10 NATALIA CAMPANA Nuovamente insieme

Sono al termine della mia carriera, iniziata negli anni settanta. Lavoro a ritmi leggeri, lasciandomi molto tempo libero per studiare, leggere, incontrare, poco, alcuni buoni amici.

Con sorpresa osservo un fenomeno: alcuni pazienti con i quali abbiamo fatto un lungo percorso analitico che ha raggiunto buoni risultati, sono tornati a cercarmi perché nella loro vita si sono manifestati eventi difficili, emotivamente impegnativi e capaci di far traballare equilibri con fatica raggiunti.

È difficile parlarne, raccontare le loro nuove vicende perché con facilità potrebbero essere riconosciuti, quindi devo cercare di “non dire” pur se mi interessa parlare di questo fenomeno che ho chiamato nuovamente insieme.

Generalmente, quando un percorso analitico finisce, salutiamo i nostri pazienti con affetto, talvolta con piccoli regali, con la libertà di poterci rivedere ma anche lasciare per sempre.

Un mio piccolo paziente, dopo una lunga e faticosa analisi mi portò in dono un nido di cristallo con due uccellini: eravamo noi due in procinto di lasciare il nido. La commozione fu molto intensa.

(Ho avuto occasione di vedere il mio giovane paziente, diventato un uomo maturo, capace di vivere situazioni emotivamente impegnative e anche divertenti).

Non sono situazioni caratterizzate da aspetti comuni: alcune difficoltà hanno a che fare con la crescita dei propri figli, altre con la comparsa di squilibri psichici seri (fenomeni deliranti), o difficoltà lavorative causate da trasferimenti in altra sede.

 

Mi soffermerei su due aspetti:

– Le difficoltà che si presentano sono di grande intensità, e richiamano il desiderio di avere un compagno di strada con il quale condividere la nuova difficoltà.

– Il rapporto con l’analista “storico” ha una qualità che rende la relazione speciale. Potrei usare quello che Natalia Ginzburg chiama lessico familiare”. Con un nuovo terapeuta si dovrebbe ricominciare da capo, in questi casi si va avanti da dove ci si era fermati. Si esplorano aree che sono rimaste in ombra e che richiedono di essere sviluppate e forse finalmente dissolte.

– Potremmo dire che il tempo del lavoro svolto ha consentito di creare una relazione importante nella vita dei pazienti. È, certo quando la relazione si rivela una buona relazione, è una relazione che rimane significativa e talvolta anche affettivamente molto significativa. (Se penso alla mia esperienza analitica personale posso con certezza dire che il mio cambiamento è stato molto importante).

– La vita si svolge lontano dal proprio terapeuta storico, ma il dialogo interno, con il terapeuta interiorizzato, prosegue e si mantiene nel tempo. Tuttavia non sempre è sufficiente questo dialogo. Si rivela necessario riattivare nel presente l’analista interiorizzato e proseguire la relazione affrontando nuovi eventi della vita o anche esplorare con maggiore intensità aspetti che non si è avuto il tempo di approfondire sia per disattenzione o anche immaturità dell’analista.

– La vita nel suo scorrere propone situazioni, eventi spesso ingarbugliati, talvolta confusi, che richiedono sforzi emotivi e affettivi intensi. Penso a problemi di identità dei figli (omosessualità, cambiamenti di genere), relazioni extraconiugali del partner, perdite di posti di lavoro, lutti drammatici. La vicinanza di un analista con cui si è già sperimentata una vicinanza affettivo emotiva significativa, fa tornare il desiderio di riattivare di nuovo quella relazione che non si è mai spenta.

 

Racconterò di una paziente – Elena – che mi cerca dopo oltre venticinque anni.

Avevo lavorato con lei per oltre 10 anni, dai 25 ai 35, a tre sedute alla settimana.

Era stato un lavoro molto impegnativo soprattutto per la presenza di aspetti deliranti e di una vita difficile trascorsa con un padre violento e paranoico che aveva preteso da lei e il fratello anche la collaborazine nella gestione di un’azienda di famiglia.

Avevamo concluso il lavoro riuscendo a costruire una vita abbastanza armoniosa: si era laureata, aveva fatto una tesi sperimentale che le aveva aperto la strada ad una borsa di studio, si era sposata, aveva avuto un figlio ed era stata brava a superare altre serie difficoltà familiari.

Quando mi cerca, siamo in piena pandemia da Covid e ci accordiamo per risentirci dopo il periodo di isolamento.

La ripresa mi sorprende: il suo aspetto fisico è molto gradevole, non mostra segni di invecchiamento, è anche sorridente e, pur descrivendosi molto in difficolta, un po’ depressa, non ne mostra i segni. Tuttavia quando si descrive, riesce con difficoltà e un senso di vergogna, a raccontare cosa le stia succedendo. Mi colpisce il fatto che adotti espressioni generiche come “quella cosa”, “le cose” e sono costretta a fermarla e a fare molte domande per riuscire a capire cosa stia realmente succedendo. Si è aggrovigliata su una situazione in cui soffre molto per l’angoscia di contagiare tutte le persone con cui ha rapporti con una malattia conseguente a infezione intestinale. È un pensiero delirante sostenuto da teorie scientifiche deboli e incerte. Nei mesi di lavoro che seguono questi primi colloqui, possiamo riprendere temi non affrontati in profondità nel nostro, pur lungo lavoro precedente. In particolare la contrapposizione colpa/onnipotenza rendendoci conto che un aspetto già noto – il desiderio di essere una persona buona, generosa e brava – era strettamente collegato al teme colpa/onnipotenza.

 

Riporto una delle ultime sedute

Come sempre è molto riflessiva.

Stiamo ancora prestando attenzione ai suoi sensi di colpa a cui associo il senso di onnipotenza. Dice che non si rende conto però racconta di come reagisce se stanno male i suoi amici o anche persone che conosce. Vorrebbe subito intervenire, dare informazioni, proporre soluzioni e cure perché: «Sa, ho le competenze».

Descrive la patologia di un suo amico, uno di quelli storici. Ha un addome prominente per il quale soffre molto, ma è anche molto depresso. «Però -dice con uno sguardo deciso, molto sicuro e determinato – io lo posso guarire». Vuole proporgli un farmaco omeopatico che ha usato anche per sua figlia.

Lo sguardo, il tono della voce, mi colpiscono molto. Non dico nulla. Continua a parlare di tutto quello che conosce, che si sente in dovere di fare per far star bene gli altri, non solo i suoi amici, ma anche persone che appena conosce. Quando trovo un buon varco nella sua comunicazione, la fermo e le dico:

A.: «Si è resa conto di come ha detto: io lo posso guarire?».

P.: «No, perché?».

A.: «Il suo sguardo deciso, determinato, la voce secca, sicura, fanno pensare al suo essere certa di poter salvare il suo caro amico, Mi ha detto però che il suo amico ha problemi di alcolismo, che beve …».

P.: «È vero, io non me ne sono resa conto di come ho detto la frase, e neppure so tante altre cose della sua vita».

A.: «Ma la sua affermazione – io lo posso guarire – ci fa pensare ad un suo aspetto onnipotente che si contrappone al senso di colpa. Lei pensa di averlo contagiato con gli ossiuri, che la sua pancia gonfia ne sia una conseguenza e allora lo deve salvare e guarire. E lo può guarire».

Ci soffermiamo su questo suo senso di colpa, come abbia sempre pensato, e ancora oggi pensi, che è sempre colpa sua tutto quello che accade, usa il modo di fare di suo padre che le attribuiva sempre la colpa di tutto ciò che accadeva e lei ci credeva. Non riusciva a rendersi conto del pensiero folle di suo padre e doveva sempre – e ancora oggi – deve mettervi riparo.

Ci stiamo rendendo conto che in questa nuova tranche di analisi, siamo entrambe più capaci di rimanere ferme e approfondire temi in precedenza poco sviluppati: essere sempre brava, avere sempre colpa, dovere mettere sempre riparo in una condizione di vita quasi fuori tempo/spazio. Ora possiamo soffermarci, avere forza e solidità per andare più in profondità. È una bella esperienza anche per me, devo ringraziare i miei vecchi/ nuovi pazienti per quello che mi stanno ancora insegnando anche se sono alla fine della mia carriera.

 

Natalia Campana

Psicologa psicoterapeuta, associata alla SIPP (Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica) fino al 2015, Psicologa dell’ASL di Rimini fino al 1983, cofondatrice della Comunità terapeutica I Tigli di Rimini per bambini psicotici e responsabile fino al 1984, Psicoterapeuta nel Servizio di Psicoterapia Infantile della stessa ASL, libera professione dal 1984.

image_print

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *