CINZIA CARNEVALI, SONIA SAPONI, STEFANIA FABBRI, SILVIA CICCHETTI
La parola scritta nello psicodramma analitico: l’osservazione come processo.
Dalla riflessione condivisa e scritta fra i colleghi del gruppo SIPsA di supervisione e formazione a Rimini: R. Belpassi, S. Cicchetti, D. Currò Dossi, S. Innocenti, L. Mulazzani, V. Pericoli, T. Raffa, C. Roncarati, S. Fabbri, R. Savioli, R. Secchiaroli, è emerso questo lavoro, che approfondisce e sviluppa il nostro pensare insieme.
Alcune osservazioni emerse
– La parola scritta e riportata dall’osservatore nel gruppo di psicodramma può sciogliere le stereotipie, affinché gli stili acquisiti ma spesso ripetitivi dei pazienti e dei terapeuti possano trasformarsi in modalità più flessibili.
– L’ascolto della parola pensata, proveniente dall’osservazione analitica nel gruppo, favorisce la possibilità di connettersi in modo più profondo alle emozioni e di ampliare la capacità di accoglienza e vicinanza alla sofferenza dei pazienti.
– Il testo, quale testimonianza del mondo interno dei pazienti, vive nel discorso dei suoi narratori e viene condiviso da questi con il narratore – osservatore – analista del gruppo.
– A compiere questa funzione non è tanto l’Io dei soggetti, ma oggetti che abitano l’Io, “altri” che abitano l’Io. Se ne è accorto P. Kluzer (2011) il quale ha rilevato come la parola psicoanalitica appaia al contempo vicina e proveniente da un altrove.
– L’osservazione fa riferimento a ciò che è stato ascoltato, pensato e scritto durante lo svolgimento della seduta, sia nelle parti parlate che in quelle rappresentate. L’osservazione prevede alcuni passaggi nodali che partendo dall’ascolto approdano alla costruzione di una restituzione scritta e orale. Successivamente il testo scritto e il modo in cui è stato restituito al gruppo, vengono nuovamente analizzati e discussi tra le due terapeute. Ne parla anche Romano (2017) nell’esplicitare il metodo dell’analisi di gruppo. L’osservazione scritta e riferita al gruppo favorisce e sostiene la capacità di intuire e registrare l’esperienza, fornendo una possibilità di passaggio dal non pensabile al simbolizzabile, e avvicina all’attività di rappresentazione conscia e inconscia.
Per G. e P. Lemoine (1980): «L’osservazione è il rinvio di una immagine analizzata linguisticamente, non un’interpretazione o una consolazione; non risponde a nessuna domanda proveniente dal gruppo né di soddisfazione narcisistica, né di attacco, né di riduzione».
Scrive René Roussillon (2022): «È frequente leggere a proposito di un’esperienza soggettiva, e in particolare di un’esperienza traumatica che essa è “senza rappresentazione”».
Nello stesso tempo l’esperienza traumatica è reputata aver provocato spavento, angoscia, vissuto di morte imminente, così tanti affetti estremi che non si possono immaginare se non c’è un minimo di rappresentazione. «Non vi è vissuto di morte imminente senza rappresentazione di un danno» (R. Roussillon, 2022). Non c’è spavento senza rappresentazione. Che queste rappresentazioni siano relativamente poco complesse non implica la loro assenza.
Descriveremo il nostro modo di lavorare, osservare e comunicare l’osservazione in un gruppo condotto con il metodo dello psicodramma analitico.
Durante lo svolgimento della seduta di gruppo l’osservatore scrive l’osservazione, un testo in cui si annotano “parole significative”, pensieri e impressioni di chi scrive.
Il testo ha in sé una sua importanza, rappresenta l’oggetto dell’osservazione. Non occorre scrivere proprio tutto, ma quello che si sente e si ritiene significativo durante la seduta. Si scrive quello che ha detto il paziente, ma in realtà, poiché è l’osservatore che scrive, nel testo emergeranno inevitabilmente ma anche auspicabilmente alcune sue espressioni inconsce: dimenticanze, parole che entrano inaspettatamente nel testo e lo animano di aspetti curiosi, incongrui, che l’osservatore ha trascritto ma non ha colto prima.
Tutto questo è paragonabile all’emersione di materiale inconscio che ha a che fare con il metodo analitico. Il testo quindi contiene un inconscio che va riconosciuto e colto nel momento in cui lo sentiamo e lo possiamo affrontare. Superando il modello di un testo “iperconfezionato”, abbiamo riscontrato una buona possibilità di lavoro e in particolare una migliore messa a fuoco dei punti di snodo, delle identificazioni inconsce, delle ripetizioni traumatiche, dell’identità dei pazienti del gruppo, dell’osservatore e del conduttore e della dinamica nel gruppo in quella particolare seduta.
Ad esempio alcune parole scritte dall’osservatore come: “Virus”, “Vaccino”, “Bombardamento”, “Confine”, “Limite”, “Buco” potrebbero essere emerse dal lavoro sul controtransfert.
Perciò, partendo da questi “segnali” è possibile richiamare l’attenzione sui vari movimenti transferali e controtransferali.
Per instaurare un buon clima di lavoro, pensiamo sia fondamentale che l’osservatore trasmetta, attraverso il modo con cui restituisce l’osservazione, una sensazione di sicurezza, libertà e rispetto, così come avviene col paziente nell’analisi individuale.
L’atto dell’osservatore mette in gioco l’ascolto, la fantasia, l’attenzione fluttuante e il cogliere, (come raccomandava E. Molinari) il “punto caldo”, “affettivo”, in cui emergono le formazioni dell’inconscio, un cogliere nelle diverse scene della seduta l’emersione dell’inconscio.
L’osservazione può essere definita come una pratica di ascolto che deriva dalla regola dell’ascolto fluttuante, astinente e dalla pratica dell’osservazione diretta (Brutti 1996, Basile 2021). Oggetto di quest’ascolto sono le dinamiche gruppali, le tracce dell’inconscio, i significanti, il non detto, l’invisibile e gli inciampi del discorso; questi “contenuti” emergono dal campo ristretto dei giochi messi in scena. I giochi sono sempre più o meno organizzati in catene significanti che destano il nostro interesse. Il gioco consiste in un fantasticare e come l’arte e la poesia trova il suo appoggio sia su azioni effettivamente compiute sia sull’immaginario e sul reale qualcosa che cerca di essere letto attraverso elementi che lo avvicinano alla scrittura e che crea uno spazio contrattuale tra il soggetto e l’Altro (Croce E.1990).
L’osservazione ha la funzione di restituire un filo rosso che colleghi il discorso del singolo al discorso del gruppo, per fornire nuovi interrogativi, rovesciare il discorso manifesto, evidenziare il senso derivato dai giochi. La costruzione dell’osservazione implica un doppio registro temporale che tenga presente sia il qui ed ora della seduta sia la storia del gruppo essa viene definita come il vero atto analitico. (Lacan 1966).
L’osservazione può essere scritta durante la seduta e letta al suo termine, ma la si può anche “dichiarare a braccio”.
Con il termine ascolto si fa riferimento all’attenzione fluttuante sull’inconscio individuale e di gruppo, sul non detto, su ciò che distingue soggettivamente i vari partecipanti. Un ascolto silenzioso e astinente. Una lettura delle interazioni in chiave relazionale, psicodinamica e sistemica. Un’individuazione delle identificazioni proiettive che dalla narrazione attraverso il gioco si rivelano. La restituzione dell’osservazione è volta a collegare, sottolineare, provocare l’apertura di collegamenti, svelamenti e nuovi interrogativi.
Materiale clinico di un gruppo di analisi con lo psicodramma analitico
Seduta del gruppo terapeutico:
Giorgia racconta di un padre che cerca di accorciare le distanze che lo separano da lei, invadendo il suo spazio, rischia di stringerla in un abbraccio soffocante che diventa una morsa, per questo lei sa di dover stare sempre in allerta con lui per il timore di perdere il controllo e di tornare al rapporto di un tempo che non le permetteva di emanciparsi.
Nel gioco si vede un padre che entra in casa senza aspettare che gli sia stata aperta la porta, appropriandosi così dello spazio dell’altro. Emerge la paura del contagio del “virus”, Giorgia è molto sulla difensiva e deve continuamente ridefinire i confini, cosa che ha nel tempo imparato a fare ma che le comporta ancora molta fatica. Sente la paura di ricadere nelle vecchie dinamiche, soprattutto in un momento di fragilità.
Maria parla di un padre e di una sorella che nonostante la distanza sono sempre presenti dentro di lei ingombrando molto del suo spazio mentale, come uno spirito che entra dentro in maniera inquietante. Successivamente si gioca la scena di Maria dove si vede la sua chiusura, il bisogno di proteggersi per paura di essere invasa da un “bombardamento” della sorella che parla a raffica; Maria sente il bisogno di essere ascoltata, si sente sola e cerca di sostenersi dall’angoscia di crollare nel “buco nero” depressivo che deriva dall’assenza di figure genitoriali che non “calcolano”, non danno attenzione, come doppia Ester.
L’osservatore tra sé e sé pensa che quando si sente l’angoscia di cadere giù nel buco il rischio che si corre può essere quello di aggrapparsi a difese onnipotenti (maniacali) come “fare 3000 cose” o fidarsi ciecamente di qualcuno che potrebbe truffarci, farci del male.
Le parole “virus”, “confine”, “bombardamento” e “buco”, assumono infine un significato per tutto il gruppo.
Per far fronte all’ambivalenza e alla paura di cadere nel buco, di perdere il sé vitale, e subire un blocco della capacità di pensare, a contatto con angosce profonde e impensabili, occorre un contenitore che sappia dare una pelle contenitiva, una linea che metta distanza, che costruisca un confine.
Occorre definire “il posto per l’altro”, dove si stabiliscono le istanze “sopra l’io”, di regolazione, assistenza, guida, narrazione, ma anche di giudizio, rimprovero e sanzione e naturalmente anche quelle delle patologie illusorie e persecutorie.
L’osservazione nella sua restituzione al gruppo, mette in luce il rischio che per sfuggire al bombardamento dell’altro ci si chiuda in un bunker autistico, un buco nero depressivo da cui può essere difficile uscire, creando confini troppo rigidi fra sé, gli altri e le proprie emozioni sentite troppo forti per essere pensabili.
L’osservazione interroga il gruppo: «Si può pensare insieme alla paura, alla rabbia e al dolore di non essere visti se non al servizio dei bisogni dell’altro? L’altro può essere conosciuto meglio? Possiamo vedere come il rompere i confini e bombardare faccia parte del bisogno dell’altro, del suo buco?». Un altro aggressivo e fragile di cui però non abbiamo la responsabilità di “cura” e così poterci finalmente autorizzare ad una presa di distanza vitale.
Materiale clinico di un gruppo di supervisione on line con lo psicodramma analitico
Nel gruppo si parla dell’ambivalenza, della paura di perdere il sé vitale, di subire un blocco della capacità di pensare a contatto con angosce profonde e impensabili ed emerge il problema di modificare, rendere flessibile il setting, soprattutto in questa situazione pandemica, ascoltando le paure del virus e del vaccino. Si pone anche il problema di come lavorare con pazienti “no-vax”. Vengono messi in luce gli aspetti aggressivi proiettati nel vaccino e nello Stato, il non riconoscimento dell’autorità, la confusione e non differenziazione dei ruoli e della diversità. Aspetti psicotici su cui lavorare analiticamente, aspetti controtrasferali da analizzare.
I cambiamenti, in particolare in questo periodo storico, ci portano a degli adattamenti necessari anche nel setting. L’orientamento-cambiamento di setting è di non far pagare le sedute saltate causa Covid e quarantene, o svolgerle, quando possibile, attraverso modalità on line, come oggi con il gruppo di supervisione.
I no-vax, con la loro negazione del pericolo covid e/o paura del vaccino, ci mettono come terapeuti, con loro nella stessa barca, in contatto con una differenza difficile da accettare perché ci sentiamo particolarmente coinvolti anche sul piano personale.
È qualcosa che ci mette in contatto anche con aspetti della nostra etica personale. Ma cosa portano in seduta le persone che non si vaccinano? Il gruppo s’interroga sul significato del non volersi vaccinare, restando in contatto col controtranfert (sgomento, impotenza, paura, rabbia).
Nel gruppo emerge il tema del “fare i conti”. Qualcosa con cui sembra difficile fare i conti, «non riesco a contare quanti pazienti no-vax ho». Con che cosa ci mettono in contatto questi pazienti con cui non riusciamo/ abbiamo paura di fare i conti?
Dopo un anno e mezzo la pandemia ci costringe a fare dei conti che all’inizio pensavamo di non dover fare.
L’essere umano è inserito in un contesto di appartenenza.
Silvia porta il caso di una paziente, Chiara, che proviene da una realtà comunitaria ma che desidera separarsi/differenziarsi sia dalla Comunità che dal partner. Ha molta angoscia del giudizio e forse ha paura che la sua scelta la porti a perdere dei legami importanti. O sei dentro o sei fuori.
Per Chiara la comunità sembra avere funzionato in un primo momento come un involucro (l’Io- pelle di Anzieu), con funzioni protettive e contenitive dalle angosce di frammentazione e abbandono.
La terapeuta esce dallo studio e l’accompagna a parlare con una persona della Comunità. Questo si configura come acting out del terapeuta?
Si può dire che è un acting necessario affinché la paziente possa fare esperienza di una vicinanza/ alleanza con le proprie parti evolutive e autonome? Forse la terapeuta può temporaneamente funzionare da Io ausiliario per la paziente ancora troppo fragile, in attesa che tale funzione possa venire col tempo interiorizzata.
Pensiamo che il gruppo si sia configurato come un ambiente, un terreno di coltura propizio a far germinare la creatività primaria, permettendo a ciascuno di immaginare, in modo creativo e personale, le forme con cui realizzare la variazione del setting.
Sappiamo che il setting tradizionale, designato anche come dispositivo analitico, è quell’insieme di fattori spazio-temporali e che fa parte della tecnica che include l’analista; è lo strumento fondamentale della nostra pratica clinica. Il setting è, per noi psicoanalisti, come una bussola; ci orienta nel procedere del lavoro con i nostri pazienti e, al tempo stesso, rappresenta un contenitore, un confine, un limite che testimonia anche la nostra finitezza. La terapeuta può fornire un involucro che possa in qualche modo sostituire quello che la paziente teme di perdere, un involucro flessibile che la contenga ma non la ingabbi, non la soffochi, non la “ricatti”, come invece succede nelle relazioni della vita di Chiara.
La paziente è una no-vax convinta, ma a causa di questo sta sabotando la sua vita, il suo lavoro.
C’è un aspetto distruttivo e autodistruttivo totalmente proiettato nel vaccino, un aspetto maligno e pericoloso.
Chiara aveva fatto una prima tranche di terapia anni prima con la stessa terapeuta, ma aveva interrotto.
Ricerca la terapeuta in un momento successivo in cui alcune difficoltà si erano ripresentate, Chiara inizia quindi un nuovo percorso, un progetto vitale, riavvicinandosi alla terapeuta nonostante la paura della dipendenza dalla relazione.
Possiamo pensare che la capacità di accoglienza della terapeuta anni dopo l’interruzione, possa avere in sé un valore terapeutico, fornendo un’esperienza di accettazione della separazione all’interno di un rapporto.
Emerge il tema del ciclo della vita, il ciclo vaccinale, il ciclo mestruale.
Pur stando male con il marito Chiara non riusciva a separarsi. Nel frattempo portava avanti una relazione clandestina con un uomo anch’egli sposato. Riuscirà a parlarne con la terapeuta, forse per paura del giudizio, solo al ritorno, all’inizio della seconda tranche di analisi. Chiara è nata leggermente prematura, resta per un po’ di tempo in incubatrice. La relazione primaria con la madre incontra subito una frattura.
Ai tempi della prima consultazione ha 40 anni, racconta di essere la prima di 4 sorelle, a 17 anni avverte l’esigenza di diventare grande in fretta e uscire da una famiglia cui non si sente di appartenere. Va a vivere nella Comunità, come una seconda famiglia che le possa permettere di poter crescere ancora. Ma la Comunità rivela un lato “oscuro”: «O sei dei nostri o sei fuori».
Mentre scrive, l’osservatrice pensa al film La ragazza del mondo, dove le istanze di autonomia di una ragazza appartenente alla comunità dei Testimoni di Geova vengono fatte vivere come sbagliate, pericolose, in un crescendo di violenza e aggressività mascherate da falso affetto e protezione. Quello che sembra amore da parte della famiglia e della Comunità si trasforma in odio distruttivo, o sei come me o sei fuori. «O sei come noi quindi” buona” e ti accettiamo o sei “cattiva”, quindi “ti facciamo fuori”».
Si gioca la seduta con Chiara. Per rappresentarla la terapeuta sceglie Valentina, che però dichiara che andrà via presto e non sa se farà in tempo a giocare. La scelta potrebbe essere caduta inconsciamente sulla collega per rappresentare qualcosa che può sfuggire, qualcosa che non rimane. Un oggetto reale o un fantasma di Chiara? «Resta fino alla fine” – sembra sia la domanda- non lasciarmi. Stai con me finché non sarò grande abbastanza». Nel contempo la scelta inconscia può rappresentare anche la paura che il legame ti ingabbi, e quindi meglio tenere un piede fuori per salvarsi.
L’osservatrice è colpita dalla scelta e dalla reazione della animatrice che invita Valentina a restare. Inconsciamente sembra concretizzarsi nel qui ed ora la scena – trauma della paziente. La paura di restare ingabbiati in una relazione che ti soffoca, ma anche la difesa preventiva di non potersi permettere di affidarsi ad una sana dipendenza che possa aiutare a crescere.
Nel gioco Chiara racconta di come sia insopportabile stare in casa con un marito che fuma sempre, “appestando” l’aria che diventa tossica e irrespirabile. Daniela doppia la paziente: «Mi appiccico, non riesco a staccarmi, mi sento intossicare».
Torna il tema del fare i conti, forse con la necessità di differenziarsi dal male. Cosa è bene, cosa è male? Nella Comunità questo differenziarsi viene colpevolizzato, come dire non sei un figlio riconoscente se non accetti il nostro modo di vivere. Da ciò si generano rabbia e colpa. Nel cambio di ruoli emerge la possibilità, il poter pensare che sia possibile uscire da una relazione tossica, un tema di speranza. Emerge anche il tema di una Verità. Forse un segreto transgenerazionale?
Nel cambio emergono aspetti distruttivi, che consentono il recupero di parti di sé proiettate nella Comunità, nel marito, nel virus.
Sabrina doppia la terapeuta portando alla luce sia un senso di libertà, sia la paura di far qualcosa di sbagliato. «Sbagliato per me? – Sbagliato per gli altri?».
L’osservazione invita a riflettere sulla fatica e la colpa a separarsi. Separarsi può creare paura, dolore, colpa, ma c’è anche un’urgenza per potersi salvare. C’è il rischio di scivolare in una modalità simbiotica – soffocante – appiccicosa, ma c’è anche il rischio di aggrapparsi all’onnipotenza non fidandosi – affidandosi a nessuno. La “ragazza del mondo” può confondere il bene con il male, adesione appiccicosa alle regole dettate dall’alto, o ascolto delle proprie istanze di autonomia.
Nella seconda parte della supervisione il lavoro si estende (Kaes 2015) all’Istituzione AUSL, al Servizio Salute mentale dove è stato avviato un gruppo di pazienti borderline condotto da Claudio Roncarati (Psichiatra, psicoterapeuta SIPsA) e che era già stato portato in supervisione due mesi prima.
Il terapeuta del gruppo porta il caso di un paziente di 38 anni borderline con problema di dipendenza (alcool e droghe) che nonostante i progressi ottenuti, non riesce a fare un passo decisivo verso la propria autonomia. Si gioca l’ultima seduta per il paziente nel gruppo terapeutico. Matteo ha fatto dei progressi, è riuscito a liberarsi dalla dipendenza da droghe e alcool e ora ha trovato lavoro come cuoco. Tornando a casa trova la moglie, una donna di età molto superiore alla sua, distesa sul divano in uno stato di torpore sotto l’effetto dell’alcool. Si spaventa e si arrabbia con lei, emerge una conflittualità tenuta nascosta come una parte di sé scissa e in ombra. Una parte bambino dipendente che soffre dell’indifferenza materna e che ha paura del buco della separazione.
Al termine del gioco, l’osservatrice che è rimasta colpita dalla parola ombra la utilizza nell’osservazione. L’ombra sembra legata ad un bambino “messo in ombra” dalla depressione della madre, scena che sembra ripetersi ora nella relazione con la compagna, si pensa anche ad una parte in ombra di sé (viene in mente la parte in ombra della luna), quella triste e arrabbiata, la parte che può creare dipendenze tossiche e che è stata proiettata nella compagna. È una situazione che si ripete nel gioco, nel transfert provato verso l’animatore che rappresenta la moglie – madre a cui aggrapparsi fusionalmente per il grande bisogno di cure, dalla quale è necessario anche se difficile staccarsi e differenziarsi.
La paura è anche la paura della componente simbiotica – appiccicosa. Se non sono in simbiosi o mi è mancata la buona simbiosi entro in contatto con un buco, ma il buco non è qualcosa che va riempito, bensì un’apertura che può far emergere qualcosa da dare a sé e all’altro. È un buco che non si può cancellare. Crea angoscia guardare insieme il buco, e in questo senso anche l’analisi può essere temuta come il vaccino.
L’osservatrice riprende le parole dell’animatore del gruppo terapeutico sottolineando la difficoltà di accettare la fine di un sogno d’amore, ma è un sogno d’amore avido, un amore idealizzato dove l’altro è totalmente al servizio dei propri bisogni. Il rischio è che la paziente si metta al servizio dei bisogni dell’altro, negando totalmente i propri e facendo un rovesciamento identificatorio a volte con l’aggressore altre con la vittima, ma la modalità resta la stessa.
Conclusioni
Dall’Io, agenzia psichica delicata e importante, dipendono l’identità e il benessere della persona, che saranno determinate in buona misura dalle qualità di questa funzione mentale, un vero e proprio dono fondativo dell’altro. Nacque quando venne “selezionato” dall’evoluzione, quando ad un primate pre-umano fece seguito un uomo dotato di linguaggio, pulsioni, coscienza ed inconscio.
Questa è la vicenda filogenetica dell’identità cosciente del soggetto. Dopo la scoperta freudiana sappiamo che questa identità è solo una parte del complesso di fattori che formano il soggetto. Ve ne è un’altra, ampia e sconosciuta, ma non meno influente, che è inconscia.
È di quest’ultima che vogliamo parlare. È questo il narratore interiore competente di una narrazione che sfugge in buona parte alla coscienza, perché tracciata nell’area contigua al limite tra preconscio e inconscio.
Lo spazio terapeutico del gruppo di psicodramma può offrire quella protezione, quel calore e quella consapevolezza di sé che possono sostenere il coraggio di liberarsi da una relazione tossica. L’aggressività può emergere dal senso d’impotenza, e portare ad agire fuori controllo in modo distruttivo, per uscire dall’impotenza appunto, ma col rischio di far-farsi male.
Nell’esperienza del gioco e attraverso il cambio di ruolo si riesce a sondare un’area cieca dove si nascondono impulsi omicidi-suicidi, rabbia, vendetta, l’impulso a eliminare l’Altro materno e poi sentirne compassione, in un circuito fatto di rabbia e colpa che non porta a nulla di costruttivo.
Nasce il desiderio di prendere in mano la propria vita e costruire un’identità più autonoma.
La parola scritta permette di dare un nome alle rappresentazioni dell’assenza di rappresentazioni (buco-vaccino); i modi di simbolizzazione dell’assenza potranno cominciare a dispiegarsi e per questo intendiamo l’osservazione come un processo.
La parola nella relazione analitica ci mette in contatto con l’implicito percepito, non conosciuto.
I risultati delle neuroscienze (studi sulla memoria implicita e neuroni a specchio) hanno dato una spinta decisiva all’approfondimento dei meccanismi non interpretativi in psicoanalisi. La “conoscenza implicita ed esplicita” – il fresco linguaggio coniato da Daniel Stern – ha rappresentato un invito per la comunità degli psicoterapeuti italiani a rivedere i valori di normalità e patologia con cui un terapeuta viene formato a leggere il processo terapeutico.
Da tempo oramai si è concordi nel ritenere che prima della parola vi siano atteggiamenti mentali inconsci, che portano a una modifica dell’uso dell’interpretazione nel processo di cambiamento.
Infatti nelle psicoterapie psicoanalitiche vengono costruiti e riorganizzati due tipi di conoscenza, rappresentazione e memoria: uno implicito, l’altro esplicito.
A. Battistini (2017) descrive questi meccanismi mentali oscuri e come si arriva alla conoscenza esplicita e alla consapevolezza. Aspetti impliciti che vengono rappresentati simbolicamente nella forma di immagini o in forme verbali; l’autore sottolinea che l’evento terapeutico che riorganizza la conoscenza esplicita del paziente e dell’analista nel contesto della relazione, transferale e controtransferale è “l’interpretazione”.
La conoscenza implicita è invece inconsapevole ed opera al di fuori del dominio verbale; l’evento terapeutico che riorganizza la conoscenza implicita nel gruppo nel contesto della relazione transferale e controtransferale è il “momento di incontro”.
Questo processo, a livello esplicito e implicito, nel corso del tempo, accresce la capacità riflessiva.
La nostra riflessione si propone di offrire un dialogo e uno spazio che permetta di approfondire le tematiche relative alla “relazione implicita condivisa” ed ai “momenti di incontro” e l’acquisizione di quei “meccanismi non interpretativi prima e interpretativi poi” che contribuiscono all’emergere di nuovi pensieri e a promuovere il cambiamento.
Facciamo riferimento anche al lavoro del gruppo di Boston (B.C.P.S.G.), lavoro i cui viene privilegiato lo studio del cambiamento in psicoterapia, attraverso quelli che gli A.A. chiamano “momento ora”, “conoscenza relazionale implicita, “momento di incontro”,” processo di riconoscimento”.
Si può pensare all’osservazione come il “momento di incontro “in cui afferiscono le riflessioni e gli svelamenti in parole, trasmesse con un tono della voce affettivo, con l’accoglienza e il non giudizio, parole che possano condensare l’esperienza vissuta e creare autentica occasione di cambiamento.
Il testo, la testimonianza di un mondo interno del paziente, vive nel discorso del suo narratore e viene condiviso da questo con il narratore dell’analista. Non è l’io dei soggetti a compiere questa funzione, ma oggetti che abitano l’io, “altri”.
Vi è, inoltre, un elemento caratteristico dell’osservazione-interpretazione intesa come “funzione di visione che concerne il sapere” (Gaudè, 2015) che riteniamo necessario introdurre.
È forse la dimensione “drammatica” che essa deve avere?
Il primo ad accorgersene è Grotstein (Grotstein,1979, 2009). Il logos deve portare alla coscienza dalle profondità dell’inconscio il pathos, con il quale si è collegato. È così che l’interpretazione psicoanalitica «mette in gioco relazioni di forza» (Ricoeur, 1965, p.340).
Adesso possiamo mettere insieme «l’incontro tra i due narratori, la dimensione drammatica del testo che essi costruiscono e la valenza artistica e terapeutica del loro lavoro» (Di Chiara, 2022).
Se la costruzione del testo procede, guidata dal discorso sistematico, teoria e tecnica psicoanalitiche, l’interpretazione del testo procede guidata dal discorso narrativo che dà senso, poesia e drammaticità al testo con la capacità interpretativa dello psicodrammatista.
Scopriamo così che l’osservatore nel processo psicodrammatico, narratore psicoanalitico, ci può dare delle risposte sui temi dell’arte e della cura.
Bibliografia
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