La definizione di “tempo” è il soggetto e la vittima di una trasformazione essenziale nel corso degli ultimi due anni e mezzo di vita dell’umanità. Mutazione che non è esagerato definire epocale e che costringe a ridefinire anche il tempo della cura. L’evocazione dell’esistenza trasformata e frastornata da un cambiamento traumatico i cui esiti difficilmente possono essere raccolti e riassunti da una narrazione credibile. Il profilo psicologico, conscio e inconscio, di sette miliardi di essere umani, nel big bang che verosimilmente porta la data d’inizio del 7 marzo 2020, con prodromi e radici ovviamente più lontane, nel tempo e nello spazio, è entrato nel tunnel di una terra di nessuno, di stordimento, di incredulità prima, di presa d’atto della realtà poi. Con l’accettazione di mascherine, green pass, distinzione tra sì vax, ni vax e no vax e quello che per un lapsus lessicale è stato chiamato il distanziamento sociale. Evidenziando nella sua imprecisione autoriale quello che voleva celare: ulteriori differenze di classe, sviluppo esponenziale delle diseguaglianze anche attraverso un contagio e la malattia.
Quanto non è mai successo agli altri 110 miliardi di esservi viventi non contemporanei dall’inizio della storia dell’umanità.
Ci limitiamo a registrare quanto successo in Italia attraverso la lettura delle più rilevanti trasformazioni del tempo in un tunnel dal quale non siamo ancora completamente usciti.
Constatiamo una trasgressione e un tradimento del linguaggio almeno pari in quello che delinea l’antagonismo più che l’assonanza delle parole sociale e social. Una “e” non basta per rimetterle sulla stessa linea di galleggiamento. Forse social è il contrario di sociale, bisogna accettare il beneficio del dubbio. Con il disagio relativo di una buona parte d’Italia che non riesce più a curarsi, che mette da parte operazioni, terapie, lasciando il diritto di precedenza alla pandemia; con il disagio assoluto di un’Africa continentale in cui i rimedi (i vaccini) non arrivano e che comunque riesce parzialmente a salvarsi dalla strage per anticorpi naturali, per il clima e la giovane età media dei suoi abitanti. Mentre il corpo si ammalava e, attorno a noi una pletora di amici/parenti/conoscenti ci raccontava il suo particolare vissuto, la psiche intraprendeva una sua discesa in un percorso insolitamente nuovo. Cure che dovrebbero viaggiare su binari intersecanti quella sanitaria e quella psichica/psicanalitica anche se appare una pretesa iperurania immaginare anche lontanamente una sensibilità così spiccata e vicina alla problematica del Servizio Sanitario Nazionale.
Così il tempo della cura, perlomeno quella rigidamente sanitaria, si raccorda agli eventi del 1918-1919 quando la spagnola piombò come un fulmine a cielo non sereno, immediatamente dopo la ricomposizione degli equilibri susseguenti al primo conflitto mondiale. Peraltro, a differenza, di questo suo drammatico ripetersi, condensata in due anni. La sessione attuale è infatti ancora dolorosamente aperta. Scansione diversa a distanza di oltre un secolo.
Nel nostro caso i bilanci sono prematuri e il conteggio di 15 milioni di morti del tutto provvisorio e deperibile. Vogliamo provare a far capire come sia cambiato il concetto del tempo ai nostri giorni perché solo capendo la trasformazione potremo adeguare la valutazione del tempo nella cura. Cammini e analisi paralleli per riversare quanto appreso nel tema fondamentale evocato
Una riconversione essenziale e a tutto campo, condotta con le lenti dell’antropologia, della sociologia, dell’empirismo sensibile per quello che succede nel mondo. Tempo oggettivo, tempo soggettivo, percezioni e differenze. Ricordando che l’inconscio non ha tempo mentre la coscienza non può prescindere dalle coordinate spazio-temporali. Descrivendo tanti universi paralleli sul cambiamento del concetto di tempo potremo travasare le nuova forma nel campo aperto e specifico del tempo della cura. Con una maieutica esperienziale di notevole efficacia futura. La percezione del tempo sospeso è incombente nel nostro vissuto. Una parentesi eccezionale dalla quale vorremo uscire al più preteso pur immaginando che la normalità non potrà più essere quella di una volta. E che il suo ripristino non è neanche auspicabile visto che non vivevamo nel “migliore dei mondi possibili”.
Dunque ci immergiamo nel tema parlando anzitutto di un fenomeno che si sta manifestando in questi mesi e con una profonda influenza sul tessuto strutturale e produttivo della società italiana. Un gran numero di connazionali, giovani o anziani che siano, rifiutano il lavoro. Non innestiamo questa constatazione nella stantia polemica contro il reddito di cittadinanza, individuato, con pregiudizio evidentemente di parte, come rifugio anti-stress per asociali o privilegiati di ritorno.
Il rifiuto è sostanziale, quasi di massa, perché riguarda centinaia di migliaia di persone ed è una risposta imprevedibile ancorché globalizzata perché trova eco sincronica negli Stati Uniti dove le rinunce si contano addirittura a milioni. Qui lo scenario non è quello del 2008 quando i colletti bianchi della Lehmann & Brothers da un’ora all’altra sloggiavano dai loro uffici con sguardi imbarazzati e smilze valigette sotto l’occhio dei fotografi che immortalavano una transizione economica irripetibile. Qui non ci sono ondate di forzate licenziamenti ma una sorta di muta protesta collettiva di massa.
C’è scelta e non imposizione. La pandemia ha infatti provocato una revisione degli stili di vita e una sorta di transfer individuale, di auto-analisi esistenziale che ha messo in crisi i valori tradizionali. Quindi quel lavoro che si trovava al centro del quadro di riferimento tradizionale in altri secoli per Weber, Marx, Keynes (citiamo alla rinfusa per evidenziare poli diversi ma omogeneamente protesi su questo oggetto di indagine) perde di sostanza e di indispensabilità nel regime precario dell’incertezza, della brevità, del qui e ora, dell’oggi senza domani. Mettendo anche in crisi il simulacro della crescita. Quante errate proiezioni sono state sviluppare per indicare il Pil del futuro per anni a venire mentre attorno guerre, distruzioni, sanzioni, sminavano l’ottimismo imperante?
Del resto quando i contratti di formazione propongono rimborsi spese da 400 euro al mese per un part time e un orario di lavoro da full time quale risposta attendersi? Quando c’è una forte reazione istituzionale all’ipotesi di un salario minimo, opzione richiesta dall’Europa, cosa possono auspicare i milioni di persone senza protezione sociale?
Un fenomeno sociale preoccupante e non ancora adeguatamente valutato dal Governo (dai Governi del mondo) oltre che non sufficientemente indagato dalla sociologia. L’atteggiamento del rifiuto del lavoro fa apparire obsoleta ogni passata richiesta migliorista delle condizioni di vita dei lavoratori (la pratica sindacale, la riduzione dell’orario alle mai raggiunte in Italia 35 ore, gli integrativi aziendali) e costringe l’investigatore sul campo a riconsiderare la società, gli obiettivi individuali, la destinazione finale di un progetto di Paese affidato a questa sorta di penuria interiorizzata. Tutti i discorsi di crescita, di Pil, di inflazione, di destino collettivo, vanno rivisti alla luce di questa intenzione che è diventata quasi inclinazione di massa e non di moda. Il mondo cambia e la percezione di un futuro incerto riscatta le ragioni dell’esistenza rispetto alla priorità del lavoro. Come se la Costituzione che insedia il lavoro nell’articolo 1 avesse bisogno di un restyling legato ai tempi. Parliamo del primo articolo scaturito dalla dialettica del dopoguerra, non certo di un elemento accessorio dell’impianto costituzionale pattuito dai padri fondatori della Repubblica.
Chi fa queste scelte radicali di rifiuto del lavoro (escludiamo ovviamente chi è coperto dalla rendita di famiglia) avverte una precarietà esistenziale insostenibile. Legge le statistiche sull’aspettativa di vita, in costante calo. E constata invece il sempre più difficile approdo a una pensione per la quale viene richiesta un’età sempre più avanzata e un numero di anni di servizio che prosciugano gran parte della vita di un uomo o di una donna.
Il nuovo mito della flessibilità (la cui contropartita è lavoro precario, part time, lavoro nero) si è introiettata nell’immaginario iconico di una generazione come reazione istintiva al difficile dedalo dell’inserimento. Non si quanto mainstream sia immerso in questa visione narrativa raccontata sui giornali. Perché la realtà del lavoro rimane dura e il mercato quasi inaccessibile. Però è come se la fluidità ormai invalsa nella definizione dei generi sessuali si fosse ramificata per partogenesi anche in questo comparto della vita quotidiana.
Il concetto di posto fisso sembra una visione del secolo scorso o un miraggio e tra questi due poli estremi e in contrasto ballonzola il futuro. L’incatenamento a otto ore di lavoro sedentario è un’immagine scossa dal’esperienza degli start upper. Frasi come «Solo cambiare ci consente di crescere» sembrano quasi slogan generazionali/pubblicitari anche se ci si protende su un abisso in cui il concetto di lavoro ha subito un’autentica destabilizzazione lessicale e funzionale. Probabilmente il trauma per la problematica ricerca del posto di lavoro per i padri si è riflessa sulle scelte e le destinazioni cercate dai figli. «Vogliamo prenderci il nostro tempo, il tempo della vita dopo tutte le limitazioni del lockdown». In definitiva qualcosa di più propositivo e palpabilmente concreto della deriva giovanile degli aperitivi e degli shottini. E se la laurea è l’aperitivo in questo Paese il pasto principale (metaforicamente il posto di lavoro) non si concretizza quasi mai. Ci si affaccia in una nuova frontiera ancora tutta da scoprire. Si tratta di vedere quanto questa aspirazione sarò colmata dalla risposta dalla società e dalla capillarità della ridefinizione del mondo del lavoro.
Governo, partiti e sindacati rispondono a uno schema giudicato vecchio. Ma sapranno cambiare e diventare permeabili a questa nuova richiesta? Inutile sottolineare che, anche in questo caso, è la definizione del tempo del lavoro il tema sotteso. Ha contribuito alla nuova definizione del lavoro e dunque alla riparametrazione del concetto di tempo anche la discussa pratica dello smart working. Scorciatoia di uno stigma (vedi le intemerate del Ministro Brunetta) per cui il lavoratore che si esprime da casa è un mezzo fannullone poco produttivo. In realtà la pratica e l’esperienza sul campo mediamente mostrano il contrario. Cioè sul posto di lavoro, anche tramite la socializzazione (la chiacchiera tra colleghi, la rituale capatina alla macchina del caffè, una sorta di processione laica) i tempi tecnici di dispersione dall’attività lavorativa vera e propria sono nettamente più incidenti. Con lo smart working il lavoratore è più concentrato sul qui e ora con un datore di lavoro che gli chiede continuamente conto dei risultati di giornata e ne controlla gli orari anche in assenza di una bollinatura rigorosa. E a tal proposito sono frequenti gli sconfinamenti e gli aggravi che portano a un prolungamento di attività rispetto a quanto sarebbe richiesto in presenza. Dunque in soldoni lo smart working, salvo rare eccezioni, garantisce una migliore produttività di sistema nel pubblico e nel privato. Lo smart working però a lungo andare incide evidentemente anche sulla logistica. Perché piccole aziende, soprattutto di marchi informatici o appartenenti all’area dei servizi, a lungo o a breve andare, possono pensare di risparmiare sulle spese aziendali liberandosi delle abituali sedi naturali affittate se non addirittura di proprietà. Contribuendo in un certo modo alla desertificazione dei luoghi di lavoro. Così concetti e piccole scienze come prossemica, domotica e gentrificazione, razionalizzazione urbanistica, non sono estranei ai flussi del diverso pensiero attuale.
E vogliamo anche considerare anche il tempo della scuola e nella scuola. Due anni e mezzo di regime particolare hanno sconvolto la didattica e, ovviamente, aumentato il gap di conoscenza degli studenti italiani rispetto ai loro pari età di avanzati paesi occidentali. Questo deficit purtroppo non è al centro delle preoccupazioni di una classe dirigente che si è trovata a discutere sull’utilità dei nuovi banchi distanziati più che sul modesto know how di una generazione che, tra l’altro, dovrebbe riuscire a cambiare il disastrato mondo lasciato in eredità dai padri. Qui evidentemente le lezioni sulle piattaforme telematiche hanno aggravato una crisi che era già latente prima dello scoppio della pandemia. E in questo caso non c’è condono o prescrizione che intervenga a sanare una condizione ormai quasi tragicamente irreversibile.
Perché, come già sosteneva lo scomparso linguista De Mauro, chi ha difficoltà a leggere anche un testo semplice è un analfabeta funzionale. Il possesso di un linguaggio e di una scrittura funzionale minima è un requisito minimo per accedere alla società civile. Pensiamo solo alla difficoltà che hanno incontrato recentemente i concorrenti in un concorso giuridico. Il presidente di Cassazione Pietro Curzio, durante il discorso inaugurale dell’anno giudiziario, ha rilevato che i giovani aspiranti magistrati non sanno riassumere una sentenza. La modalità del riassunto è rivelatrice di mancanze di fondo di grande problematicità. Siamo davanti a un default quasi prescolare per soggetti invece che hanno un’età che indicherebbe un imminente ingresso nel mondo del lavoro.
Arrestati davanti a un tema, terrorizzati rispetto a un impianto basico di facile comprensibilità. L’affaccio sulla complessità è indispensabile. Purtroppo la semplificazione, la volgarizzazione, il livellamento in base sono state, a torto, considerate un esercizio di democrazia. Con i risultati che sono davanti agli occhi di tutti, oggi. Ecco, il recupero del tema della complessità sviluppabile in un tempo medio sarebbe un importante chiave di recupero per larghe fasce delle giovani generazioni. Senza pretendere che l’alfabetizzazione passi nostalgicamente per strumenti del passato, come il leggendario “Non è mai troppo tardi”, via semplificata alla comprensione del maestro Manzi. La lettura di un quotidiano una volta era propedeutica all’utilizzo di un lessico sufficiente, contemplando anche l’adozione delle parole nuove provenienti dal new journalism e certo più corrette e meno mainstream di quanto circoli sui social network. Purtroppo questa pratica è n costante diminuzione se si pensa che il più diffuso quotidiano italiano vende circa un terzo delle sue cifre più importanti di un tempo. Su un qualunque mezzo di trasporto oggi rarissimo notare un adolescente alle prese con una qualsivoglia lettura (quotidiano o libro), al contrario della frequente reiterata forma di dipendenza dallo smartphone, chiave d’accesso all’universo virtuale, ahimè poco prodigo di progressi in questo campo esperienziale.
Come termometro culturale basterà pescare nel ridotto universo lessicale degli adolescenti, limitato al massimo a poche centinaia di vocaboli, per percepire il senso della perdita e della frustrazione rispetto a ben diverso possibile inespresso potenziale.
Il concetto di tempo poi sembra strozzato da un orgasmico senso della fine. In occidente, mondo antico, questa percezione di un conto alla rovescia è sempre più marcato per l’età media più alta dei propri abitanti. Per un pensare umanistico più sviluppato, consapevole e ipercritico. La sensazione è acuita dalla considerazione del cambiamento climatico che non è più una preoccupazione ma una sorta di inquietante spada di Damocle sul pianeta. Il saggista ungherese Kermode ha scritto pagine illuminanti in tal senso.
Nella semifinale del torneo singolare maschile di Parigi, sui campi del Roland Garros, ha fatto irruzione una giovane donna che si è incollata alla rete indossando una maglietta con la scritta in inglese «Ci restano 1028 giorni». Con chiaro riferimento all’ora zero in cui pagheremo i conti del cambiamento climatico. L’opzione massima consentita, sancita dai grandi compromessi internazionali, dopo la conferenza di Kyoto, è il moderato aumento di 1,5 gradi della temperatura. Una conclusione al ribasso decisamente insufficiente. Estati sempre più calde, fino a diventare insopportabili, strozzamento delle stagioni (ormai ridotte a due, convalidando il vecchio adagio «Non ci sono più le stagioni di una volta»), scioglimento dei ghiacci, siccità, per una fine già nota. Dunque il 2050 sembra, con una visione già abbastanza ottimistica, un traguardo-capolinea inevitabile per l’umanità e la sua remota possibilità di sopravvivenza.
Con i grandi della terra che pensano agli armamenti, uniformandosi all’utilizzo del 2% del Pil sui bilanci nazionali, come richiesto dagli Stati Uniti, grandi tessitore del mondo, con le ragioni dell’economia della crescita che congiurano contro un reale cambiamento. Qui l’ipocrisia istituzionale sembra il paravento di un lento precipitare verso l’inevitabile.
Un Titanic globalizzato destinato a schiantarsi contro un iceberg nonostante che in questo caso non manchino eloquenti segnali di imminente traumatico scontro. Il combinato disposto di sanzioni, il rallentamento dell’attività produttiva agricola, gli alti e bassi del Covid, si rifletteno su uno squilibrio sempre più vistoso della piramide sociale a cui non sono estranei circa 80 conflitti bellici in atto del mondo. La guerra in Ucraina di queste perturbazioni è solo la punta manifesta avvertita in Europa. Overdose di tensioni che non possono che avere un riflesso diretto sulla psiche umana e sulla necessità di revisione della cura e dei suoi tempi. Evidenziato il problema con il senso del limite lasciamo agli specialisti la discesa nell’approfondimento per una nuova riscrittura della pratica terapeutica. Le sue più che urgenti necessità sono il pane quotidiano della nuova scienza empirica. La riscrittura di una nuova storia è affidata alle giovani generazioni che s’inoltrano nella vita senza paracadute. La responsabilità del futuro è affidata alle loro azioni e allora capacità di iniziativa, ricordando la particolarità specifica dell’Italia, un Paese capace di unità nell’emergenza ma che non ha mai affrontato la scossa di una rivoluzione, a differenza di Francia e Russia.
Daniele Poto
Giornalista e autore di testate giornalistiche, radio, televisione. Scrittore e autore teatrale, vincitore di numerosi premi