo sia necessario tenere conto di tantissime variabili e condizioni, che non possono essere stabilite a priori.
Alcune sono state accennate in questo scritto, altre se ne possono incontrare nella pratica quotidiana e nell’unicità della domanda del soggetto, sempre da analizzare appieno e da valutare con attenzione. Mi sembra comunque fondamentale rimandare alla responsabilità dell’analista la scelta del percorso e della pratica da seguire. Anche e soprattutto se consideriamo quello che dovrebbe essere il fine ultimo di un percorso analitico con il paziente anziano: «Alla fine si tratta di fare i conti con il fatto che c’è qualcosa di radicalmente inconsolabile nell’esistenza umana. […] Fare propria l’idea che non c’è più nulla da attendersi – spesso da pretendere – dal destino, dagli altri, dalla fortuna, non porta necessariamente alla disperazione, all’impotenza o al cinismo. Il riconoscimento dell’irreversibilità delle cose, dell’esistenza di una serie di impossibilità non imputabile a propri deficit ma alla natura intrinseca della condizione umana, tutto questo spezza il circolo vizioso e alienante delle recriminazioni o della colpa, delle frustrazioni per le aspettative andate deluse e per le occasioni mancate. Questa consapevolezza dell’ingiustizia insita nell’ordine del mondo, che non risponde mai in termini equi alle nostre attese, fa dell’età senile un felice contraltare dell’ideologia meritocratica di oggi. […] di qualsiasi età si parli, è esattamente in questo scarto tra l’atteso e l’ottenuto che trova ospitalità il desiderio: […] un desiderio che trova anzi sostanza e soddisfazione nell’inconsistenza dell’oggetto che potrebbe saziarlo» (Stoppa, 2021, p. 50).
Alcune sono state accennate in questo scritto, altre se ne possono incontrare nella pratica quotidiana e nell’unicità della domanda del soggetto, sempre da analizzare appieno e da valutare con attenzione. Mi sembra comunque fondamentale rimandare alla responsabilità dell’analista la scelta del percorso e della pratica da seguire. Anche e soprattutto se consideriamo quello che dovrebbe essere il fine ultimo di un percorso analitico con il paziente anziano: «Alla fine si tratta di fare i conti con il fatto che c’è qualcosa di radicalmente inconsolabile nell’esistenza umana. […] Fare propria l’idea che non c’è più nulla da attendersi – spesso da pretendere – dal destino, dagli altri, dalla fortuna, non porta necessariamente alla disperazione, all’impotenza o al cinismo. Il riconoscimento dell’irreversibilità delle cose, dell’esistenza di una serie di impossibilità non imputabile a propri deficit ma alla natura intrinseca della condizione umana, tutto questo spezza il circolo vizioso e alienante delle recriminazioni o della colpa, delle frustrazioni per le aspettative andate deluse e per le occasioni mancate. Questa consapevolezza dell’ingiustizia insita nell’ordine del mondo, che non risponde mai in termini equi alle nostre attese, fa dell’età senile un felice contraltare dell’ideologia meritocratica di oggi. […] di qualsiasi età si parli, è esattamente in questo scarto tra l’atteso e l’ottenuto che trova ospitalità il desiderio: […] un desiderio che trova anzi sostanza e soddisfazione nell’inconsistenza dell’oggetto che potrebbe saziarlo» (Stoppa, 2021, p. 50).
Una indicazione sicuramente non facile da raggiungere ma che si pone sicuramente come il faro che indica la direzione del lavoro con il paziente anziano. E sulla scia di questa considerazione legata alla cura appare chiaramente un’ultima questione sullo sfondo. Ad un paziente anziano serve un analista anziano oppure può lavorare con successo anche con un analista più giovane? Francamente su questa posizione ho ancor meno certezze. Nella mia esperienza con pazienti anziani sono stato quasi sempre più giovane e nonostante questo il percorso di cura si è dipanato con un discreto successo. Ci sono autori che propendono per una certa simmetria dell’età tra paziente anziano ed analista, perché sostengono che sia importante che il paziente abbia la certezza che anche l’analista porti sulla sua pelle i segni della vita, che abbia attraversato perdite, lutti, fallimenti e trasformazioni. Il rischio altrimenti sembrerebbe anche quello di ingenerare una sorta di invidia per la giovane età e per il futuro ancora a disposizione dell’analista, negati altresì all’anziano. Mi sembra una limitazione eccessiva. Probabilmente un analista giovane e alle prime armi, tipologia probabilmente rara poiché alla nostra professione ci si arriva per certi versi già con una certa maturità ed età per i tanti anni di studio e di formazione senz’altro necessari e fondamentali, può effettivamente in certi pazienti sollecitare un transfert negativo per via di alcune reazioni inconsce di invidia per un corpo giovane, per le possibilità implicite nell’età e per il non aver dovuto attraversare le tante vicissitudini della vita. Il contraltare sta sicuramente nella possibilità di analizzare tutto questo materiale ma anche permettere, in un’ottica di transfert, il riemergere di immagini e materiale del passato. Come appare evidente le posizioni sull’argomento sono le più varie e disparate, non c’è una indicazione univoca. In ogni caso restano ancora una volta imprescindibili da parte dell’analista una continua riflessione su quanto si stia muovendo all’interno del campo analitico e soprattutto l’interpretazione del materiale incontrato.
Conclusioni
Con questo breve scritto più che fornire risposte o indicazioni ho voluto portare alla discussione, se sarà possibile, un argomento che sento necessario affrontare in una modalità più organica e strutturata, con una riflessione condivisa all’interno delle nostre Società di appartenenza. L’argomento è senz’altro scomodo e talvolta ci porta al facile utilizzo della negazione come mobilitazione difensiva rispetto a questioni sentite scottanti. Ritengo altresì che sia importante porvi l’attenzione con la serenità che merita. Auspico la formazione di un gruppo di lavoro soprattutto sulla questione della gestione dell’età avanzata dell’analista, che sento prioritaria, anche per fornire a chi si trovi ad arrivare a quella soglia sostegno e supporto perché la possa varcare senza traumi. In considerazione poi delle trasformazioni demografiche nella popolazione e dell’allungamento della prospettiva di vita, ritengo imprescindibile la ricerca comune e condivisa sul lavoro con il paziente cosiddetto anziano, uscendo dal focus primario che spesso vede concentrati su altre età della vita, bambino, adolescente e adulto, considerate come gli unici momenti nei quali sia possibile introdurre cambiamenti, modificazioni, risoluzioni. L’anzianità prima e la vecchiaia poi possono essere momenti di grande ricchezza e vitalità, a patto che ci si possa discostare con leggerezza dall’idea che questo tempo sia solo un lento ed angoscioso scivolare verso la fine. In una celebre vignetta dei Peanuts il buon vecchio Charlie Brown, guardando meditabondo l’orizzonte, diceva mesto all’inseparabile Snoopy: «Un giorno dovremo morire». E il saggio Snoopy replicava: «Un giorno certo, ma non oggi». Per dirla con Marcello Marchesi, l’importante è che la morte ci trovi vivi.
Paolo Romagnoli
Psicologo, Psicoterapeuta, Psicodrammatista, Membro Titolare S.I.Ps.A.
Psicologo, Psicoterapeuta, Psicodrammatista, Membro Titolare S.I.Ps.A.
Note
1 Il documento “La demografia dell’Europa”, ed. 2021, è consultabile e scaricabile presso il sito dell’ISTAT a questo indirizzo: https://www.istat.it/it/archivio/262917
2 L’episodio è riportato nella Nota 1 a p. 109 de “”, OSF vol.9 Bollati Boringhieri, Torino 1977
3 Lettera di Sigmund Freud a Lou Andreas Salomé, Vienna, 16 maggio 1935, in Freud S., Salomé L. (1966) Eros e conoscenza. Lettere 1912-1936, p. 205, Bollati Boringhieri, Torino 1983
4 Riporto per pronto riferimento a questo proposito gli autori che Secondo Giacobbi riporta nel suo breve ma interessante articolo (vedi bibliografia): Martin Grotjahn, Grete Bibring, Stefania Turillazzi Manfredi, Stefano Mistura, Alberto Spagnoli, Maria Pierri, Ezio Izzo, Franco De Masi. Aggiungo per mio conto i contributi di Danielle Quinodoz e Sophie De-Mijolla, oltre al lavoro di Rita Corsa, Lucia Fattori e Lucia Monterosa. Mi scuso per l’evidente incompletezza dell’elenco.
5 Il riferimento al lavoro di Hanna Segal così come è riportato nel testo e la citazione dello scritto di Danielle Quinodoz sono ripresi testualmente dall’articolo di Secondo Giacobbi indicato in bibliografia. Ho ritenuto opportuno non modificare nulla per non variare il senso della citazione all’interno del discorso soprattutto in riferimento alla definizione di angoscia di morte inconscia.
1 Il documento “La demografia dell’Europa”, ed. 2021, è consultabile e scaricabile presso il sito dell’ISTAT a questo indirizzo: https://www.istat.it/it/archivio/262917
2 L’episodio è riportato nella Nota 1 a p. 109 de “”, OSF vol.9 Bollati Boringhieri, Torino 1977
3 Lettera di Sigmund Freud a Lou Andreas Salomé, Vienna, 16 maggio 1935, in Freud S., Salomé L. (1966) Eros e conoscenza. Lettere 1912-1936, p. 205, Bollati Boringhieri, Torino 1983
4 Riporto per pronto riferimento a questo proposito gli autori che Secondo Giacobbi riporta nel suo breve ma interessante articolo (vedi bibliografia): Martin Grotjahn, Grete Bibring, Stefania Turillazzi Manfredi, Stefano Mistura, Alberto Spagnoli, Maria Pierri, Ezio Izzo, Franco De Masi. Aggiungo per mio conto i contributi di Danielle Quinodoz e Sophie De-Mijolla, oltre al lavoro di Rita Corsa, Lucia Fattori e Lucia Monterosa. Mi scuso per l’evidente incompletezza dell’elenco.
5 Il riferimento al lavoro di Hanna Segal così come è riportato nel testo e la citazione dello scritto di Danielle Quinodoz sono ripresi testualmente dall’articolo di Secondo Giacobbi indicato in bibliografia. Ho ritenuto opportuno non modificare nulla per non variare il senso della citazione all’interno del discorso soprattutto in riferimento alla definizione di angoscia di morte inconscia.