Premessa
Il concetto di tempo nella cultura occidentale si rappresenta come ipertrofia dell’aspettativa e scarto fra esperienza ed attesa dell’evento, scarto che già Freud aveva rilevato, individuandone il nucleo patogeno nel ritardo di senso sull’evento.
L’origine del vissuto temporale, detto in altri termini, si connette al bisogno-necessità, inteso nel senso di intervallo-attesa che intercorre tra la percezione del bisogno e la soddisfazione del medesimo.
Tale bisogno, intimamente connesso alla frustrazione quale agente dello sviluppo del senso di realtà, implica di per sé un cambiamento dal precedente stato di appagamento-gratificazione in assenza dell’attesa.
La realtà è in continua trasformazione, tuttavia, la forclusione dell’esperienza provoca reattivamente la formazione di falsi ideali ed il rinvio del piacere istituisce un’etica sacrificale ed un modello di pensiero proiettato verso il futuro a discapito del presente, come sottolinea Corrao.
Considerando che la genesi dell’esperienza temporale è legata alla relazione ed al movimento identificatorio con l’Altro, il tempo non è più solo il tempo oggettivo del sociale né il tempo soggettivo del vissuto, ma precipuamente un tempo intersoggettivo (sempre Corrao parla di tempo transfenomenico).
Noi peraltro esaminiamo costantemente il presente alla luce del passato e ciò costituisce la base della nostra identità biografica e l’essenza della continuità nel tempo della nostra persona, così che il tempo viene a situarsi nel nucleo dell’identità e nella relazione con l’oggetto.
Se interrogarsi sul contesto della temporalità diviene un elemento costitutivo per l’individuo, nel caso della psicosi e della clinica nelle comunità psichiatriche sono necessarie ulteriori considerazioni.
La prima considerazione riguarda gli attori del processo psicoterapeutico che, seguendo Siani e Burti, non si limitano al terapeuta ed al paziente, ma comprendono anche l’equipe curante e la famiglia dell’ospite in comunità, immerse in dinamiche che influenzano in maniera significativa l’intero meccanismo, istituendo di fatto un lavoro clinico gruppale.
In secondo luogo, come sottolinea Racamier, è necessaria una distinzione clinica rilevante, vale a dire che in una comunità psichiatrica di solito ci si confronta non già con la schizofrenia allo stato nascente, dominata dall’angoscia, ma con la psicosi come stato di organizzazione: il tempo, oltre che le esperienze di vita e le cure, ha prodotto un nuovo equilibrio nell’individuo.
L’organizzazione a lungo termine su cui si assesta la schizofrenia tende ad evitare l’angoscia ed i breakdown sconvolgenti, accentuando i tratti caratteriali della psicosi, pur mantenendo la forza e talora la violenza delle identificazioni proiettive e non escludendo episodi o fasi di destrutturazione in cui si ripresenta acutamente l’angoscia delirante.
Una conseguenza importante dell’organizzazione psicotica consiste nella atemporalità, la perdita del sentimento del tempo, che diventa immobile, senza le scansioni e le differenziazioni fra passato, presente e futuro, senza progettualità, senza dolore e soprattutto senza significato.
Nel vissuto del terapeuta l’effetto conseguente è l’inanità, descritta da Fairbairn, che definisce non solo lo stato di vuoto, ma la privazione del dare senso e della significanza, vissuto che talora porta a sentimenti di rabbia e di odio nei confronti di relazioni in cui il terapeuta si sente legato da un rapporto al di fuori del tempo e del significato.
L’essere fuori dal tempo ha come effetto positivo la riduzione dell’angoscia, ma non elimina i meccanismi distruttivi della schizofrenia, in particolare le identificazioni proiettive correlate al narcisismo psicotico, tanto più massive in quanto contenute in una struttura di vita quotidiana quale la comunità.
Vi sono, tuttavia, variabili che possono mettere in discussione questo vissuto di atemporalità, comune a pazienti e terapeuti ed utile ad esorcizzare i cambiamenti, interpretati come fonte di angoscia e ritorno incontrollato alla psicosi nascente.
Molto spesso non si tratta di quanto avviene in setting psicoterapeutici definiti, né di rappresentazioni od interpretazioni, bensì di fatti che avvengono e mettono in moto processi di cambiamento, azioni mutative cui solo successivamente il terapeuta può dar senso e significato.
Le riflessioni che seguono nascono dal lavoro clinico in un setting di psicodramma analitico all’interno di una comunità psichiatrica del Nord Italia nel momento in cui si verifica un fatto imprevisto che determina un cambiamento.
La comunità psichiatrica: un modello idealizzato
La comunità psichiatrica di cui si tratta nasce sulla base di una progettualità ideale tendente a negare l’alienità di un luogo a sé stante, vissuta dall’équipe psichiatrica territoriale come uno spazio di attraversamento, una tappa, un punto di una rete di interventi in cui viene in un certo senso diluito l’impatto con la psicosi.
Paradossalmente il tempo eterno della cronicità psicotica nel progetto originario dell’équipe diviene un tempo pre-definito istituzionalmente, negoziato all’inizio dell’inserimento in comunità con il paziente e con la sua famiglia sulla base di un programma terapeutico-riabilitativo a termine, in genere non superiore a 6 mesi anche se ripetibile indefinitamente.
Il rituale del “contratto con l’utente” si pone come meccanismo difensivo dell’équipe rispetto alla delega totale da parte di uno qualsiasi degli attori in scena, autorità esterne che richiedono controllo sociale, famiglie che postulano interventi onnipotenti, pazienti che, regredendo in una comunità-casa ideale, cronicizzano il proprio stile di vita.
Questo nucleo fondante originario, arricchito da un filone di speranze messianiche introdotto dallo staff della comunità, formato in prevalenza da operatori di una cooperativa di servizi senza specifiche caratteristiche tecniche, operatori not professionals che richiamano l’esperienza della Soteria di Mosher, con il fluire del tempo dell’esperienza comunitaria dopo 7 anni ha dato vita ad un inatteso processo di istituzionalizzazione.
L’istituzione come sostiene Bion in Attenzione e interpretazione nasce come gruppo di lavoro organizzato per sviluppare un complesso di idee che divengono a poco a poco la prevalente ragione di essere, attivando meccanismi sclerotizzati a difesa della propria storia: abitudini di vita, scansioni della quotidianità strutturano rituali ed istituiscono un’area di non pensabilità.
D’altro canto, la vita quotidiana, lo stare insieme in una vicinanza affettiva e corporea fonda in ogni membro del gruppo il sentimento di appartenenza e la fantasia dell’esistenza di uno spazio comune condiviso.
Pazienti e staff gradualmente strutturano una polarità interno-esterno, in cui l’interno racchiude la storia e l’affettività del gruppo mentre l’esterno rimane privo di valore e di riconoscimento: modelli operativi, linguaggi, meccanismi relazionali divengono referenti privilegiati per mantenere narcisisticamente l’identità del gruppo riproponendo il tempo globale dell’istituzione.
Le interconnessioni fra i diversi sottogruppi della comunità concordano a determinare mutamenti e confini delle barriere, intese col significato attribuito al termine da Jacques , vale a dire filtri emotivi alle comunicazioni, organizzatori della vita istituzionale, utilizzando meccanismi di proiezione/ introiezione: la prevalenza di un’area di bisogni corporei e di accudimento, la sensazione di atemporalità, la cospicua presenza di fenomeni di scissione richiamano le immagini rimosse della cronicità manicomiale, pur se la rigidità dei ruoli sociali è minore e le barriere più mobili.
È in questa “arena intergruppale” (R.D. Hinshelwood) che lo psicodramma analitico gioca una parte determinante nello svelare il processo di cambiamento avviato in comunità a seguito di un fatto esterno.
La crisi del settimo anno e lo psicodramma analitico
Dopo una iniziale forclusione del trattamento della psicosi, gli psicodrammatisti si sono avventurati in esperienze gruppali, in vari contesti e con differenti modalità, unificate dalla consapevolezza che nel gruppo di psicotici il discorso procede a volte in maniera frammentaria, spesso utilizzando fantasie e deliri come metafore dell’incontro con la realtà.
«Lo shock dell’Altro diviene provocazione al reale» sostiene G. Lemoine, sintetizzando così la ricchezza dei processi di identificazione e dei transfert laterali all’interno del gruppo di psicodramma.
Ci si può domandare quanto, in un contesto di comunità, sia di pertinenza del setting specifico dello psicodramma e quanto sia altro dal gruppo, alla luce dei confini mobili dell’arena intergruppale cui si faceva riferimento in precedenza.
Nella nostra esperienza, tra l’altro, lo psicodramma analitico rappresenta un potente referente simbolico per tutto il gruppo della comunità, pazienti e staff, sia perché nasce e si sviluppa contemporaneamente alla comunità stessa sia perché racchiude in sé le funzioni terapeutiche proprie di un setting comunitario (corpo e azione, gioco, gruppalità).
Nei suoi 7 anni di vita al gruppo di psicodramma è stato garantito un setting ben definito, così sintetizzabile: una seduta settimanale della durata di un’ora e mezza, la presenza con ridotto e parziale turn over di un nucleo di pazienti (da 5 a 7) ospiti in regime residenziale o semiresidenziale della comunità, la presenza del medesimo psicodrammatista conduttore affiancato da 2 Io Ausiliari “di ruolo”, inizialmente operatori dello staff successivamente psicoterapeuti in formazione.
Non è obiettivo di questo lavoro entrare in maggiori dettagli sulle specificità di tale setting, è sufficiente sottolineare che, a differenza delle altre attività terapeutico-riabilitative sperimentate in comunità, caratterizzate da partecipazione meno continuativa di pazienti (e terapeuti) e da storie brevi e talora episodiche, lo psicodramma si può rappresentare come isomorfo alla comunità, per il processo di stabilizzazione nel tempo, per la rassicurante e privilegiata partecipazione al gruppo dei pazienti e del terapeuta, forse anche per una ripetitività delle scene messe in gioco.
Un evento imprevisto, tuttavia, giunge a turbare la “quiete” della comunità e del gruppo: per una decisione politico-amministrativa di una autorità esterna, in funzione di criteri di economicità particolarmente in auge nel mondo della Sanità pubblica, la comunità psichiatrica viene concessa in uso anche all’equipe psichiatrica di un contiguo territorio che è privo di una analoga struttura.
Stili di lavoro e modelli operativi differenti, ma aspettative messianiche della nuova équipe rispetto alla comunità, intesa come soluzione alternativa ad inserimenti di pazienti in strutture private lungodegenziali, un luogo di ritrovata terapeuticità per i “casi difficili” che da sempre angustiano l’attività psichiatrica territoriale.
Nel consolidato setting comunitario si crea un clima persecutorio, un accoppiamento fra aree mute e distruttive sia dello staff, che vive un’angoscia di frammentazione di fronte alla necessità per i singoli membri di ridefinirsi ed individualizzarsi, sia dei pazienti, che si trovano a dover integrare aspetti intollerabili, precedentemente mantenuti in uno stato scisso: si manifesta quella che abbiamo definito la crisi del settimo anno.
I due sottogruppi si compattano a difesa degli elementi fondanti dei propri miti: l’ingresso dell’Altro è vissuto come un’aggressione inaccettabile, dinamiche espulsive e riparative si alternano, rituali e norme si irrigidiscono senza che il gruppo della comunità riesca ad elaborare il cambiamento e l’evoluzione del tempo.
Nello psicodramma, alla ripresa dopo la pausa estiva una sequenza di giochi segnala questo clima di tensione.
Dopo gli abituali convenevoli relativi alle vacanze trascorse da alcuni dei membri del gruppo al di fuori della comunità, prende parola Marta, una giovane psicotica di 22 anni, con una storia personale di adozione all’età di 3 anni dal brefotrofio in cui la madre naturale l’aveva abbandonata.
Marta, come spesso succede in casi analoghi, è perennemente alla ricerca della “mamma vera” e frequentemente in conflitto con i genitori adottivi.
Mette in scena una situazione in cui, inizialmente felice in vacanza al mare con i genitori e Piero, il suo ragazzo attuale, scopre successivamente che Piero si fa pagare il soggiorno dai genitori di lei.
Marta vive la situazione con una reazione delirante, ingaggia con Piero una violenta lite in cui lo accusa di voler portarle via la mamma.
Nel gioco Piero è impersonato da Giuliana, un membro dello staff della comunità, da tempo Io Ausiliario nel gruppo di psicodramma: un partner che tradisce la fiducia e si accoppia per denaro, una metafora dell’istituzione che cambia mettendo in forse una funzione di accoglimento, negando le proprie origini e privilegiando un nuovo figlio?
Una identificazione proiettiva massiva in cui Giuliana è nello stesso tempo la mamma che abbandona ed il partner che tradisce, nella riattualizzazione di un delirio in cui personaggi della storia personale e tempi degli eventi si sovrappongono e si confondono, in un clima di angoscia persecutoria.
Il gruppo è spaventato, ma non annichilito, tenta di farsi carico dell’angoscia di Lucilla con frasi generiche e superficiali, sino a che interviene Lorenzo, l’ultimo arrivato, da pochi mesi in gruppo, comprensibilmente con scarse conoscenze delle storie degli altri.
Lorenzo è un giovane di 24 anni con una struttura paranoide che è stato recentemente licenziato dal posto di lavoro ed ha ingaggiato un violento conflitto col padre, cui imputa l’incomprensione del suo stato di sofferenza e di malattia.
Racconta di essere stato avvicinato da una ex-collega di lavoro che, avendolo visto a passeggio con una ragazza a lei sconosciuta, con insistenza vorrebbe essere messa a conoscenza dell’identità di questa donna.
Nel gioco, Lorenzo sceglie nuovamente Giuliana ad impersonare la collega curiosa, ma, pur trattandola cortesemente, si rifiuta di risponderle affermando che non vuole essere invaso in una sfera strettamente privata.
Al di là dell’ambivalenza di Lorenzo, certamente correlata alla sua presenza in gruppo da poco tempo, in cui curiosità e resistenze si sovrappongono, è come se la risposta gruppale all’angoscia persecutoria fosse la negazione all’accoppiamento in pubblico e la chiusura nel proprio privato, non soltanto negando l’identità dell’Altro, ma anche non assumendosi la responsabilità del proprio desiderio.
La settimana successiva lo psicodramma inizia col racconto di Tommaso, un paziente di 35 anni che fa parte del nucleo originario del gruppo che ha alle spalle diversi ricoveri psichiatrici per episodi di aggressività legati ad esperienze allucinatorie imperative, iniziate nell’adolescenza dopo il trasferimento della propria famiglia negli USA per motivi di lavoro.
La psicosi di Tommaso ha prodotto come conseguenza la separazione dei genitori: mentre Tommaso è rientrato in Italia con la madre, il padre è rimasto a lavorare negli USA.
Tommaso racconta al gruppo di aver dato a Sergio, il primo paziente proveniente dall’altro territorio ospitato in comunità, una cintura, di cui l’altro aveva bisogno.
Precisa che non si trattava di un dono, ma di un prestito o di uno scambio con altri oggetti ed invece non avviene alcun pagamento in rimborso.
Tommaso pensa che, pur essendo Sergio senza risorse, avrebbe potuto almeno lavargli la bicicletta, ma, nonostante una richiesta esplicita, Sergio tergiversa: Tommaso mette in scena questa richiesta in presenza del gruppo della comunità, inteso come staff e pazienti insieme, dal quale si aspetta supporto tramite un intervento chiaro e deciso.
Nel gioco sempre Giuliana, che impersona il gruppo comunitario, sceglie di far da testimone senza intromettersi nella disputa, rappresentazione di una istituzione ancora incerta nell’affrontare il cambiamento e nell’accogliere nuovi bisogni ed ancora incapace di ridefinire regole di comportamento più flessibili.
Chi, come Tommaso, nel gruppo di psicodramma ha messo in gioco da tempo la propria storia, affrontando rotture e reintegrazioni, pare tuttavia disponibile all’incontro con l’Altro: sapendo che c’è un prezzo da pagare, fantastica di uno scambio che, se non alla pari, potrebbe però consentire di ripulire uno strumento utile per il proprio percorso (la bicicletta).
Dalla prima seduta, in cui il denaro era il prezzo di un tradimento materno e della comunità, la possibilità di un dono (una cintura “di sostegno”) per avviare un dialogo e la richiesta di una mediazione all’istituzione, mantenendo, ma modificando la primitiva alleanza aprono uno sguardo sul cambiamento che implica l’ingresso dell’Altro.
La risposta del gruppo di psicodramma all’apertura di Tommaso si manifesta nel gioco di Marta, la giovane con cui abbiamo iniziato questa sequenza, la quale recentemente si è trovata ad un anniversario di matrimonio, al suo tavolo tutte persone allegre e familiari, in un’altra stanza, al di là di un muro, tutte persone tristi che non conosce.
Nel gioco Marta può andare oltre il muro ad incontrare il gruppo triste senza perdere la propria identità, con una scelta autonoma per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza: può lasciare il gruppo allegro familiare, impersonato ancora una volta da Giuliana, senza vivere l’angoscia di perdersi o di perdere ancora una volta i propri legami affettivi come nella sua storia infantile, grazie al dispositivo del rôle playing psicodrammatico.
L’importanza di Giuliana, presente in tutti i giochi di queste sedute, come funzione di contenimento delle identificazioni proiettive del gruppo, risponde pienamente all’obiettivo di definire, nel setting particolare dello psicodramma con psicotici, un ruolo terapeutico intermedio, la garanzia di un transfert laterale più coerente.
L’evoluzione delle sue posizioni in scena segnala il processo di cambiamento: prima antagonista conflittuale ed infido nel gioco di Marta, poi personaggio di un passato che vorrebbe entrare a far parte del presente nel gioco di Lorenzo, successivamente testimone di una opportunità di scambio nel gioco di Tommaso ed infine soggetto di una possibile identificazione nel gioco conclusivo di Marta.
La sequenza di giochi, dopo aver incontrato nell’Altro la persecuzione, il rifiuto e la parziale espropriazione di sé, ha consentito di volgere lo sguardo sulle proprie parti depresse, al di fuori del rassicurante contesto familiare.
Lo psicodramma, utilizzando la trama narrativa metaforica del gioco, ha dunque modificato l’iniziale atmosfera persecutoria del più esteso contesto comunitario ed ha riattivato un processo di pensiero rimasto in precedenza segregato nei rituali difensivi del gruppo.
Massimo Pietrasanta
Psichiatra, Psicodrammatista, Didatta SIPsA,
Responsabile del Centro Didattico SIPsA di Alessandria