FABIOLA FORTUNA, ANNA LISA SCEPI, CLAUDIA PARLANTI, NICOLETTA BRANCALEONI
Scrivere le parole dell’altro (o dell’Altro?)
«La parola detta ha forma di chiodo
la sua struttura trafigge» 1.
No, queste parole non appartengono a una citazione misteriosa di Lacan: sono tratte da un poema sumerico risalente alla metà del terzo millennio avanti Cristo.
Il capo del Pantheon sumerico, Enlil recita alla sposa Sud:
«L’arte della scrittura, le tavolette decorate con la scrittura, lo stilo, la superficie della tavoletta […]
La “testa del chiodo”, la canna mensoria, la definizione dei confini […] sono appropriatamente nelle tue mani […]» 2.
Che il dio Enlil deponesse nelle mani della sua consorte la scrittura quale dono nuziale rappresentava il segno che per gli antichi abitanti della Mesopotamia l’origine della civiltà coincideva con l’invenzione della scrittura e ci dice anche di quanto fossero fieri della loro rivoluzione simbolica.
Enmerkar e il signore di Aratta è un poema epico risalente allo stesso periodo (siamo intorno al 2500 a.C.) in cui si racconta l’origine della prima scrittura del mondo, una scrittura che proviene dal legame fonema – simbolo e non più da pittogrammi.
L’impossibilità da parte di un messaggero di rendere con efficacia, attraverso la voce, le richieste di due sovrani, fa sì che il re sumero Enmerkar consegni all’inviato un segno tangibile: una tavoletta di argilla scrivendoci sopra i suoi voleri, che, non si sa come, vengono letti e compresi dall’avversario, il signore di Aratta. Ciò non basta ad impedire la guerra (ma sappiamo che questa è un’altra questione …) che alla fine viene vinta dal potente Enmerkar.
Una splendida narrazione che sta a dirci come il “nuovo” mezzo di comunicazione sia stato una necessaria invenzione: la scrittura acquisisce in termini epici la sua funzione, quella della diplomazia.
«Enmerkar, il figlio del dio Utu, mi ha consegnato una tavoletta di argilla;
o signore di Aratta, esamina la tavoletta, apprendi il cuore della sua parola;
ordinami ciò che debbo riferire riguardo al messaggio ricevuto»
(Pettinato G., I Sumeri, Rusconi, Milano, 1992, p.40)
Le parole incise con i chiodi enunciano un pensiero e così la scrittura pretende un nuovo atteggiamento della mente umana e dei suoi organi percettivi. C’è un passaggio dall’orecchio quale l’organo di percezione privilegiato, all’occhio, allo sguardo (che sappiamo tra l’altro quale importanza rivesta per la teoria lacaniana). Colui che prima aveva, necessariamente, un interlocutore, ora si trova da solo a penetrare in un segno che è parola.
«La parola detta ha forma di chiodo», come leggiamo nella citazione iniziale, sa trafiggere come un’arma e penetra nella mente di chi legge quei segni.
Ed ancora: «Apprendi il cuore della sua parola», rivelazione di quanto fin da allora gli scribi fossero consapevoli della forza della scrittura, della forza delle “nuove lettere”.
Perché partire così da lontano? Perché ci sembra importante entrare nel cuore della parola, come dicono i Sumeri, provare a dare un senso alla scrittura in quanto invenzione umana. Perché dopo innumerevoli ore di studio individuali e collettive, tante discussioni e confronti pensiamo, con Lacan, che «la psicoanalisi è ben altro che degli scritti» (Lacan J., Il sintomo e il fenomeno psicosomatico, in «La Psicoanalisi», p.13) e, tuttavia, lo scrivere consente, nella pratica dello psicodramma, di effettuare un atto analitico determinante qual è l’osservazione.
Praxis e senso dell’osservazione
L’osservazione può essere intesa come un processo, quale dimensione che si coniuga con l’atemporalità dell’inconscio, sottesa da una modalità di scoperta e ricerca continua. Una dimensione che si interroga attraverso la clinica per aprire prospettive a coloro che hanno “domandato” (E. B. Croce, Funzione analitica e formazione alla psicoterapia di gruppo. Prospettive dello psicodramma analitico e supervisione, Borla, Roma, 19..).
L’osservatore coglie il “processo” della catena dei significanti emersi nella seduta e quindi apre, al soggetto, sia la possibilità di lasciare la posizione da cui è nata la rappresentazione, sia la possibilità di abitare una posizione che determini uno sguardo diverso. In questo modo «[…] si può comprendere, almeno in parte, l’assente sotto il presente e cioè quello che si cela dietro l’immagine visiva o auditiva percepibile attualmente: desideri repressi e fantasmi antichi» (Croce, ibidem, p.38).
L’osservatore individua le articolazioni tra una certa realtà e l’apparenza, tra ciò che è nascosto e l’evidenza, tra ciò che è manifesto e la latenza, nell’hic et nunc dei discorsi di seduta. Si trova in un terzo tempo, in cui, dopo l’atto del dire e quello del rappresentare, declina una delle funzioni proprie attraverso la lettura di un testo il cui senso scaturisce dalla trasposizione al livello simbolico di quanto ascoltato-osservato.
Grazie alla sua posizione defilata (posizione che è sia fisica che simbolica), né dentro né fuori il gruppo, ma sul bordo, l’osservatore ha l’opportunità di guardare a distanza ciò che accade durante la seduta e ricomporre il filo dei discorsi che si intrecciano.
In una appassionante visione, sulla scia di Foucault, prima, e Lacan, poi, Serge Gaudé analizza Las meninas di Velasquez dal punto di vista psicodrammatico e individua la figura dell’osservatore in Nieto.
Inserire immagine las meninas
Questo personaggio, collocato sul fondo della rappresentazione pittorica, quasi in ombra, occupa una posizione tale da permettergli l’osservazione dell’intera scena: il pittore che dipinge, la tela rivoltata e non visibile al nostro sguardo, e noi, spettatori del quadro. Una posizione assolutamente cruciale.
Nella seduta di psicodramma la posizione cruciale è quella di cogliere il tema implicito, quello più significativo della seduta e a cui i singoli hanno reagito con ricordi, associazioni, stati affettivi. L’osservatore, che si pone come garante e come punto fisso e interprete di quanto narrato e giocato,
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ascolta il discorso della seduta che elicita le rappresentazioni personali e i consequenziali effetti sui partecipanti;
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segue l’animatore nell’esercizio della sua doppia funzione: in prima istanza ascoltare e punteggiare il discorso di seduta, successivamente smontare il discorso stesso e individuare quel frammento da rappresentare al fine di permettere l’affioramento della questione del soggetto con il suo desiderio;
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“legge” il dramma del soggetto diviso tra la posizione all’interno del romanzo familiare e l’ineluttabilità degli scambi sociali, che si palesa quando il gioco mette in luce la relazione del soggetto con il mondo esterno;
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identifica lo scarto che si manifesta durante la rappresentazione riconoscendo ciò che nel discorso del soggetto porta ad una rottura di senso nonostante le intenzioni coscienti;
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dice su ciò che ha visto e ascoltato.
Ci dicono i Lemoine, riguardo all’osservazione:
«L’osservazione è dunque uno specchio analizzatore che rinvia ciò che è stato scritto ovunque, sia nelle parti parlate, sia nelle parti rappresentate e si condensa appunto nella rappresentazione» (P. e G. Lemoine, Lo psicodramma, Feltrinelli, 1975). Vediamo come in questo testo ci sia una sorta di ambiguità concettuale tra parola parlata e parola scritta in quanto parlata (“ciò che è stato scritto ovunque”), durante la seduta.
Ed ancora: «Chiaramente non si tratta di una riduzione a un’unità che lo spirito sistematico dell’osservatore potrebbe operare per tendenza propria, bensì di un lavoro sufficientemente obiettivo. Non è detto che sia possibile analizzare così facilmente tutte le sedute. Al contrario! Ma lo scarto tra ciò che appare dell’ipogramma 4 e ciò che rimane confuso è già significativo, e costituisce già l’oggetto di una valutazione che non vuole essere né moralistica, né didattica, né interpretativa, ma mero intervento» (ibidem, p.73).
Queste parole raccontano di uno stile che noi cerchiamo sempre di fare nostro, che sentiamo come una linea guida sicura, fondata sulla certezza che l’uomo è preso, addirittura possiamo dire intrappolato, nel linguaggio.
In un lavoro piuttosto denso e complesso del 1971, Lacan afferma: «In altri termini il soggetto è diviso come dappertutto dal linguaggio, ma uno dei registri può soddisfarsi con il riferimento alla scrittura e l’altro con la parola» (J. Lacan, Lituraterra, in Altri scritti, Einaudi, 2013, p.18).
L’uso del “come e quanto” rispetto alla scrittura nelle sedute di psicodramma è per noi sempre fonte di dubbi e riflessioni.
Seguendo gli spunti che ci vengono da Lacan che, da una parte, apre a un mondo affascinante riguardo alla senso della lettera, della scrittura, della letteratura e della misteriosa “lituraterra” e, dall’altra, «La psicoanalisi è ben altro che degli scritti»; ed ancora: «La scrittura è un fare che dà sostegno al pensiero» (J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo, 1975-76, tr. it. Astrolabio, Roma, 2006) siamo anche noi presi dai continui rimandi di significazione tra la teoria psicoanalitica e la sua prassi.
Lacan è veramente un grande maestro nel farci percorrere queste strade assai complicate che ci portano ad esitare, temere, confonderci per poi dare senso al lavoro.
Quale è il senso della lettera «che la si prenda nel senso dell’elemento tipografico, dell’epistola o di quel che costituisce il letterato» 5 che “fa da bordo a un buco”6?
«La lettera non è forse più propriamente … litorale, raffigurando che un intero territorio fa da frontiera per l’altro in quanto essi sono estranei al punto di non essere reciproci?
Il bordo del buco nel sapere, ecco ciò che essa delinea. E se, per l’appunto, occorre che la psicoanalisi non misconosca quel che la lettera dice per bocca sua “alla lettera”, come potrebbe negare che c’è, quel buco, visto che per colmarlo essa ricorre a invocarvi il godimento?
[…] il fatto che essa [la lettera] sia lo strumento appropriato alla scrittura del discorso non la renda impropria a designare nella frase il termine preso per un altro, o da un altro, dunque a simbolizzare certi effetti di significante, ma non comporta affatto che in questi effetti essa sia primaria» (Lituraterra, cit., p.12).
Le parole enigmatiche del maestro francese ci obbligano a guardare dal litorale della scrittura, e non da un confine divisivo, che circonda le lettere il nostro godimento e contemporaneamente ci mette di fronte alla difficoltà di trasmissione del testo scritto.
«[…] “la scrittura è quell’erosione dilavante” (J. Lacan, Il Seminario. Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante, 1971, tr. it. Einaudi, Torino, 2010, p. 115). La lettera è il tratto in cui appare dall’alto il riflesso dell’acqua alloggiata nei marchi, è il luccichio che ci fa intravedere una scrittura di segni ignoti. Sono queste lettere, questi percorsi che l’acqua-godimento disegna, a costituire litura-terra, cioè lo stile di godimento di ciascuno» (M. Cavallo, Artaud e Lacan; web).
Nel testo che apre gli Scritti di Lacan (che peraltro ha scritto abbastanza poco nella sua vita) troviamo: «Se l’uomo arriva a pensare l’ordine simbolico è perché vi è innanzitutto preso nel suo essere. L’illusione di averlo formato con la sua coscienza proviene dal fatto che è per la via di una beanza specifica della sua relazione immaginaria con il suo simile, che egli è potuto entrare in quest’ordine come soggetto» (Il seminario su «La lettera rubata», in Scritti, 2002, p.49).
Parole che mettono in discussione qualsiasi pretesa di certezza e di oggettività nella relazione con l’altro della realtà che, come diceva Elena Croce «fa (e dice) quello che vuole e quello che può» 7.
Quando l’osservatore scrive, per poi dire, le sue parole quanto, nel fermare sulla carta il suo ascolto, è guidato dalla sua relazione immaginaria con l’altro suo simile? E quanto, invece, non è guidato dal suo Altro, nonostante sia guidato dalla sua etica e, pertanto, dal principio di astinenza?
Nel considerare la scrittura in relazione all’essere strumento, tra gli altri, dello psicodramma, cogliamo un paradosso. Infatti, lo scrivere implica tutta una serie di processi motori e concettuali che richiederebbero un tempo ragionevolmente lento, per riuscire a fissare l’ascolto del discorso dell’inconscio che gira assai velocemente nelle sedute. Invece bisogna fermare in un spazio (la carta) e in un tempo (quello che occorre per lo scrivere) ciò che avanza velocemente nel parlare dei partecipanti. Cogliere “al volo” le parole, vuote o piene che siano, dei discorsi indiretti e diretti che si alternano, per poter puntualizzare e rilanciare i significanti.
Ma a nostro avviso l’osservazione ha un grande valore analitico se si presenta come “taglio”, senza pretesa di completezza, con un forte ed implicito scarto tra quanto i pazienti hanno detto e quanto l’osservatore è riuscito a fermare – e scrivere -, ascoltando. Con la consapevolezza di essere vittima della sua condizione umana che, sul piano simbolico, così come è per la scrittura, rappresenta la verità del soggetto: la sua castrazione.