Dalla penna alla voce
Sembra importante partire da quanto gli allievi in formazione della S.I.Ps.A, sia agli esordi del percorso prescritto all’interno dei training, sia all’interno dell’attuale percorso formativo previsto dalle Scuole di specializzazione, si trovino a confrontarsi con una modalità osservativa di cui devono comprendere lo scopo: non solo un report, bensì qualcosa in più e di diverso, ma ancora non definito, a cui si approcciano, inizialmente, scrivendo il più possibile, nell’intento di tenere tutto per non perdere nulla.
Solo gradualmente scoprono che, spesso, la parola scritta è inversamente proporzionale alla comprensione …
Poco per volta il fare esperienza della posizione osservativa permette agli allievi di tollerare l’attesa e il vuoto, mantenendo una posizione in cui il non comprendere può lasciare il posto alla curiosità, alle sensazioni, all’ascolto: gli appunti di quanto circola iniziano a raccogliere e contenere la narrazione che emerge dal gruppo, i contenuti delle scene giocate, portando alla costruzione di un testo in cui si fanno spazio sensazioni, parole chiave, immagini liberamente associate, rappresentazioni mitologiche.
L’attenzione fluttuante, inizialmente compresa solo a livello teorico, inizia a poter essere sperimentata e a farsi far strada nell’osservatore, grazie alla posizione di ascolto e di astinenza, consentendo l’emergere di segni, frasi, apparentemente poco collegate, che però, a poco a poco, assumono senso e significato e come le condutture sotterranee di un impianto termale romano portano calore e linfa vitale alla comprensione di quanto accade nella trama profonda del gruppo.
Spesso gli allievi continuano a scrivere molto, a sottolineare, ma la scrittura scolastica inizia a lasciar spazio alla possibilità di perdere alcuni passaggi, per consentire l’emergere di immagini e associazioni, attraverso le quali mettere in luce l’intrecciarsi delle narrazioni individuali e gruppali.
Ma, con il consolidarsi del ruolo, cosa osserva lo psicodrammatista quando scrive?
Osservare è un piano complesso, si compone di spazi interni e della realtà, del gruppo e del foglio con il testo scritto, è fatto di ascoltare, vedere, percepire, sentire, pensare.
Spazio fisico e mentale si legano a costruire legami simbolici tra gli ingredienti grezzi della vita. È il processo di rêverie, la capacità di sognare, significare, cogliere il processo del gruppo e del soggetto nel gruppo, dando significato al processo stesso nella relazione con l’osservatore.
Osservare si costituisce di tempo e spazio. Scrivere e poi leggere il testo scritto sullo spazio del foglio. Tempo e spazio consentono quella distanza che permette separazione e pensiero.
Possiamo immaginare, come ci suggerisce Corrao, un piano cartesiano nel quale gli assi della dimensione individuale e gruppale, ma possiamo aggiungere anche del contesto istituzionale e sociale, contengono il gruppo ed i suoi attori e aiutano l’osservatore a collocare il processo di ciò che accade nel gruppo, astenendosi, ma partecipando perché mosso da processi controtransferali.
Nell’osservatore si costruisce una geografia che accoglie e raccoglie le associazioni. Appunti di ciò che accade, parole che prendono forma attraverso i partecipanti, un testo fornito dall’ascolto di ciò che si produce lungo gli assi cartesiani interni: cosa accade al singolo? cosa si svolge per il gruppo e la sua dinamica? cosa viene attinto o risuona a livello istituzionale e sociale? Cosa accade nel controtransfert? Quali associazioni? Tutto viene annotato.
Il tema di apertura dal quale nascono le associazioni, i temi, i significanti che definiscono e fluiscono, le similitudini, cosa viene lasciato, cosa si contrappone, gli affetti che accompagnano i racconti.
Poi, grazie al taglio analitico offerto dalla scelta del gioco, il tema del gruppo che va formandosi, i nuovi e i vecchi significanti, gli scostamenti, le distorsioni, grazie alle quali si producono le trasformazioni e le costruzioni di senso.
Ma cosa scrive lo psicodrammatista di ciò che osserva?
All’inizio la traccia scritta raccoglie ciò che viene detto dai singoli partecipanti al gruppo, come inizia, quali parole, frasi, racconti emergono e a margine, impressioni, percezioni, risonanze e associazioni che risuonano nell’osservatore e nel gruppo
Gli appunti a margine servono per sottolineare, collegare, fare associazioni talora distoniche rispetto ad un piano logico…seguono un filo che si forma tra liberi spunti: saranno ripresi? Forse sì, forse no.
Scrivere favorisce la concentrazione, lo stare in silenzio ed in ascolto attento dei passaggi del gruppo cambia lo sguardo dell’osservatore, anche la scrittura cambia forma, perché visivamente, di pagina in pagina, si modifica l’aspetto del foglio su cui si scrive: sul quaderno iniziano a comparire riquadri, nuvolette, sottolineature con forme differenti, parole scritte grandi sembrano catturare il senso del gruppo, potremmo dire simili a pittogrammi.
Man mano che il discorso del gruppo procede ci si allontana dalle parole concrete, non più “report”, ma tracce di associazioni, concatenazioni che si mischiano ad immagini e collegamenti che tracciano un canovaccio, magari poco regolare. Quando si definisce la chiave di lettura, una delle tante, i giochi del gruppo, le associazioni dei partecipanti si vanno a ricomporre e creano un disegno, una rappresentazione con un proprio significato.
La scrittura può cambiare, diventare una sceneggiatura che, se è presente una coppia di terapeuti, viene scritta nel tempo in cui si svolge il gioco, se la conduzione è affidata ad un unico terapeuta, viene scritta a fine scena, con poche pennellate che saranno riprese a fine seduta.
Si può quindi dire che, le parole scritte inizialmente “alla lettera”, a partire da una dimensione conscia, dal racconto di ciò che è già definito e conosciuto nei pensieri di chi le esprime, virano verso la dimensione rappresentativa, muovendosi verso il simbolico.
La scrittura cerca di cogliere le discordanze, i cambiamenti, le distonie che si presentificano sulla scena lasciando intravedere altro. L’osservatore, grazie ai riverberi che, attraverso il movimento del gruppo, aprono faglie sulla rappresentazione di bisogni, desideri, temi personali e collettivi che si muovono dagli individui al gruppo e dal gruppo agli individui, cerca di mettere in parole scritte, visioni, immagini e sensazioni in continuo movimento.
Immagini dai molteplici significati che non appartengono più all’uno o all’altro, ma scaturiscono dalle gruppalità interne di ciascuno e rincorrono le dinamiche tra l’uno e l’altro, con-fondendosi in composizioni complesse.
Scrivere significa accettare di cogliere espressioni che attengono a piani diversi, che muovendosi tra il riportare gli eventi ed il percepire l’implicito, attivano molto anche l’osservatore.
Alla fine, resta uno scritto, quello che è stato possibile tracciare lì, in quel tempo, in quel gruppo.
Gli appunti sono “geroglifici”, tracce di linguaggi differenti ma co-presenti: parole, affetti, azioni. Sottolineature di elementi che si depositano lungo i binari di un setting interno che orienta, che verranno raccolti nella lettura come simboli di ciò che può germogliare, producendo cambiamento.
Come accade dopo la semina, quando il tempo del gruppo è finito e viene sancito il tempo del raccolto, si ripercorre il campo della seduta.
Si osservano le tracce e si nomina lungo gli assi del setting interno (con le coordinate cartesiane individuo, gruppo, istituzione e società), ciò che è diventato simbolo o che può germogliare, lasciando sul campo ciò che non è pronto per il raccolto, perché non tutto si può dire, a sancire l’incompletezza e la mancanza costitutiva di ogni atto.
Ci piace arricchire queste riflessioni con una citazione di Nadine Gordimer premio Nobel per la letteratura 1991, che in Scrivere ed essere così si è espressa:
«La parola vola attraverso lo spazio, rimbalzata dai satelliti, più vicina di quanto lo sia mai stata a quel cielo dal quale si credeva provenisse. Ma la sua trasformazione più significativa è accaduta molto tempo fa quando venne incisa per la prima volta su una tavoletta di pietra o tracciata su un papiro…passando da suono a rappresentazione […] scrivere è sempre e contemporaneamente un’esplorazione di sé e del mondo».
D’altro canto Goethe, giocando sul significato di logos, fa dire a Faust che «in principio era la parola o forse il pensiero o forse l’energia o forse ancora l’azione», un modo per sottolineare da quanti vertici ciascuno di noi possa trasmettere un’osservazione scritta.
Per questo motivo possiamo dire che, per scrivere un’osservazione è necessario esaminare il maggior numero possibile dei vertici su cui lo scritto tenta di soffermarsi.
Se la parola orale, infatti, si caratterizza per la prevalenza dell’udito e dell’ascolto, la parola scritta si avvale della vista e di un effetto distanziante rispetto all’evento, tanto che Platone nel Fedro, rievocando l’origine della scrittura, attribuita agli egizi ed in particolare al dio Toth, l’ibis sacro, ne critica l’utilizzo in luogo della narrazione orale:
«Ai discepoli tu procuri una parvenza di sapienza, non la vera sapienza: divenuti infatti grazie a te ascoltatori di molte cose senza bisogno di insegnamento, crederanno di essere molto dotti, mentre saranno per lo più ignoranti e difficili da trattare, in quanto divenuti saccenti invece che sapienti»
Come non pensare a Google ed ai tuttologi di oggi?
Rispetto allo psicodramma analitico queste considerazioni richiamano la possibilità che l’osservazione a fine seduta non si avvalga di alcun testo scritto, opzione peraltro talora prescelta nel caso di conduzione di gruppo senza coterapeuta.
In ogni caso evidenziano una distanza tra la scrittura del testo e la lettura in gruppo che conclude l’osservazione, distanza che dovrebbe consentire all’analista una formulazione di pensiero non saturato da interpretazioni preconcette, analista senza memoria e senza desiderio alla Bion.
Tuttavia, all’interno di questa premessa generale condivisa, ognuno approccia la scrittura con modalità soggettive differenti.
Accade così ad esempio che qualcuno, quando rivede le sue osservazioni per riprendere eventi accaduti, si ritrovi a leggere un testo non organico, in cui le parole dei membri del gruppo sono intrecciate senza distinzione con i personali commenti e associazioni, piuttosto che con immagini, mentre le scene giocate vengono denominate con numeri a fianco per evidenziarle, quasi come isole che spuntano dall’oceano di parole più indistinte.
Un testo comprensibile quasi solo a chi scrive, in apparenza senza un senso compiuto, un ammasso di elementi beta non ancora trasformati in alfa.
Evacuazioni proto-emotive e sensoriali che il gruppo immette in seduta, identificazioni proiettive che richiedono una funzione di rêverie della mente analitica dell’osservatore per essere trasformati in elementi alfa e dar luogo ad interpretazioni narrative.
Una modalità di scrivere l’osservazione forse correlata a differenti esperienze di gruppi di psicodramma: con pazienti psicotici, ove contenuti bizzarri, oggetti parziali, brani di racconto reali mescolati a trame deliranti costituiscono un contenuto amorfo, cui tuttavia le scene giocate danno forma, consentendo una narrazione condivisa e comprensibile dal gruppo, piuttosto che gruppi con minori, pazienti nevrotici, attività formative, supervisioni.
Una ulteriore riflessione potrebbe riguardare la posizione dell’osservatore, un tempo esterno al cerchio gruppale, ora in linea con gli altri membri del gruppo che dal punto di vista spaziale rimanda ad una presenza interna al campo analitico che si riflette nel modo di scrivere e di descrivere.
Delle tante definizioni del concetto di campo analitico ci sembra particolarmente attinente allo psicodramma la descrizione di Antonino Ferro nel libro Evitare le emozioni, vivere le emozioni: «Il campo ha dunque una natura oscillatoria tra continua apertura di senso (capacità negativa, Bion 1962) e ineluttabile chiusura di senso e rinuncia a tutte le storie possibili a favore di quella che maggiormente urge di essere raccontata (fatto prescelto, Bion 1963)».
L’osservatore, immerso come l’animatore nel campo analitico, deve poter utilizzare la propria capacità di rêverie per promuovere le narrazioni che alfabetizzano le proto-emozioni del gruppo e che si condensano nella scena messa in gioco, l’emergente anche a livello di scrittura.
Se si ripensa al processo evolutivo dalla pre-scrittura (disegni) ai segni della scrittura vera e propria e possibile ritrovare, come in Bion, il pittogramma, una rappresentazione di figure che hanno un valore simbolico ed indicano dei concetti, come ad esempio il geroglifico egiziano.
L’assunzione di senso, attraverso il pittogramma, consente la trasformazione in derivati narrativi e la costruzione del pensiero, pertanto la comunicabilità delle storie dei soggetti e dei gruppi.
È significativo che il transito dal disegno, che rappresentava il reale, al segno che consente il passaggio al simbolico, avviene storicamente utilizzando un sistema contenitore/contenuto: nel V millennio a.C. in Mesopotamia vi erano recipienti di terracotta che fungevano da contenitori dei token, cioè gettoni di argilla con figure rappresentanti oggetti diversi da inventariare per funzioni amministrative.
Sigillati i recipienti, per riconoscerne il contenuto dall’esterno senza aprirli, venivano incise sul vaso figure corrispondenti, vale a dire la rappresentazione simbolica di ciò che non è più visibile, passo necessario verso la scrittura, giacché successivamente i contenitori/contenuti si trasformeranno in tavolette di argilla con le indicazioni simboliche dei concetti.
Interessante notare che, come per l’origine della scrittura, il concetto contenitore/contenuto da Bion in poi potrebbe essere considerato la condizione embrionale della vita mentale, poiché’ si tratta di una relazione dinamica di reciprocità: un contenuto psichico ( emozioni, percezioni sensoriali) per potersi trasformare in pensiero e rappresentazione e dunque in parola, necessita di un contenitore attivo e di un processo di alfabetizzazione, garantito da due capacità, sia essa la relazione madre/ bambino, analista/paziente o analista/gruppo, vale a dire la rêverie e la capacità negativa.
Due funzioni ben descritte da Grotstein, la prima che emerge dal desiderio dell’altro e consente di assorbire ansie e paure evacuate nella relazione, la seconda legata alla competenza emotiva nel tollerare il dubbio e l’incertezza, accettare di non capire subito, senza disorganizzarsi, aspettando che prenda forma un significato.
Sovente il materiale scritto scarsamente definito, quasi un flusso narrativo ancora senza forma, consente di limitare le operazioni mentali di decostruzione nel cogliere gli elementi narrativi e le oscillazioni emotive del e nel gruppo e di avvicinarci alla posizione più libera da razionalizzazioni e da interpretazioni saturanti.
Concluderemmo queste considerazioni con le parole di Alda Merini:
«Anche se la finestra è la stessa, non tutti quelli che si affacciano vedono le stesse cose. La veduta dipende dallo sguardo».
Parole che aprono ad altre riflessioni…
BIBLIOGRAFIA
BION W.R. (1962), Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma.
– (1970), Attenzione e interpretazione, Armando, Roma.
– (1984), Riflettendoci meglio, Astrolabio, Roma.
CORRAO F. (1993 a), Duale – gruppale, in Orme, Contributi alla psicoanalisi di gruppo, Raffaello Cortina, Milano, 1998.
FERRO A. (2007), Evitare le emozioni, vivere le emozioni, Raffaello Cortina, Milano.
GOETHE J.W. (2004), Faust, 2004, Garzanti, Milano.
GORDIMER N. (1996), Scrivere ed essere, Feltrinelli, Milano.
GROTSTEIN J. (2011), Il modello kleiniano bioniano, Raffaello Cortina, Milano.
MERINI A. (2009), Il sogno dell’ombra, Mondadori, Milano
PLATONE (2006), Fedro, Rizzoli, Milano