CENTRO DIDATTICO SIPSA – APEIRON

Scrivere all’ascolto

Partiamo dall’immagine per arrivare all’ascolto.
L’opera di Oscar Munoz Proyecto para un memorial mostra allo spettatore 5 monitor affiancati in cui scorrono altrettanti video della durata di 7 minuti. In essi è ripreso l’artista stesso nell’atto di tracciare volti ripassando i contorni di fotografie di un giornale di un obitorio. Munoz dipinge i ritratti utilizzando semplicemente l’acqua, bagnando la superficie di un foglio, così non appena si forma un’immagine quella del video precedente inizia a scomparire, ad evaporare e così via.

Poesia Jacqueline è un’opera del 1965 di Emilio Isgrò che si definisce un “poeta visivo”.
«Il poeta visivo -scrive Isgrò- non cesellerà le parole non le soppeserà, non le palperà amorosamente […] le userà avvilendole, abbassandole di tono, segni tra milioni di altri possibili segni».

«Come si guardano, come si leggono le mie opere? Prendiamo Jacqueline, che è una delle cose più tipiche. In un grande campo retinato, privo di figure, una freccia nera indica un punto, un vuoto. Sotto si legge una didascalia: “Jacqueline (indicata dalla freccia) si china sul marito morente”. Tutto è dato da una calcolatissima struttura di segni, eppure tutto è affidato allo spettatore. Ciò che lo spettatore cerca non è quello che vede» (Isgrò, 1990, pp. 32-33).

A partire da queste due opere ci muoviamo per addentrarci nel territorio dell’osservazione e della scrittura nello psicodramma analitico.
L’osservazione è il campo dello “stile” dello psicodrammatista, nel doppio senso di rischio latente di espressione narcisista e svanimento del soggetto.
Verrebbe da chiedersi perché a chi è in formazione viene chiesto di rimanere per mesi se non per anni nella posizione dell’osservatore, come a dire cosa? Da lì puoi fare meno male? Da lì puoi farti meno male? da lì in fondo puoi solo dire parole, non puoi alzarti, scegliere un gioco, fare un gesto … chissà mai perché si è pensato che il posto dell’osservatore sia un posto più comodo e chissà come mai continua ad esserlo per chi è in formazione. «Io osservo» quanto volte la abbiamo sentito dire, in un doppio movimento, esporsi e poi ritirarsi, cogliere il tempo di concludere come uno dei tre prigionieri.
Prendere la funzione analitica dicendo pubblicamente «io animo/io osservo» resta un passaggio delicato perché rappresenta la riedizione di un dramma umano antico e depositato nella memoria e nella cultura comune, quello di prendere il posto del maestro. Il vacillare su questo passaggio, nel silenzio o nel continuo rinvio, equivale al quel “meglio non esser mai nati” (Sofocle, Edipo a Colono) che vorrebbe evitare l’incontro col dolore di esistere, di “sapere” della propria morte.
La soglia su cui si gioca la parola «io animo/io osservo» è il varco che introduce a quello che Lacan chiama il “desiderio dell’analista” che è il desiderio di non essere il desiderio dell’altro.
Se definiamo lo psicodramma analitico un dispositivo di cura dobbiamo definire tutti i suoi momenti esecutivi come processi operativi di cura e l’osservazione ne rappresenta proprio l’atto finale e conclusivo.
Il terapeuta osservatore che ha guardato e ascoltato tutto ciò che è avvenuto, compreso il non detto e il non fatto, risponde con la sua osservazione agli attori del gioco, ma anche all’animatore e a tutto il gruppo.
È importante la definizione di risposta perché ogni attività di cura è sempre una risposta ad una o più domande, esplicite o inconsce, portate da chi richiede la cura.
Per riflettere sul tema dell’osservazione proponiamo di partire da due testi:
Il primo è il commento di Marie-Noelle Gaudé all’articolo del 1970 di Gennie Lemoine, L’observation.

Scrive la Gaudé: «[…] se diverse osservazioni sono possibili, una sola toccherà il locus principes, il cuore attivo della seduta [] L’osservazione proposta da G. Lemoine porta sulla ripetizione delle situazioni piuttosto che sulla evidenziazione di un testo…lei mette l’accento su ciò che insiste da una scena all’altra […] manca l’enunciazione dei significanti che costituiscono il testo della seduta, da parte mia io orienterei in questa direzione la ricerca dell’ipogramma» (2011, p.78).
Si può cogliere nel commento l’invito ad una pratica di parola che sia più dell’ordine del rilevamento che del disvelamento, ad una scrittura che lasci intendere, che non espliciti, non renda conto ma si limiti a tenere conto e rilanciare.

Il secondo testo è di J. L. Nancy À l’écoute tradotto in italiano con il titolo All’ascolto anziché In ascolto come vorrebbe la versione italiana corrente. La traduttrice salva e sottolinea la tensione, il movimento verso l’altro in una pratica di parola fondata sull’ascolto. Così è la psicoanalisi ma la psicoanalisi è anche quel processo che conduce alla metamorfosi della parola parlata in parola scritta.
L’osservatore è all’ascolto o in ascolto?
Quali sensi l’osservatore mette in gioco? L’udito, la vista, o meglio le orecchie, gli occhi oppure entrambi? Cosa ascolta, cosa guarda e da quale angolazione osserva? È vero che l’osservatore, almeno come noi lo abbiamo posizionato, è al margine del gruppo ma durante la seduta di psicodramma è dentro le rappresentazioni; pertanto, sembra debba essere un soggetto ubiquo, ossia deve star fuori nel rispetto delle regole e allo stesso tempo stare dentro la rappresentazione per cogliere le peculiarità verbali e posturali dei soggetti che sono in gioco. Dal momento che l’osservatore, per tutta la seduta, è silente, al termine di questa, prende la parola, diventa parlante o meglio diventa risonante. In sintesi, è muto, ma parla, quindi potremmo affermare che oltre ad essere ubiquo è anche ambiguo, enigmatico, forse inquietante.

La costruzione della scrittura

Come viene costruita la scrittura dell’osservazione?
Come un ago che entra e esce da qualcosa lasciandosi dietro un filo -direbbe l’artista Maria Lai.
Per molti di noi la scrittura dell’osservazione viene costruita come un “testo a fronte” quasi a indicare nella traduzione il luogo stessa della lettura.
Usando due qualità di scrittura molto diverse l’una dall’altra.
Il foglio è diviso in due colonne verticali. Nella prima colonna, a sinistra quasi parola per parola, ciò che i pazienti dicono. Una vera trans-scrizione, consapevole che già la parola è una sorta di in-carnazione di qualcosa di cui si conosce il significato. Carlo Sini scrive: «La parola orale già una protesi (la prima protesi) che si sporge oltre il corpo vivente in azione» (2012, p.35).
Riempiendo questa prima colonna emerge la scrittura “in contemporanea”: il paziente parla, l’osservatore scrive, e nessuna parola pronunciata muore lì. Meglio, il linguaggio da cui si è parlati non va perduto; ne rimane traccia. Una scrittura identificativa, nel senso che le sue parole si trasformano nella registrazione dell’osservatore come fossi lui a pensarle? È quella pulsione imitativa che ci abita dall’inizio nella trasmissione del linguaggio?
Poi nel tempo dell’après coup, cioè nel tempo del già visto e della pre-visione del resto della seduta l’osservatore comincia a costruire l’osservazione scrivendo nella colonna di destra. È l’altra scrittura, quella destinata alla lettura, al gruppo che fa di ciò che ha visto e udito un nuovo montaggio, una interpretazione?
Ruotare con tutti i sensi nella direzione di un testo che possa risuonare come s-convolgente, che possa svelare al gruppo il non detto. A dirla con Deleuze (2010), creare, inventare concetti, si spera non per il narcisismo nella funzione di osservazione.
Da un lato l’enunciato dall’altro l’enunciazione, quindi. Da un lato la trascrizione della seduta dall’altro la sua costruzione. Ma per tale metamorfosi o trasformazione è necessario un tempo allo stesso tempo infinito e infinitesimale, che si propaga dalla scrittura di sinistra a quella di destra, dalla girandola di parole e gesti della seduta all’osservazione per lasciare all’altro la parola, l’ultima parola, dicendola con la propria voce ma non al suo posto, piuttosto al posto della sua scomparsa, nel luogo stesso dove è venuto a mancare e non è più.
Il processo di costruzione, a tratti, sembra volto a torcere, quasi a strizzare la lingua…dotandola di uno specifico ritmo. L’intento è cogliere la natura ibrida della voce altrui, evocare inciampi e balbuzie.

J. L. Nancy in Corpus (1995 p.18) considera la scrittura come il gesto da compiere per toccare il senso … Come giungere a toccare il corpo, l’altro … senza significarlo ma anche senza separare la parola dalla presa sensoriale, così che la parola faccia presa.
Perché è evidente che scrivere non è significare, è rendere la parola dell’analizzante un frammento, far sì che la sua parola non significhi più ma si svincoli dal discorso.

«Il senso del senso della mia pratica si coglie da ciò che sfugge -scrive Lacan (1988, p.9) – da intendere come da una botte e non di un tagliare la corda. È da ciò che sfugge che un discorso prende il suo senso e cioè dal fatto che i suoi effetti sono impossibili da calcolare».
Ciò che sfugge è proprio il linguaggio perché le parole ci escono di bocca e, una volta fuori, non sono più nostre.
È una frase, quella di Lacan, ironicamente significante che sbaraglia ogni tentativo ermeneutico, regge, con leggerezza, l’alone di non detto (ciò che sfugge) di cui sta parlando e che, attraverso le immagini, tenta di rappresentare. Chi legge si dovrà alleggerire della pretesa di verità e, se ha ascoltato, forse sorridere un po’.

L’osservazione è sempre divisa tra enunciati ed enunciazione, proprio perché parola sottomessa alle leggi del linguaggio quindi in quanto è atto psicoanalitico. L’atto è sempre un buco nel significato, un momento in cui la dialettica del senso si arresta e la presenza del soggetto scompare.  Momento e movimento non padroneggiabili che provocano discontinuità nella catena dei significanti, il soggetto non è più rappresentato dai significanti su cui contava, a cui si appoggiava. L’osservatore è l’ultimo a parlare, la seduta è conclusa, passata, si è trasferita nella parola.

Scrivere è:
Solitudine, Attesa, Ascolto di sé e degli altri.

Solitudine: si scrive da soli; infatti, l’osservatore è fuori dal gruppo e deve chiudere qualcosa dentro di sé per potersi dedicare alla parola dell’altro, raggiungere quella distanza che permetterà, se possibile, la traduzione dell’inconscio di ognuno, ma quale sarà la solitudine che proverà quando gli altri ascolteranno ciò che ha scritto?

Attesa: quale desiderio rivela l’attesa della lettura dell’osservazione sia nel gruppo che nel terapeuta? Abbiamo compreso come la parola traduca la differenza tra rappresentazione conscia ed inconscia? La prima infatti rimanda, con la sua fisicità ed il suo suono, alla concretezza di quanto appare ma è solo la parola che permette lo svelamento di ciò che è nascosto e la presentificazione di quanto accaduto.
Ascolto di sé e degli altri: spesso pensiamo di saper ascoltare noi stessi e gli altri, ma è proprio durante una osservazione profonda che ci rendiamo conto di quanto sia difficile andare oltre la “cosa” che ci appare. La parola restituisce l’immagine di un sentimento, una pulsione, che solo un particolare ascolto ed una elaborazione immediata permette di rivelare ciò che sottende il nostro ascoltare.

La scrittura dell’osservazione nello psicodramma analitico rientra forse fra le endangered literacies ossia pratiche di scrittura da tutelare e preservare perché a rischio di estinzione per via della sempre maggiore digitalizzazione, una tendenza evolutiva che non si pone troppe domande su cosa avviene ai processi in questi passaggi da un medium ad un altro. È pratica da tutelare per la sua materialità e il suo legame privilegiato con la carta, che, nella formazione all’osservazione diventa attenzione alla calligrafia, alle cancellature, all’uso dello spazio sul foglio, di fatto diventa uno spazio per guardare la forma del proprio ascolto e incontrare il proprio inconscio. Senza la pratica artigianale della scrittura su carta, l’osservazione sarebbe la stessa? Resterebbero i contenuti e la forma del discorso, che non è affatto poco, ma mancherebbe la parte visuale, tattile e corporea, che invece tanto dice dell’osservatore.
Uno dei punti centrali della formazione all’osservazione riguarda proprio la possibilità dell’osservatore di chiedersi “come tutto questo che osservo mi riguarda?”

Perché scrivere?

Perché scrivere? Per essere più chiari e precisi? Per controllare meglio le proprie emozioni a beneficio del gruppo? O forse perché quello scritto è indirizzato più o meno inconsciamente anche ad altri, al contesto culturale di appartenenza, ai colleghi e ai maestri, è una sorta di compito in classe?
Scrivere è anche fascinare, rischio di fascinazione, è passione dell’immagine che ci cattura e da cui guardarsi. Dobbiamo avere occhi per guardare come guardano.

Facciamo attenzione a che l’osservazione sia osservata perché non sfugga al suo compito fondamentale che è quello della cura.

Il posto dell’osservatore può illudere di essere il regista della scena, in fondo chi conduce entra nel quadro e viene in-quadrato dallo sguardo dell’osservatore, il conduttore deve sottomettersi ad un tempo lineare che quello della messa in scena, del discorso del soggetto, deve comunque, il conduttore, piegarsi alle regole della comunicazione e della cortesia, dell’interlocuzione. L’osservatore non attende risposta, chiude il discorso e lo rinvia, sorprende se può il conduttore stesso, ribalta la seduta apres-coup poiché l’osservatore è anche montatore, e come ci ha insegnato il cinema, è il montaggio che indica una direzione di senso.
E questo montaggio e rimontaggio può farsi macinamento della frase, del discorso e della parola fino a ridurre al significante e poter aprire a non senso o all’altro senso fino al senso altro, dell’altra scena, che il conduttore non può mai rappresentare. Forse l’osservazione ci si può avvicinare.
Certo non facendosi affascinare dalla rivalsa di farsi regista e montatore, non essendo protagonista in scena.

Lo stile può piegarsi alla bella parola, alla frase ad effetto, alla rincorsa del gioco di parole se non addirittura all’afflato poetico; a quel pane cui facevano riferimento i coniugi Lemoine (1973), che se non è simbolico, segno di mancanza, si fa riempimento e saturazione.
È un bello sforzo cogliere lo svanimento del soggetto nella costruzione dell’osservazione, lasciar cadere la teoria, l’immaginario, la pretesa della cura, il senso e la bella forma, macinare il discorso e farne farina e pane dal valore di legame sociale, briciole di discorso che non soddisfano pienamente nessuno ma che lasciano quel vuoto indispensabile al movimento e al desiderio.
Si tratta di prestare attenzione al solco che la traccia crea.
L’osservazione termina quando non c’è più niente da levare.

Bibliografia
De Certeau M. (1975), La scrittura dell’altro, Raffaello Cortina, Milano 2015

Deleuze G. (1998), Che cos’è l’atto di creazione, Cronopio, Napoli, 2010.

Gaudé M.N. (2011), Observer, écouter, instituer en psychodrame freudien in «Revue du psychodrame freudien» n.151.

Isgrò E. (1990) La domanda, in Teoria della cancellatura, catalogo della mostra personale, Milano, Fonte d’Abisso, 1990, pp.32-33.

Lacan J. (1988), Intervento in «La psicoanalisi» n.3, Astrolabio, Roma.

Lemoine G. e P. (1973), Lo psicodramma, Feltrinelli, Torino.

Nacy J. L. (1992), Corpus, Cronopio, Napoli, 2005.

– (2002), All’ascolto, Raffaello Cortina, Milano, 2004.

Sini C. (2012), Il sapere dei segni, Jaka Book, Milano.

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